30 maggio 2013

- Per G. Raffi



Tutti i Fratelli  dell’Acacia 577  Napoli si stringono in Catena d'affetto unendosi al dolore del Venerabile Gran Maestro Raffi. 

22 maggio 2013

- IL TARANTISMO




Il Tarantismo, suoni, colori, voci e danze in un rituale terapeutico Salentino.
Le sorprendenti analogie con rituali africani
L’idea di questo saggio nasce dalla lettura del testo dello studioso francese Gilbert Rouget dal titolo “La musique et la transe: Esquisse d’une théorie générale des relations de la musique et de la possession”, edito da Gallimard a Parigi nel 1980. Chi scrive ha avuto accesso alla traduzione inglese del testo suddetto, pubblicata nel 1985 dalla University of Chicago, con il titolo “Music and trance, a theory of the relations between music and possession”, pertanto qualunque citazione farà riferimento alla versione di oltre oceano.
L’opera di Rouget, per altri versi molto completa, sottovaluta in maniera imperdonabile il lavoro condotto da Ernesto De Martino relativamente al fenomeno del tarantismo pugliese, liquidandolo, con un’analisi a dir poco disattenta e superficiale, come uno dei tanti casi di possessione rituale diffusi a livello mondiale. Secondo Rouget, inoltre, questo fenomeno non osa configurarsi come tale né osa riconoscere la propria identità a causa della sua posizione marginale rispetto al Cattolicesimo dominante in Italia. Di conseguenza, il tarantismo si maschera come ciò che non è, assumendo le sembianze di rituale terapeutico (Rouget, 1985, 161). Lo stesso De Martino viene aspramente redarguito, accusato di oscurare in maniera intenzionale il significato fondamentale del fenomeno considerato. Lo studioso, secondo Rouget, si perderebbe nelle sue analisi simboliche nel tentativo di vedere nel tarantismo qualcosa d’altro, ignorando la pura e semplice realtà (Rouget, ibidem). A questo punto è interessante citare Clara Gallini, che si chiede se le due ipotesi non possano essere entrambe accettate,in quanto aspetti diversi della stessa realtà (1988).
Gilbert Rouget dà prova di aver dato solo una lettura superficiale a “La terra del rimorso”, ricavandone, così, solo un’idea parziale. Egli afferma che le parole “possessione” e “trance” non appaiono nell’indice de “La Terra del Rimorso”(1985, 159). Quanto riferisce è vero: queste parole non appaiono nell’indice, però appaiono, e più di una volta, nel testo stesso! A pagina 166, ad esempio, De Martino cita di una tarantola il cui nome è signora Faustina, che obbliga l’uomo che essa possiede ad andare al monastero di santa Maria della Scala con due spade in mano. Nella stessa pagina si legge che il tarantato, obbedendo agli ordini della signora Faustina, la tarantola che lo possiede, torna a casa, continuando a ballare e a roteare le spade. A pagina 172 la tarantola è descritta come uno spirito che possiede e che può essere controllato dall’esorcismo. Nell’appendice, a pagina 301, lo psichiatra Giovanni Jervis considera il tarantismo come una forma di delirio o di possessione.
“Trance” e “possessione” non appaiono, come parole, nell’indice, ma appaiono, come concetti, nel testo. Dove è, dunque, la differenza? Non ci troviamo, forse, in presenza di un cavillo, di un dato del tutto trascurabile?
A questo punto, è giunto il momento di confutare Rouget per la seconda volta. Come già menzionato in precedenza, lo studioso nega che il tarantismo sia un rituale terapeutico. In questa sede, dimostreremo, al contrario, che il tarantismo è una terapia coreutico-cromatico-musicale e, in quanto tale, presenta numerose affinità con altre terapie rituali analoghe appartenenti ad altre culture.
Sintetizziamo brevemente i dati salienti del tarantismo, per poi poterli raffrontare con le caratteristiche di terapie diverse.
Il nome “tarantismo” viene dalla parola taranta, che è la versione in dialetto salentino (parlato, appunto, nel Salento, una zona della Puglia nella quale fu condotta la ricerca) di tarantola, ovvero un ragno il cui morso è velenoso. Il suo nome scientifico è Latrodectus tredecimguttatus, ma sembra che la taranta sia identificabile anche con la Lycosa tarentula, un altro ragno dalle caratteristiche affini. Il Latrodectus tredecimguttatus è molto simile al Latrodectus mactans, un ragno presente negli Stati Uniti, comunemente chiamato vedova nera.
Tradizionalmente, il fenomeno del tarantismo è associato con il morso della tarantola, episodio (più presunto che reale, la maggior parte delle volte) che dà origine a tutta una serie di comportamenti rituali culturalmente codificati. Le vittime del morso della tarantola sono prevalentemente donne, che vivono o lavorano in un ambiente contadino, appartengono ad un gruppo sociale economicamente svantaggiato, culturalmente marginale per varie ragioni .
Il morso della tarantola causa una serie di sintomi psico-fisici. La donna interessata siede o giace in uno stato stuporoso, completamente indifferente ad ogni stimolo esterno, come voci, suoni, contatto fisico. Talvolta non batte neppure le ciglia quando un oggetto viene posto sotto i suoi occhi, sembra essere totalmente dimentica di se stessa e del mondo che la circonda. Non mangia, a meno che non sia forzata a farlo, non dorme, non avverte alcuna esigenza fisica.
In tali casi, la diagnosi è scontata: si tratta della taranta. L’unico modo per guarire la sfortunata donna e per restituirla al suo sistema sociale è quello di sottoporla alla cura tradizionale: “i suoni”. un tipo di musica ritualmente codificata. Questa musica è in genere suonata da un gruppo formato da un violino, un tamburello (che sono i due strumenti principali), una chitarra ed una fisarmonica. Gli esecutori non sono musicisti professionali, ma sono comunque in grado di suonare questa musica terapeutica e la loro prestazione risulta anche molto costosa. Le famiglie delle tarantate talvolta sono costrette ad affrontare grossi debiti pur di assicurarsi l’opera del gruppo terapeutico.
Quando la musica comincia, la tarantata dà inizio alla sua danza.

