- Gnosticismo e psicanalisi.
Diciamoci la verità:
pochi argomenti sono così ostici come la dottrina gnostica per chi, pieno di
lodevoli propositi, si impegna nello studio delle culture iniziatiche. Una
delle principali difficoltà di questo argomento è il fatto che lo gnosticismo
non è affatto un fenomeno unitario. Le sue radici sono varie: vi confluisce la
tradizione misterica, l’ermetismo d’origine egiziana, la qabbala, il giudaismo alessandrino...
Peraltro le dottrine gnostiche si sviluppano in un arco temporale assai ampio
che va da I secolo, sino al IV secolo dopo Cristo, in altre parole esse nascono
già a pochi anni dalla morte di Cristo, in un’epoca in cui ancora sono vivi e
operano gli apostoli! Ha ragione chi dice che esistono tante gnosi quanti sono
stati gli gnostici. E questo non facilita affatto il nostro compito. Come
sappiamo, lo gnosticismo parte dal presupposto che la comprensione dei misteri
divini è concessa ad una ristretta cerchia d’iniziati, che la conoscenza è un
processo individuale e non il frutto di una rivelazione divina, che essa è indipendente
dall’esperienza sensibile e che l’uomo saggio deve astrarsi dal mondo materiale.
Ma non è mia intenzione produrre altra carta scritta ai danni del povero malcapitato
che si accinge ad affrontare lo spinoso argomento. Piuttosto vorrei esplorare un’altra
interpretazione dello gnosticismo, che a me piace più di ogni altra: è un’interpretazione
che non ha nulla di storico o di teologico, ma che è esistenziale, che
coinvolge la vita, il destino, l’essere stesso dell’uomo nella sua interezza.
In altre parole, un’interpretazione psicologica. E’stato detto più volte che
dietro ogni gnostico si cela un pessimista. Qualcuno ha coniato anche la definizione
di “pessimismo gnostico”. Non vi è niente di più vero. Secondo
l’interpretazione psicologica dello gnosticismo, sviluppata soprattutto da
Henry-Charles Puech, lo gnostico è, in realtà, un uomo che ha preso coscienza
del male di cui è intessuto il mondo e la storia degli uomini e ciò gli provoca
un profondo disagio. Egli non si sente di accettare tutto questo: si sente straniero
alla logica del mondo che lo circonda, sente di essere “in questo mondo” ma non
“di questo mondo”: si sente una sorta di “angelo caduto” che non può che provenire
da una realtà diversa da quella che vede e, quasi sempre, subisce. Egli
percepisce che “non può essere tutto qui”. Da questa sensazione di grande
disagio e insoddisfazione nascono i tre interrogativi centrali dello gnostico:
“chi sono, da dove vengo, dove vado?” E la risposta non può che venire da una
conoscenza che è spirituale. E la risposta non può venire che dal profondo di
sé. Lo gnostico, qualunque sia la sua provenienza e il suo nome, ha cercato di dare
una risposta ad un interrogativo centrale lasciato aperto, allora come ora,
dalle Sacre Scritture. Il grande interrogativo, quello più drammatico è quello
noto con il nome di “teodicea”: il rapporto tra Dio e il male. Gli gnostici si
pongono un dilemma centrale: se Dio è infinitamente buono, perché ha creato il
male? Perché dobbiamo assistere quotidianamente alla vittoria nel mondo della
sofferenza, del dolore, della malattia, della morte inaccettabile di bambini o
di innocenti? Come può un’entità infinitamente buona e giusta aver voluto tutto
questo? Il termine teodicea è stato introdotto da Leibnitz, ma questi
interrogativi, come dicevamo, hanno cominciato ad animare il dibattito
teologico già all’indomani della morte di Cristo e sono rimasti sempre degli
enigmi. Gli esempi, in ogni tempo, non mancano, e ognuno di noi potrebbe trovarne
di nuovi. Il primo novembre 1755, il giorno dei Santi, un tremendo tsunami si
abbatte su Lisbona. Un’onda alta sedici metri semina morti e rovina. Tra
l’altro, uccide numerosi fedeli riuniti in preghiera nella cattedrale. Due
bambini sono schiacciati sotto il crocifisso. Il fratello Voltaire è molto colpito
da questo avvenimento e ad esso dedica il Poema sul disastro di Lisbona. “Bisogna
ammetterlo” dirà, “il male è sulla terra”. Tutti noi siamo stati peraltro
testimoni oculari, attraverso le immagini dei video, dello tsunami del 2004. Si
potrebbe anche ricordare l’Olocausto degli ebrei durante la seconda guerra
mondiale. Dove era Dio, mentre i bambini più “fortunati” venivano avviati a
migliaia nelle camere a gas e i meno fortunati sottoposti a torture in
deliranti esperimenti medici? Molti di noi ricordano ne I fratelli Karamazof la ribellione di Ivan a Dio per la
sofferenza di un bambino innocente. Il filosofo Hans Jonas ci riporta ad un interrogativo
tremendo per la sua centralità e molto intessuto di gnosticismo: se è vero che
Dio è onnipotente non è completamente buono, se è buono, allora egli è
impotente su questa terra. Non si sfugge. La teodicea è un grande enigma,
tuttora al centro delle riflessioni dei teologi, anche se le Chiese sono assai
prudenti nel dare pubblicità a questo delicato tema. Gran parte della
riflessione gnostica tenta invece di dare una aperta risposta a tale dilemma.
