20 marzo 2013

- Gnosticismo e psicanalisi.




Diciamoci la verità: pochi argomenti sono così ostici come la dottrina gnostica per chi, pieno di lodevoli propositi, si impegna nello studio delle culture iniziatiche. Una delle principali difficoltà di questo argomento è il fatto che lo gnosticismo non è affatto un fenomeno unitario. Le sue radici sono varie: vi confluisce la tradizione misterica, l’ermetismo d’origine egiziana, la qabbala, il giudaismo alessandrino... Peraltro le dottrine gnostiche si sviluppano in un arco temporale assai ampio che va da I secolo, sino al IV secolo dopo Cristo, in altre parole esse nascono già a pochi anni dalla morte di Cristo, in un’epoca in cui ancora sono vivi e operano gli apostoli! Ha ragione chi dice che esistono tante gnosi quanti sono stati gli gnostici. E questo non facilita affatto il nostro compito. Come sappiamo, lo gnosticismo parte dal presupposto che la comprensione dei misteri divini è concessa ad una ristretta cerchia d’iniziati, che la conoscenza è un processo individuale e non il frutto di una rivelazione divina, che essa è indipendente dall’esperienza sensibile e che l’uomo saggio deve astrarsi dal mondo materiale. Ma non è mia intenzione produrre altra carta scritta ai danni del povero malcapitato che si accinge ad affrontare lo spinoso argomento. Piuttosto vorrei esplorare un’altra interpretazione dello gnosticismo, che a me piace più di ogni altra: è un’interpretazione che non ha nulla di storico o di teologico, ma che è esistenziale, che coinvolge la vita, il destino, l’essere stesso dell’uomo nella sua interezza. In altre parole, un’interpretazione psicologica. E’stato detto più volte che dietro ogni gnostico si cela un pessimista. Qualcuno ha coniato anche la definizione di “pessimismo gnostico”. Non vi è niente di più vero. Secondo l’interpretazione psicologica dello gnosticismo, sviluppata soprattutto da Henry-Charles Puech, lo gnostico è, in realtà, un uomo che ha preso coscienza del male di cui è intessuto il mondo e la storia degli uomini e ciò gli provoca un profondo disagio. Egli non si sente di accettare tutto questo: si sente straniero alla logica del mondo che lo circonda, sente di essere “in questo mondo” ma non “di questo mondo”: si sente una sorta di “angelo caduto” che non può che provenire da una realtà diversa da quella che vede e, quasi sempre, subisce. Egli percepisce che “non può essere tutto qui”. Da questa sensazione di grande disagio e insoddisfazione nascono i tre interrogativi centrali dello gnostico: “chi sono, da dove vengo, dove vado?” E la risposta non può che venire da una conoscenza che è spirituale. E la risposta non può venire che dal profondo di sé. Lo gnostico, qualunque sia la sua provenienza e il suo nome, ha cercato di dare una risposta ad un interrogativo centrale lasciato aperto, allora come ora, dalle Sacre Scritture. Il grande interrogativo, quello più drammatico è quello noto con il nome di “teodicea”: il rapporto tra Dio e il male. Gli gnostici si pongono un dilemma centrale: se Dio è infinitamente buono, perché ha creato il male? Perché dobbiamo assistere quotidianamente alla vittoria nel mondo della sofferenza, del dolore, della malattia, della morte inaccettabile di bambini o di innocenti? Come può un’entità infinitamente buona e giusta aver voluto tutto questo? Il termine teodicea è stato introdotto da Leibnitz, ma questi interrogativi, come dicevamo, hanno cominciato ad animare il dibattito teologico già all’indomani della morte di Cristo e sono rimasti sempre degli enigmi. Gli esempi, in ogni tempo, non mancano, e ognuno di noi potrebbe trovarne di nuovi. Il primo novembre 1755, il giorno dei Santi, un tremendo tsunami si abbatte su Lisbona. Un’onda alta sedici metri semina morti e rovina. Tra l’altro, uccide numerosi fedeli riuniti in preghiera nella cattedrale. Due bambini sono schiacciati sotto il crocifisso. Il fratello Voltaire è molto colpito da questo avvenimento e ad esso dedica il Poema sul disastro di Lisbona. “Bisogna ammetterlo” dirà, “il male è sulla terra”. Tutti noi siamo stati peraltro testimoni oculari, attraverso le immagini dei video, dello tsunami del 2004. Si potrebbe anche ricordare l’Olocausto degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Dove era Dio, mentre i bambini più “fortunati” venivano avviati a migliaia nelle camere a gas e i meno fortunati sottoposti a torture in deliranti esperimenti