Ella si risveglia dal suo stato stuporoso e comincia a muoversi imitando la taranta che l’ha punta. Danza senza sosta, arcua la schiena mentre giace sul pavimento, striscia per terra imitando l’andatura del ragno. Talvolta si aggrappa ad una corda che è lasciata pendere dal soffitto, quando il rituale viene eseguito al coperto (generalmente in casa della vittima), legata ad un albero quando, invece, si esegue all’aperto. Sia che si esegua il rituale al chiuso, sia che lo si faccia all’aperto, è necessario delimitare una cosiddetta “area sacra”, preparata a scopo rituale. Si ricrea un ambiente naturale, spargendo fiori e foglie in giro e riempiendo bacinelle d’acqua, oltre alla corda citata in precedenza. In un angolo viene posto un cestino per raccogliere le offerte per San Paolo, il santo che protegge dalle tarantole ma, al tempo stesso, le infligge come punizione. Alla tarantata vengono offerti fazzoletti di diversi colori, finché ella stessa non trova quello preferito dalla “sua” taranta, che è sempre femmina ed esprime i suoi gusti personali anche in altre occasioni. Il colore del fazzoletto scelto normalmente corrisponde al colore della taranta responsabile del morso.
Per poter cominciare a ballare, la tarantata ha bisogno della giusta musica, perché ogni taranta preferisce un certo motivo. La scelta della musica aiuta ad identificare la taranta.
A seconda della specie alla quale appartiene, la taranta ama o aborre un certo tipo di musica. Ci sono tarante libertine, tarante ballerine, tarante che cantano o tarante “tempestose”, che sono particolarmente aggressive. Generalmente, viene loro attribuito un nome femminile. Per scoprire la musica giusta, i suonatori procedono a quella che De Martino chiama l’esplorazione musicale, che consiste nel provare e riprovare diversi motivi, finché la tarantata non dimostra di apprezzarne uno, cominciando a ballare la danza rituale.
Questa danza si compone di fasi diverse: la danza con la spada, la danza del ragno e il battere ritmicamente i piedi.
La danza con la spada rappresenta la lotta della donna con la taranta, la danza del ragno sottolinea la sua identificazione con la taranta stessa, il ritmico battere dei piedi (cinquanta volte ogni dieci secondi) rappresenta la fase agonistica vera e propria del rituale.
Questo rituale dura generalmente due o tre giorni. La vittima, però, ripresenterà gli stessi sintomi ogni anno, quasi sempre d’estate, all’approssimarsi della festa di San Paolo (29 giugno) e sarà necessario sottoporla nuovamente a terapia rituale.
Non possiamo in questa sede ignorare quella che, rispetto al tarantismo, è l’altra faccia della medaglia, la malattia fisica in contrapposizione alla malattia culturale, il latrodectismo.
Il latrodectismo è una forma di aracnidismo, sindrome tossica che subentra in seguito ad una puntura di ragno. In questo caso, il ragno responsabile della puntura è il Latrodectus tredecimguttatus. Quest’ultimo è l’unico ragno in Italia la cui puntura è veramente pericolosa per l’uomo. Il suo veleno agisce principalmente sul sistema nervoso, causando una grave intossicazione con confusione mentale e disturbi neurologici. Gli arti inferiori e il busto vengono presi da dolori terribili che diventano sempre più forti. Il paziente a malapena si regge in piedi, respira con affanno, suda abbondantemente, accusa rigidità muscolare con spasmi, trema in tutto il corpo, ma in particolare negli arti inferiori, lamenta contrazioni addominali. La faccia gli si gonfia, le congiuntive gli si arrossano. Nausea, vomito, minzione dolorosa ed eccitazione sessuale completano il quadro. I sintomi mentali possono essere predominanti. All’inizio, il paziente può avvertire una profonda depressione, con grande ansia e pensieri di morte. Con l’andar del tempo, il paziente diventa sempre più confuso, depresso e ansioso e talvolta soffre di allucinazioni. Durante il secondo giorno, i dolori fisici e i sintomi generali si attenuano e avverte sensazioni di bruciore e pizzicore alle piante dei piedi.Il periodo di convalescenza può prolungarsi per settimane. Molto raramente la puntura del Latrodectus è mortale.
