- Il Cristo velato della Cappella Sansevero.
UN VELO DI LUCE …
UN GUSCIO, PIENO DI
VITA …
L’opera e l’autore
Elviro Langella Redattore di Opus minimum
… Questo Tempietto sarà di figura ovale,
mostrerà di essere scavato in una roccia e prenderà bastantissimo lume da una
Cupola, nella quale saranno aperte alcune finestre
… Or
in mezzo di questo Tempietto appunto, ove sarà collocata la statua di marmo al
naturale di nostro Signore Gesù Cristo morto, involta in un velo trasparente
pur dello stesso marmo ma fatto con tal perizia che arriva ad ingannare gli
occhi de' più accurati osservatori e rende celebre al mondo il giovine nostro
Napolitano Signor Giuseppe Sammartino, uno de' miei scultori di cui essa è
opera, verranno ad essere situati i detti due lumi eterni, uno al capo e
l'altro a' piedi della suddetta Statua; e saranno situati sopra due candelabri
di marmo …
… I motivi che a far questo mi spingono sono
due: il primo affinché, non abbiano i lumi l’antico nome di lucerne, ma quello
di candele; il secondo, affinché si lascino in libertà gli scettici nelle
materie fisiche di poterle passare da banda a banda, dove meglio loro piacerà,
con una lesina infocata, e rendersi interamente persuasi della schiettezza
dell’affare, e dell’esclusione di qualunque nascosto inganno…
Raimondo di Sangro,
lettera a Giovanni Giraldi
Giuseppe Sanmartino apprese i rudimenti
dell’arte presso la bottega di un modellatore di pastori, Felice Bottiglieri,
fratello del ben più noto Matteo. Egli stesso creò statuine di insuperata
espressività destinate a quel singolare genere presepiale che nel ‘700
assurgeva a pieno merito, ai nobili ranghi di quelle arti che godono oggi di
maggiore considerazione, forse unicamente in nome di infondati pregiudizi. Pur
muovendo i primi passi dentro il contenuto orizzonte del microcosmo inscenato
dal presepio, la formazione dell’artista poteva, nondimeno, ambire alla piena
affermazione del proprio talento nelle arti plastiche, spaziando nel clima
fecondo di opportunità, che vede all’opera, in quello scorcio di secolo, valide
maestranze come Antonio Corradini, Francesco Queirolo, Francesco Celebrano,
Paolo Persico e ancor prima,Lorenzo Vaccaro e il figlio Domenico Antonio,
Matteo Bottiglieri, Nicola Fumo e Giacomo Colombo.
Benché oramai autore espertissimo di
pregevoli sculture in marmo negli anni dell’incontro con don Raimondo, per il quale aveva già eseguito tra il 1746 e
il ‘48 gli otto bassorilievi in stucco
per l’androne del palazzo Sansevero in Piazza San Domenico Maggiore [1], sarebbe ingenuo
supporre che il giovane Giuseppe Sanmartino, dovendo attenersi scrupolosamente
ai dettami del suo esigente committente, non tenesse in cima ai propri pensieri
l’esempio dei contemporanei che si erano cimentati con un così impegnativo
soggetto d’arte sacra raggiungendo risultati di inarrivabile bellezza.
Il Principe richiedeva espressamente una
“statua scolpita in marmo di Nostro Signore Gesù Cristo morto, ricoperto da una
sindone di velo trasparente dello stesso marmo”, della quale l’artista massone
Antonio Corradini aveva già lasciato lo straordinario bozzetto in terracotta
oggi al Museo di San Martino, vero testamento spirituale a suggello di quel
geniale, indissolubile connubio tra l’Arte e gli ideali massonici celebrato
dalla Cappella gentilizia.
Alle radici della autentica ispirazione del
Sanmartino.
Seguiamo le tracce di una linea di continuità
estetica
Non senza timore di scoprirsi inadeguato a
seguire le orme di un tale titano, il Sanmartino in quella difficile impresa
avrebbe mai potuto esimersi dal confrontarsi, al contempo, coi suoi propri
maestri?
Il superbo modello del Cristo deposto,
scolpito per il duomo di Capua da Matteo Bottiglieri, si imponeva come lezione
imprescindibile.
Non manca chi, commentando un tal prodigio
dell’arte, nel redigere la guida del sito [2], attribuisce
erroneamente l’opera al Bernini per la pregevole fattura e l’ispirazione in
tutto coerente ai suoi canoni estetici. Talvolta, si azzarda l’ipotesi che il
bozzetto pur conforme allo stile del nostro grande scultore barocco, sia da
attribuire piuttosto, a Francesco Solimena.
Nel suo libro, L’Art dans l’Italie
meridionale, Emile Bertaux lo definirà “une des oeuvres les plus saissantes de
l’ecole du Bernin”[3].
Potremmo mai negare del resto quanto certe
soluzioni plastiche siano qui debitrici al genio inventivo del maestro?
Ne è prova l’irresistibile tensione dinamica
che percorre il torso del Cristo, tutt’altro che disanimato pur nell’estremo
abbandono, ottenuta inarcando la figura con l’escamotage dei cuscini, che non
hanno affatto un’accessoria funzione decorativa, al pari dei sapienti panneggi
berniniani.