medici? Molti di noi ricordano ne I fratelli Karamazof la ribellione di Ivan a Dio per la sofferenza di un bambino innocente. Il filosofo Hans Jonas ci riporta ad un interrogativo tremendo per la sua centralità e molto intessuto di gnosticismo: se è vero che Dio è onnipotente non è completamente buono, se è buono, allora egli è impotente su questa terra. Non si sfugge. La teodicea è un grande enigma, tuttora al centro delle riflessioni dei teologi, anche se le Chiese sono assai prudenti nel dare pubblicità a questo delicato tema. Gran parte della riflessione gnostica tenta invece di dare una aperta risposta a tale dilemma. Nel 1974 Ernest Becker vince il premio Pulitzer con il libro The denial of death (La negazione della morte). Con quest’opera egli, nei fatti, fonda una nuova corrente della psicanalisi. E’una corrente che ribalta completamente la dottrina freudiana della sessualità e rifonda la psicanalisi sulla base di una teoria unitaria che collega medicina, filosofia e spiritualità. Nello stesso anno della pubblicazione del libro Becker, a soli 50 anni, muore. La teoria psicanalitica dell’autore ha impressionanti analogie con il pensiero gnostico. Secondo Becker, nel corso del suo sviluppo mentale il bambino prende lentamente coscienza del fatto che il suo corpo è fragile: capisce che dovrà provare il dolore, dovrà ammalarsi, soffrire e, soprattutto, di dover dipendere dagli altri. Più in là negli anni si fa strada nella sua mente una drammatica consapevolezza: quella che esiste la morte: il bambino realizza che tutti gli esseri viventi intorno a lui sono destinati all’annullamento: le piante, gli animali e anche i suoi familiari, primi fra tutti i più vecchi tra loro. Ma non solo loro. Egli capisce di essere rinchiuso in un corpo abbandonato e inerme, destinato alla stessa fine. Egli giunge poco alla volta alla drammatica consapevolezza che Madre Natura è una divinità brutale che distrugge tutto quello che crea. Ma nello stesso tempo, se non prima della scoperta di vivere all’interno di un corpo condannato a soffrire e a perire, il bambino prende coscienza di possedere un bene prezioso; la sua mente, il suo Io. Egli non è come gli oggetti e gli animali che ha intorno. E’ diverso, migliore, dal resto del mondo che lo circonda. Grazie alla sua mente il bambino può comprendere la realtà in cui vive, può fare mille cose, può dipingere, costruire, persino sfuggire alle punizioni dei genitori. Dentro di lui c’è un ché di divino... E allora, il bambino si chiede: come è possibile che una cosa così nobile e preziosa, come la mia intelligenza, sia racchiusa in un corpo così fragile, così dipendente dai bisogni materiali e dall’aiuto degli altri, senza il quale si è persi? Come è possibile che questo corpo, destinato alla rovina e alla morte debba trascinare con sé, nel baratro, la mia mente, il mio Io? Da questo drammatico contrasto tra la nobiltà di quello che il bambino sente dentro di sé e la fragilità della materia con cui è costruito il suo corpo nasce, già durante la sua infanzia, la consapevolezza di essere, come dice Becker, “un Dio seduto sul proprio ano”. Questa teoria supera e assorbe in sé la teoria freudiana sulla sessualità: le repressioni che il nostro inconscio esercita sugli istinti sessuali altro non sarebbero che la repressione inconscia di tutto ciò che ci ricorda che siamo, come ogni altro animale, destinati a tre compiti fondamentali: nascere, riprodurci e morire. E allora come fare, quando si arriva a questa consapevolezza? Come riuscire a sostenere il peso di tutta una vita dopo aver fatto la drammatica scoperta che tutta la bellezza, tutta la nobiltà della nostra mente è racchiusa in un corpo corruttibile, destinato inesorabilmente alla morte? “La condizione umana - dice Becker - è un peso troppo grande per essere sostenuto da un animale”. L’unica strada consiste nel trovare il modo di negare la morte, nell’opporsi ad essa, nel contrapporre al progetto universale in cui l’unico nostro ruolo è quello di nascere, riprodursi e togliersi rapidamente di mezzo, un progetto in cui è l’uomo al centro del suo destino. La posta in gioco è altissima: chi non riesce a dare un senso alla propria vita, a sfuggire quell’ immane tritacarne che è il progetto universale cade, secondo Becker, nell’alienazione, nella malattia mentale. Ma non mi soffermerò sugli aspetti più squisitamente psicanalitici della teoria. I sistemi per difenderci