Latrodectismo e tarantismo molto raramente coincidono. La sindrome tossica, quando presente, può tuttavia confluire nella sindrome culturale.
Nella sindrome culturale del tarantismo si rimodellano molti altri disturbi, dalla colica epatica all’otite purulenta, dalla psicosi depressiva alla schizofrenia, con una spiccata preponderanza dei disturbi psicologici e psichiatrici (De Martino,1961)
Forse, in un mondo contadino, economicamente e socialmente svantaggiato, il rituale del tarantismo è l’unica soluzione accessibile per dei disturbi che altrimenti non sarebbero gestibili.
In questo rituale, come abbiamo visto, la musica ha un ruolo determinante, in quanto permette di identificare il ragno responsabile e rende la donna in grado di danzare, permettendole, così, di porre fine alla crisi.
Veniamo ora all’analisi di altri rituali terapeutici che presentano delle analogie con il tarantismo.
Alcuni culti africani presentano delle caratteristiche comuni col fenomeno salentino.
Procediamo con ordine.
I culti africani che possono essere comparati al tarantismo sono
lo zar , il bori , lo ndop il tigretier, il derdeba, l’hadra.
La loro caratteristica fondamentale è la possessione spiritica, trattata con l’esecuzione di musica rituale e con la danza. Essi sono diffusi nei paesi islamici del Nord Africa, in Arabia, Etiopia e nell’area sudanese. Alcuni culti analoghi sono altresì diffusi nella zona caraibica.
Essi sono la macumba, l’umbanda, il candomblé, la santeria, il voudou.
In alcuni dei culti citati, che, come il tarantismo,sono condivisi a livello popolare, la partecipazione femminile è preponderante. Essi sono il risultato di un sincretismo di credenze magiche, religioni naturali locali e religioni dominanti, quali il Cristianesimo e l’Islam. I seguaci possono essere posseduti da entità diverse che sono caratterizzate da tratti distintivi. Gli spiriti responsabili della possessione li fanno danzare (o danzano essi stessi) al suono di determinati strumenti (principalmente tamburi).
Comincerò con l’analisi del derdeba.
Il derdeba è un rituale che viene eseguito nella zona del Maghreb dagli Gnaua, un gruppo etnico che vive in Nord Africa. Essi sono i discendenti degli antichi schiavi deportati dal Sudan e dai paesi dell’Africa occidentale sub-sahariana (Mauritania,Senegal, Mali e Niger). In Marocco le loro pratiche ancestrali si sono combinate con il Tasawwuf (Sufismo, esoterismo islamico). Questo ha condotto alla costituzione di una Tariqa (confraternita, via mistica) facente capo al Marabut Sidi Bilal, Compagno del Profeta e primo muezzin dell’Islam. Gli Gnaua sono musicisti e danzatori. Essi praticano dei complessi rituali cromatico-coreutico-musicali, che hanno molteplici scopi, come guarire una persona ammalata, o rendere capace di procreare una donna sterile. Principalmente, si tratta di riequilibrare e reintegrare le fondamentali energie fisiche umane.
Tramite l’evocazione delle sette principali manifestazioni dell’attività demiurgica divina, chiamate m’luk e rappresentate da sette colori, essi ricreano il momento della genesi dell’universo.