Nel 1974 Ernest Becker vince il premio Pulitzer con il libro The denial of death (La negazione della
morte). Con quest’opera egli, nei fatti, fonda una nuova corrente della
psicanalisi. E’una corrente che ribalta completamente la dottrina freudiana
della sessualità e rifonda la psicanalisi sulla base di una teoria unitaria che
collega medicina, filosofia e spiritualità. Nello stesso anno della
pubblicazione del libro Becker, a soli 50 anni, muore. La teoria psicanalitica
dell’autore ha impressionanti analogie con il pensiero gnostico. Secondo Becker,
nel corso del suo sviluppo mentale il bambino prende lentamente coscienza del fatto
che il suo corpo è fragile: capisce che dovrà provare il dolore, dovrà
ammalarsi, soffrire e, soprattutto, di dover dipendere dagli altri. Più in là
negli anni si fa strada nella sua mente una drammatica consapevolezza: quella
che esiste la morte: il bambino realizza che tutti gli esseri viventi intorno a
lui sono destinati all’annullamento: le piante, gli animali e anche i suoi
familiari, primi fra tutti i più vecchi tra loro. Ma non solo loro. Egli capisce
di essere rinchiuso in un corpo abbandonato e inerme, destinato alla stessa fine.
Egli giunge poco alla volta alla drammatica consapevolezza che Madre Natura è una
divinità brutale che distrugge tutto quello che crea. Ma nello stesso tempo, se
non prima della scoperta di vivere all’interno di un corpo condannato a
soffrire e a perire, il bambino prende coscienza di possedere un bene prezioso;
la sua mente, il suo Io. Egli non è come gli oggetti e gli animali che ha intorno.
E’ diverso, migliore, dal resto del mondo che lo circonda. Grazie alla sua
mente il bambino può comprendere la realtà in cui vive, può fare mille cose,
può dipingere, costruire, persino sfuggire alle punizioni dei genitori. Dentro
di lui c’è un ché di divino... E allora, il bambino si chiede: come è possibile
che una cosa così nobile e preziosa, come la mia intelligenza, sia racchiusa in
un corpo così fragile, così dipendente dai bisogni materiali e dall’aiuto degli
altri, senza il quale si è persi? Come è possibile che questo corpo, destinato
alla rovina e alla morte debba trascinare con sé, nel baratro, la mia mente, il
mio Io? Da questo drammatico contrasto tra la nobiltà di quello che il bambino
sente dentro di sé e la fragilità della materia con cui è costruito il suo
corpo nasce, già durante la sua infanzia, la consapevolezza di essere, come
dice Becker, “un Dio seduto sul proprio ano”. Questa teoria supera e assorbe in
sé la teoria freudiana sulla sessualità: le repressioni che il nostro inconscio
esercita sugli istinti sessuali altro non sarebbero che la repressione inconscia
di tutto ciò che ci ricorda che siamo, come ogni altro animale, destinati a tre
compiti fondamentali: nascere, riprodurci e morire. E allora come fare, quando
si arriva a questa consapevolezza? Come riuscire a sostenere il peso di tutta
una vita dopo aver fatto la drammatica scoperta che tutta la bellezza, tutta la
nobiltà della nostra mente è racchiusa in un corpo corruttibile, destinato inesorabilmente
alla morte? “La condizione umana - dice Becker - è un peso troppo grande per
essere sostenuto da un animale”. L’unica strada consiste nel trovare il modo di
negare la morte, nell’opporsi ad essa, nel contrapporre al progetto universale
in cui l’unico nostro ruolo è quello di nascere, riprodursi e togliersi
rapidamente di mezzo, un progetto in cui è l’uomo al centro del suo destino. La
posta in gioco è altissima: chi non riesce a dare un senso alla propria vita, a
sfuggire quell’ immane tritacarne che è il progetto universale cade, secondo
Becker, nell’alienazione, nella malattia mentale. Ma non mi soffermerò sugli
aspetti più squisitamente psicanalitici della teoria. I sistemi per difenderci
dall’ansia devastante che ci deriva dal terrore della morte sono diversi. E
collocati strategicamente su tre livelli. Il primo livello è quello
dell’inconscio. Il nostro inconscio ci racconta “preziose bugie” che ci
nascondono in ogni momento della nostra vita l’ineluttabile prospettiva della
sofferenza e della morte. Una seconda e più complessa linea difensiva è
rappresentata dalla società, che fornisce l’opportunità di inserirci in un sistema
culturale che ci consente di partecipare a un progetto politico o sociale che durerà
nel tempo, oltre la nostra vita e darà un senso ad essa. L’uomo ha di volta in
volta ottenuto surrogati di immortalità sacrificando la sua vita per
conquistare un impero, per edificare un tempio, per scrivere un libro, per
costruire una famiglia, per accumulare una fortuna economica, o per affermare un’ideologia.