dall’ansia devastante che ci deriva dal terrore della morte sono diversi. E collocati strategicamente su tre livelli. Il primo livello è quello dell’inconscio. Il nostro inconscio ci racconta “preziose bugie” che ci nascondono in ogni momento della nostra vita l’ineluttabile prospettiva della sofferenza e della morte. Una seconda e più complessa linea difensiva è rappresentata dalla società, che fornisce l’opportunità di inserirci in un sistema culturale che ci consente di partecipare a un progetto politico o sociale che durerà nel tempo, oltre la nostra vita e darà un senso ad essa. L’uomo ha di volta in volta ottenuto surrogati di immortalità sacrificando la sua vita per conquistare un impero, per edificare un tempio, per scrivere un libro, per costruire una famiglia, per accumulare una fortuna economica, o per affermare un’ideologia. Ma queste due prime linee di difesa sono fragili: l’inconscia fuga dalla morte ha presto fine quando ci rendiamo inevitabilmente conto che tutto ciò che ci sforziamo di negare e lì, inesorabile, ad attenderci. Anche i progetti “eterni” che la cultura ci fornisce durano assai poco: potremo gridare quanto vogliamo che Dio è dalla nostra parte, dalla parte della nostra religione, della nostra ideologia: ci troveremo ben presto di fronte ai nostri avversari che corrono contro di noi gridando a squarciagola la stessa cosa. E allora, secondo Becker, la terza via, l’unica praticabile, è quella indicata dal filosofo, che Becker considera un grande precursore della psicanalisi: Sören Kierkegaard. E’il ritorno ad una spiritualità, che non è identificabile con una religione positiva, ma che nasce da un rapporto diretto e personale con il Dio. Le teorie psicanalitiche di Becker hanno avuto grande attenzione da parte degli esperti, ma pochissimo successo di pubblico (i suoi libri, per esempio, non sono mai stati tradotti in Italia) ed è facile prevedere che non lo avranno mai perché la sua ricetta è assai amara: bisogna avere il coraggio di “guardare in faccia la morte” senza nasconderla a noi stessi. L’unica reale consolazione ci può venire dal guardare al di là di essa, alla ricerca di un’unione con un Dio che, inevitabilmente, non può condividere le logiche di una Madre Natura che, come dice lui, è “una brutale megera dai denti e dagli artigli rossi di sangue, che distrugge tutto quel che crea”. Noi viviamo in un mondo nel quale l’attività quotidiana di ogni essere vivente è quella di “sbranare le altre creature con denti di ogni tipo, masticando e triturando tra i molari carne e ossa, inghiottendole con gusto e bramosia, per poi inglobare l’essenza delle vittime nella propria organizzazione e infine espellendo i residui con gas di immondo fetore”. Dunque il Dio di Becker, il Dio da cui l’uomo può trarre consolazione, è un Dio distinto e contrapposto a Madre Natura. E anche in questo la psicanalisi di Becker ricorda il pensiero gnostico. Infatti, secondo gran parte del pensiero gnostico l’enigma postoci dalla teodicea si può comporre solo se postuliamo la coesistenza di due distinte divinità: una, in definitiva, vittoriosa e maligna, l’altra benigna ma lontana. Ed è sul terreno dualistico che si accendono le costruzioni gnostiche più ardite, se la presenza di due divinità ci consente di interpretare l’esistenza del male, la dinamica tra le due divinità assume i caratteri più diversi: di volta in volta il Dio è un combattente eroico, ma sconfitto dagli arconti malvagi, altre volte è un re fannullone, lontano dal dramma della vita, oppure il Dio del Nuovo Testamento contrapposto a quello del Vecchio, e così via. Le costruzioni gnostiche sono complicate, spesso astruse, a volte francamente incomprensibili. Ma non bisogna mai intenderle in senso letterale: dietro la loro complessa simbologia si nasconde il tentativo di separare nettamente le logiche del mondo materiale, dominato dal dolore e dalla morte, da quelle del mondo dello spirito e dell’Io, categorie in cui possiamo proiettare tutte le nostre speranze e nella cui prospettiva possiamo sentirci dei “liberati in vita”. In definitiva, le nuove e ardite teorie della psicanalisi fanno ritornare di sconcertante attualità il pensiero di questi nostri antichi Fratelli, spesso un così difficili da studiare e da capire.
PAOLO MAGGI
__________________



1 commento:

Anonimo ha detto...

Vorrei conoscere qualche dettaglio dell'immagine a testa di questo articolo. Grazie