Gli strumenti musicali utilizzati dagli Gnaua sono tre: il ghnbri, che è un liuto-tamburo di origine sudanese, il tboel, un grosso tamburo a doppia membrana, tenuto sul fianco tramite una bandoliera e percosso da due bacchette, e i qraqèb, delle grosse castagnette di ferro, suonate aprendo e chiudendo velocemente la mano. Sette “divise musicali” evocano i m’luk e ciascuna di esse, ripetuta e variata, dà vita ad una delle sette suites musicali che compongono il loro repertorio. Durante l’esecuzione delle sette suites, si bruciano sette tipi diversi di incenso e i danzatori sono ricoperti da veli di sette colori diversi. Ogni m’luk è accompagnato da un numero di entità, che sono distinguibili dalla musica, dal canto e dal tipo di danza. Queste entità sono poste in relazione con comportamenti umani e complessi mentali. La confraternita è composta da vari gruppi (zriba), che si riuniscono attorno ad una sacerdotessa-officiante (madqà), che guida le danze estatiche e ad un maestro di ghnbri (maallem), accompagnato dai suonatori di qraqèb.
Il rituale normalmente comincia al mattino, con il sacrificio di un animale scelto dalla donna preposta a questo compito (chiamata talaa). La famiglia della persona che deve essere sottoposta al rituale offre un pranzo al quale partecipano parenti, amici e vicini da casa, oltre, naturalmente, agli Gnaua. Dopo pranzo, gli Gnaua vanno in strada a suonare i loro strumenti.
Rientrano poi dal cortile, dove vengono accolti con un vassoio di datteri, latte, candele rosse e verdi. Danno inizio dunque alla loro danza, che è, in questa fase, molto veloce e vivace.Si offre un sorso di latte a tutti i presenti, che possono fare delle offerte agli Gnaua, richiedendo in cambio degli incantesimi protettivi.
Nella seconda fase del rituale si suona il ghnbri, accompagnandolo con il battito delle mani. Qualcuno danza, ma non si verifica ancora nessuna trance.
L’ultima fase del rituale comincia intorno alla mezzanotte, o più tardi.Gli Gnaua consacrano lo spazio recitando delle formule di sottomissione agli spiriti, bruciando i sette incensi e adornandosi con i fazzoletti colorati. Eseguono dunque una danza vorticosa, al suono dei qraqèb e dei tboel. Il capo del gruppo comincia a suonare il ghnbri , aprendo così il sentiero per il viaggio estatico, attraverso i domini dei sette m’luk, che finirà al sorgere del sole, con il ritorno nel mondo ordinario.
Come possiamo vedere, siamo in presenza di danza, strumenti musicali, fazzoletti colorati. I m’luk si comportano esattamente come la taranta, nella loro predilezione per un motivo musicale invece che per un altro.
Un altro rituale che presenta incredibili similitudini con il tarantismo è l’hadra.
Come il derdeba, l’hadra è una terapia rituale eseguita da un gruppo terapeutico-musicale, nella zona del Maghreb. Normalmente la terapia ha luogo nella casa dell’ammalato. Il paziente è una persona che cade in trance ogni qualvolta sente il ritmo dell’hadra, oppure è una persona che soffre di altri disturbi fisici o psichici.
La famiglia dell’ammalato invita il gruppo terapeutico (che normalmente appartiene a confraternite estatiche quali Jilala, Hamatcha, Essaua e gli stessi Gnaua) ad eseguire l’hadra per il proprio congiunto.
Il gruppo conduce il rituale nel posto in cui vive l’ammalato. L’hadra dura due o tre giorni. La terapia deve essere ripetuta ogni anno, nello stesso periodo, generalmente in estate. La gente dice che se la terapia non viene rinnovata, l’ammalato ripresenterà gli stessi sintomi all’approssimarsi della data corrispondente alla prima crisi. Nel tempo che intercorre tra due hadra, comunque, i sintomi svaniscono, o, almeno, vengono tenuti sotto controllo.
Le similitudini tra i rituali maghrebini e il tarantismo si possono sintetizzare come segue.
La terapia è concepita ritualmente e deve essere rinnovata ogni anno.
I guaritori sono musicisti, si riconosce un valore terapeutico ai colori, anche la danza ha caratteristiche curative.
Inoltre, vogliamo citare qui brevemente una danza delle spade marocchina, quasi del tutto scomparsa, che presenta notevoli analogie con quella eseguita nel tarantismo.
Altre interessanti similitudini si riscontrano col il voudou haitiano.