Ma queste due prime linee di difesa sono fragili: l’inconscia fuga dalla morte ha
presto fine quando ci rendiamo inevitabilmente conto che tutto ciò che ci
sforziamo di negare e lì, inesorabile, ad attenderci. Anche i progetti “eterni”
che la cultura ci fornisce durano assai poco: potremo gridare quanto vogliamo
che Dio è dalla nostra parte, dalla parte della nostra religione, della nostra ideologia:
ci troveremo ben presto di fronte ai nostri avversari che corrono contro di noi
gridando a squarciagola la stessa cosa. E allora, secondo Becker, la terza via,
l’unica praticabile, è quella indicata dal filosofo, che Becker considera un
grande precursore della psicanalisi: Sören Kierkegaard. E’il ritorno ad una
spiritualità, che non è identificabile con una religione positiva, ma che nasce
da un rapporto diretto e personale con il Dio. Le teorie psicanalitiche di
Becker hanno avuto grande attenzione da parte degli esperti, ma pochissimo
successo di pubblico (i suoi libri, per esempio, non sono mai stati tradotti in
Italia) ed è facile prevedere che non lo avranno mai perché la sua ricetta è
assai amara: bisogna avere il coraggio di “guardare in faccia la morte” senza
nasconderla a noi stessi. L’unica reale consolazione ci può venire dal guardare
al di là di essa, alla ricerca di un’unione con un Dio che, inevitabilmente, non
può condividere le logiche di una Madre Natura che, come dice lui, è “una
brutale megera dai denti e dagli artigli rossi di sangue, che distrugge tutto
quel che crea”. Noi viviamo in un mondo nel quale l’attività quotidiana di ogni
essere vivente è quella di “sbranare le altre creature con denti di ogni tipo,
masticando e triturando tra i molari carne e ossa, inghiottendole con gusto e bramosia,
per poi inglobare l’essenza delle vittime nella propria organizzazione e infine
espellendo i residui con gas di immondo fetore”. Dunque il Dio di Becker, il
Dio da cui l’uomo può trarre consolazione, è un Dio distinto e contrapposto a
Madre Natura. E anche in questo la psicanalisi di Becker ricorda il pensiero
gnostico. Infatti, secondo gran parte del pensiero gnostico l’enigma postoci
dalla teodicea si può comporre solo se postuliamo la coesistenza di due
distinte divinità: una, in definitiva, vittoriosa e maligna, l’altra benigna ma
lontana. Ed è sul terreno dualistico che si accendono le costruzioni gnostiche
più ardite, se la presenza di due divinità ci consente di interpretare
l’esistenza del male, la dinamica tra le due divinità assume i caratteri più
diversi: di volta in volta il Dio è un combattente eroico, ma sconfitto dagli
arconti malvagi, altre volte è un re fannullone, lontano dal dramma della vita,
oppure il Dio del Nuovo Testamento contrapposto a quello del Vecchio, e così
via. Le costruzioni gnostiche sono complicate, spesso astruse, a volte
francamente incomprensibili. Ma non bisogna mai intenderle in senso letterale:
dietro la loro complessa simbologia si nasconde il tentativo di separare
nettamente le logiche del mondo materiale, dominato dal dolore e dalla morte,
da quelle del mondo dello spirito e dell’Io, categorie in cui possiamo proiettare
tutte le nostre speranze e nella cui prospettiva possiamo sentirci dei
“liberati in vita”. In definitiva, le nuove e ardite teorie della psicanalisi
fanno ritornare di sconcertante attualità il pensiero di questi nostri antichi
Fratelli, spesso un così difficili da studiare e da capire.
PAOLO MAGGI
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1 commento:
Vorrei conoscere qualche dettaglio dell'immagine a testa di questo articolo. Grazie
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