Il voudou è una sorta di religione sincretica tipica della zona di Haiti. Essa è il risultato della mescolanza tra l’animismo, eredità del Benin, terra di provenienza della maggior parte degli schiavi deportati ad Haiti, la religione cristiana e quella islamica. Il voudou è caratterizzato dalla presenza di alcuni spiriti-dei, chiamati loa, che manifestano la loro presenza attraverso i devoti, che essi possiedono durante le cerimonie religiose. Ogni loa ha comportamenti e atteggiamenti propri e caratteristiche distintive.
Ogu è il loa guerriero e il medium che è da esso posseduto ama avvolgersi una sciarpa rossa attorno al collo, maneggiare la spada e muoversi come un soldato.
Nel tarantismo, qualcosa di simile è causato dalla “taranta tempestosa”, che alle persone che possiede fa preferire il colore rosso, la musica militare e le fa sentire attratte dalle armi.
 Erzulie è il loa della civetteria femminile e può essere comparata con la “taranta libertina”.
Ma, nella nostra analisi, il loa più interessante è Damballah, il loa serpente. Damballah è la trasformazione haitiana di San Patrizio che, secondo la tradizione, liberò l’Irlanda dai serpenti ed è rappresentato con un serpente sotto i suoi piedi. I medium di Damballah, quando sono posseduti dal loro loa, strisciano per terra come serpenti, scuotendo la testa e protendendo la lingua, si arrampicano su per il soffitto e si lasciano dondolare a testa in giù.
Una cosa da sottolineare è che sia la vittima della taranta che il medium di Damballah imitano l’animale velenoso a cui il loro santo o spirito è connesso. Un altro elemento da evidenziare è l’ambiguità dei loa. Essi dominano gli elementi naturali ai quali sono connessi e proteggono la gente da essi quando si comporta correttamente, rispettando gli obblighi rituali. Nel caso in cui i loa si adirino con gli uomini per qualche ragione, li puniscono, scatenando contro coloro che hanno commesso un errore gli stessi elementi che si trovano sotto il loro controllo.
San Paolo non è molto dissimile. Anche la sua figura si carica di una certa ambiguità. Ad esempio, il legame tra la taranta e il santo risulta un po’ oscuro. Il santo dei tarantati, che li libera dalle tarantole e li fa guarire dalle punture, al tempo stesso allontana le tarantole dai suoi protetti ma gliele manda contro nel caso in cui essi meritino di essere puniti. Come un loa, San Paolo si identifica con la taranta stessa. San Paolo è la taranta e la taranta è San Paolo. Una taranta non può essere uccisa, in quanto è una creatura di San Paolo. Durante l’esorcismo la taranta-San Paolo (non c’è mai una distinzione chiara) parla alla tarantata, che lo prega di lasciarla libera, in quanto non gli ha mai mancato di rispetto.
A questo punto ci sembra interessante aggiungere qualcosa relativamente alle similitudini con i culti di possessione africani che precedentemente sono stati soltanto nominati.
Nel tigretier riscontrabile in Abissinia, ad esempio, la protagonista è una donna che viene presa da una crisi stuporosa, finché non viene stimolata dalla musica a danzare, fino al superamento del suo stato di assenza.
Nel bori, in Nigeria, la persona interessata viene portata sotto un albero sacro, dove gli officianti cominciano a danzare e continuano a farlo in casa della persona. Inoltre, ogni spirito ha il suo colore preferito, la sua musica e le sue canzoni.
Il bori è un culto femminile, generalmente diffuso tra donne che hanno problemi personali quali sterilità e divorzio, che in una società islamica, già di per sé punitiva nei confronti delle donne, le rende ancora più marginali Il bori dà loro potere e dignità.
Anche nei rituali zar dell’Etiopia ci sono delle terapie basate sulla musica e sulla danza. Il pavimento del luogo in cui la terapia viene eseguita è ricoperto da foglie e da canne.

Conclusioni.

Come abbiamo visto fino ad ora, c’è una linea continua che connette il tarantismo pugliese con i culti africani e, di conseguenza, con i culti afro-americani. Questo non sembrerà per niente strano se ci rifacciamo alla storia di questa regione italiana.
La Puglia, data la sua posizione geografia, ha subito l’influenza di un Islam tanto vicino e, ai tempi delle crociate, ha fatto da ponte tra l’Est e l’Ovest. Inoltre, l’Imperatore Federico II Hoenstaufen (1149-1250), signore dell’Italia meridionale, era molto interessato alla cultura islamica. Ai tempi delle crociate, inoltre, in Puglia c’era una forte presenza araba e berbera e, senza dubbio, ciò ha contribuito molto a delineare il fenomeno del tarantismo (e non solo quello).
A questo punto, possiamo confutare Rouget una volta ancora.
Nel suo testo “Music and Trance”, già menzionato, egli dice, a pagina 68, che, dal momento che il tarantismo è un culto di possessione non completamente integrato a livello sociale, non viene trattato come meriterebbe, cioè con un’iniziazione. La mancanza dell’iniziazione implica il ritorno della crisi e la conseguente necessità di trattarla ogni anno. Non c’è possibilità di soluzione definitiva, perché questa sarebbe data solo dall’iniziazione negata. Inoltre, Rouget afferma che la mancanza di iniziazione è caratteristica del tarantismo.
Ma, come abbiamo visto precedentemente, l’assenza di iniziazione è un elemento che può essere facilmente riscontrato in altri culti terapeutici del Nord Africa, come l’hadra.
Possiamo dire adesso che il fenomeno del tarantismo, che Rouget vede come una sorta di anomalia, a causa della sua non integrazione nella realtà locale, presenta numerose analogie con rituali molto diffusi nella cultura maghrebina.
Sotto questo punto di vista, il tarantismo non è più un culto di possessione che non osa configurarsi come tale a causa della sua marginalità rispetto alla cultura cattolica dominante, ma un rituale terapeutico mediterraneo, che risente di influenze maghrebine.

Fulvia Marino





 1 Msc Medical Anthropology. University College of London.
2 Etnologo (Napoli 1908-Roma 1965). In Mondo magico (1948) considerò la magia come momento della storia dello spirito e strumento di difesa nei confronti del dramma dell’esistenza.
3 Secondo l'"Enciclopedia di Psicologia" curata da Umberto Galimberti (Torino, Garzanti 1999), il fenomeno del tarantismo rappresenta un "sistema terapeutico istituzionalizzato e socializzato di manifestazioni a sfondo isteroide o epilettoide che la popolazione attribuisce al morso della tarantola, anche se questo animale non entra affatto nella vicenda se non nella fantasia popolare". Come vedremo sarà questo l'appordo della ricerca di Ernesto de Martino. www.uniurb.it/.../lavori2002/iovane/faq.htm
4 N.d.R. Si rinvengono notevoli analogie con il duello rituale di epoca classica in onore di una divinità o di un defunto nel corso della cerimonia funebre.
5 Tradizionalmente, la figura di San Paolo è connessa con tutti gli animali velenosi e con tutti gli animali che pungono e, di conseguenza, anche con i serpenti.

4 maggio 2013

- Il MAESTRO VENERABILE




Antequam de quocumque subiecto …

La Costituzione del GOI, all’art. 20, descrive la figura e le funzioni del Maestro Venerabile sancendo che egli ispira, presiede, governa e rappresenta la Loggia.
Lo investe, inoltre, di una particolare competenza per lo svolgimento di quegli atti rituali che saranno più specificamente delineati nel Regolamento dell’Ordine e lo rende, con la collaborazione dei Dignitari ed Ufficiali, esecutore delle deliberazioni della Loggia, nonché, responsabile anche dell’esecuzione delle deliberazioni degli Organi del GOI.
Lo stesso articolo, infine, afferma che, nell’esercizio  del Magistero iniziatico, la sua autorità è sacra ed inviolabile.

La vasta portata di queste poche, ma complesse espressioni fa della figura del M. Ven. un vero pilastro su cui poggia molta parte dell’altrettanto  complessa nozione di Loggia massonica . 

Poiché la Loggia è il corpo primario e fondamentale della Comunione e consiste nella Collettività autonoma e sovrana dei Liberi Muratori, ritualmente e regolarmente costituita per lo svolgimento dei Lavori Massonici (art. 16/C), si deduce facilmente che un personaggio con le attribuzioni del Maestro Ven. è necessariamente uno dei due poli fondamentali della Loggia, essendo, invero, il primo polo la Collettività del Liberi Muratori ed il secondo polo, appunto, il M.Ven.

Infatti, se la Collettività dei Liberi Muratori è il sostanziale Corpo della Massoneria, non si può negare, alla luce della normativa costituzionale che regola l’ambito di azione di detto Corpo, che il “motore” che suscita (ispira), coordina (presiede) e guida (governa) ogni dinamismo del detto Corpo, è proprio il Maestro Venerabile.

E, poiché, ancora, egli è definito il responsabile di tutte le esecuzioni di Loggia ed istituzionali, è innegabile la sua centralità e la sua importanza, nonché, la sua indispensabilità, nella comprensione e nella rappresentazione del concetto di Lavori Muratori che sono il fine essenziale della esistenza di una Loggia massonica.  

Detto tutto ciò, il ruolo del M.Ven. che costituzionalmente è tanto ricco ed interessante, necessita di un complemento senza del quale rischia di restare una mera espressione letterale.

Ed ora, una domanda. CHI?

Qual è questo complemento così importante? È l’uomo. È, cioè, quel Fratello che viene eletto Maestro Ven.

A questo punto il tema che concerne la figura del Maestro Venerabile, si sdoppia, necessariamente in due filoni tematici paralleli.

Il primo filone tematico è quello che, sia pure succintamente, abbiamo trattato fino a questo momento; cioè il tema costitutivo, o costituzionale, o formale, se si preferisce; cioè il tema che si appoggia e si nutre delle ipotesi legislative, vale a dire di ciò che la legislazione astrattamente prevede o prescrive.
Il secondo filone, necessariamente complementare al primo, ci porta a  considerare l’uomo  che deve incarnarne la prefigurazione che astrattamente è stata indicata dalla normativa.
A ben vedere, questo secondo filone non è meno importante del primo , anzi ê addirittura cruciale per  il semplice fatto  che l’uomo  sbagliato annichilisce tutta la potenziale plenitudo di valori contenuta nella ipotesi normativa.
E allora, l’elezione del Maestro Venerabile si appalesa come una sorta di problema da risolvere non solo per il bene della Loggia, ma per lo stesso bene dell’Ordine.

Antichi catechismi massonici pervenuti fino a noi ci rammemorano che  fin  dall’epoca ancora operativa della Libera Muratoria, agli albori della principiante evoluzione che a poco a poco stava portando i nostri progenitori verso la speculatività, il Maestro Venerabile veniva scelto nella persona del “più saggio” tra i Compagni.

Ecco la chiave.
La SAGGEZZA, ossia l’arte della vita

Era, già allora, la Saggezza un elemento fondamentale per individuare la persona capace ed idonea a caricarsi delle tante responsabilità che, già a quell’epoca, facevano capo al Maestro Venerabile.
E cosa mai, se non la Saggezza, potrebbe oggi garantire la Collettività dei Liberi Muratori, cioè, la Loggia, dell’attitudine del suo presidente a ispirare, presiedere, governare e rappresentare la Loggia.
Questi quattro compiti, dal presiedere al rappresentare, possono bensì essere svolti da persone ricche di varie qualità, tuttavia, tutte le qualità che un uomo può mettere in campo, se non amalgamate o temperate dalla debita saggezza potrebbero risultare perfino ridondanti nella guida di una così complessa entità quale è una Loggia Massonica.
L’ intelligenza, la cultura, la spavalderia, la sicurezza, mascherano, talvolta, dei punti deboli che possono generare la suscettibilità di qualcuno ed infrangere l’armonia necessaria per il buon proseguimento del rapporto fraternale massonico, lievito e viatico della saldezza della Loggia.
L’uomo dotato di saggezza sa, per contro, per innata virtù, dove arrestare il suo dire per evitare l’arroganza, dove stemperare le asprezze per affermare la tolleranza, dove sostenere ogni sforzo per realizzare la fratellanza, come promuovere l’interesse di tutti i Fratelli, come evitare possibili contrapposizioni, come prevenire, soprattutto , l’eventuale insidia di correnti disgregatrici, che si  generano tanto spesso, per incuria o insipienza nella direzione e nella conduzione dei Lavori.

Inoltre, qualche buona dote naturale
sarà indispensabile

Un M.V. parla prima con gli occhi che con la bocca. Il suo sorriso fraterno è la chiave dell’Armonia che egli sa dispensare ai suoi Fratelli, immediatamente, con la semplice sua presenza. Il M.V. è colui che accoglie in Loggia ospiti sconosciuti di ogni rango e provenienza ed ha subito con loro un aperto dialogo di benvenuto che fissa istantaneamente, come “Stella Polare”, la sua autorevolezza in Loggia.

Il M. V. non è solo l’anima dei Lavori nell’Officina, ma è sempre, in ogni momento, in ogni giorno, il punto di riferimento morale ed amicale dei suoi Fratelli, anche quando sono lontani dalla Loggia.

Uomini dotati di queste multiformi qualità che si fondono nella saggezza che li caratterizza, sono una specie rara, ma, per fortuna non ancora estinta.

Ad uomini di questo genere dovrebbe affidarsi la direzione di una Loggia.

Dicendo questo, si capisce che si sottintende, per il bene della Loggia e dello stesso Ordine che non tutti, sebbene ricchi di altri tesori di virtù, hanno l’attitudine ad essere buoni Maestri  Venerabili. Esperienza insegna che un Maestro Venerabile poco idoneo alla carica può determinare, sia pure in buona fede, danni irreparabili alla sua Loggia.

Nella migliore delle ipotesi una Loggia presieduta da un Venerabile con scarsa attitudine, appiattirà lo spessore dei suoi Lavori e senza nemmeno che i Fratelli se ne accorgano, sprofonderà nella noia, nell’insipienza, nella sterilità, in una vera agonia iniziatica. Quanti esempi di Logge, così ridotte, sono sotto i nostri occhi nella nostra Comunione nazionale?

A ben riflettere, la responsabilità di tali dissesti può essere semplicemente ricondotta ai Maestri Venerabili, dotati, probabilmente di poca saggezza.
Come si diceva poc’anzi, alla luce di queste brevi considerazioni, che non devono intendersi esaustive delle possibilità di indagine sulla figura del Maestro Venerabile, il personaggio che ne svolge il ruolo, nella pienezza della sua potenziale e reale contestualizzazione, può intendersi, a buon diritto, il pilastro su cui poggia molta parte dell’altrettanto complessa nozione di Loggia massonica.

Luigi Sessa
R\L\ Giustizia e Libertà 767 Goi, Roma