Quelle stoffe animate da un vento, da un
fuoco di misteriosa provenienza,
sollecitano empaticamente il nostro immaginario tattile, generando con
la loro energia plastica l’illusione di “superfici sensibili”, emozionali,
spazi propulsivi, di “inversioni dinamiche”, per usare l’espressione coniata da
Aby Warburg.
Molto opportunamente c’è chi ha fatto notare
che qualora, per assurdo, ci fosse consentita l’impudenza di irrompere nel
rapimento estatico della beata Ludovica Albertoni e spogliarla dello stupendo
panneggio del Bernini, il corpo rivelerebbe una postura in tutto simile al
Cristo deposto del Bottiglieri [4].
E ripercorrendo il segreto file rouge che dovette certamente orientare
l’ispirazione del Sanmartino, non si può fare a meno di riconoscere quanta
verità contenga la sorprendente definizione, all’apparenza riduttiva, che Mario
Salmi dà del Cristo velato: “una ripresa rococò della Ludovica Albertoni”.
Se da un canto è impossibile non cogliere
l’evidente linea di continuità della ricerca estetica, che approderà al Cristo
velato del Sansevero, passando imprescindibilmente dalla lezione impartita da
Matteo Bottiglieri, mi riesce altrettanto impensabile sottovalutare il ruolo
svolto nella nostra analisi filologica da un artista assai spesso, a torto,
trascurato.
Si tratta dello scultore procidano Carmine
Lantriceni, i cui principali modelli di riferimento ideologico vanno ricercati
proprio negli esiti figurativi di Bottiglieri e Vaccaro (del secondo decennio
del ‘700), sebbene rivisitati con la carica espressiva e i forti accenti
cromatici d’influenza spagnola che pervadevano intimamente la nostra locale
sensibilità artistica.
La portata del Lantriceni nel più vasto
panorama della scultura napoletana può essere apprezzata nell’attenta analisi
condotta da Flavia Petrella, Ispettrice della Soprintendenza per i Beni
artistici e storici di Napoli, in occasione dei restauri del suo Cristo ligneo
conservato nella Chiesa di San Tommaso d’Aquino di Procida.
Riportando alla luce l’innegabile dignità
artistica di questo “eccellente esemplare, degno dei migliori prodotti della
scultura del Settecento napoletana”,
passato incomprensibilmente per lungo tempo sotto silenzio, la studiosa
così si esprime:
“Si viene a delineare per l’autore della
statua procidana un’area culturale di cui, pur se ignoto, partecipa con pari
capacità tecniche ed artistiche, contribuendo alla definizione degli
orientamenti tardo-barocchi napoletani”.
Alla luce di questi due autorevoli,
indispensabili modelli di riferimento alle radici della più autentica
ispirazione del Sanmartino, corre per me l’obbligo morale di denunciare
l’attuale deplorevole stato di abbandono in cui versa il Cristo morto di Matteo
Bottiglieri, situato nella cripta del Duomo di Capua. Eclissandone
perpetuamente al pubblico la bellezza, l’inaccessibile sacello imprigiona
questo indubitabile capolavoro come una lugubre tomba. L’inaccessibilità di un’opera così pregevole
rischia di condannarla ad un oblio non meno ingrato di quello incombente sul
Cristo morto dello sfortunato Carmine Lantriceni, relegato dalla lacunosa
smemoratezza della posterità, a scontare un ingiusto anonimato.
Per quanto incredibile, in virtù di una
curiosa nemesi, ogni anno puntualmente da ben tre secoli, questa scultura quasi
tramando l’intenzionale rivincita sul mondo, irrompe fisicamente in mezzo
all’intera comunità isolana partenopea per reincarnarsi sotto la preziosa
sindone del velo nero, nel mezzo della cornice coreografica di una tra le più
antiche e creative rivisitazioni popolari dei riti dei Misteri, rappresentati da
decine di monumentali installazioni disegnate e scolpite da 300 straordinari
giovani procidani.
Quest’opera mostra fino a qual segno i nuovi
influssi iberici arrivarono ad umanizzare la magniloquenza barocca enfatizzando
l’espressione della figura con un vibrante “pietismo” di debordante impatto
emotivo: il volto riverso, gli occhi semichiusi, le piaghe.
Tali effetti drammatici, che il Lantriceni
ottenne con l’aiuto della policromia che insanguina il corpo muscoloso, sono il
frutto di una contaminazione stilistica che rimanda alla lunga attività di
Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto, a Napoli, al suo caravaggismo brutale, al
lungo influsso che esercitò nell’ambiente artistico locale.
Se per puro esercizio accademico, allargando
il nostro orizzonte storico di riferimento, suggerissimo il confronto della
nostra opera con un precedente artistico emblematico dell’ideologia estetica
legata alla prospettiva lineare del ‘400, non sfuggirebbe quanto la rigorosa
gabbia prospettica in cui Mantegna più che dipingere, sembra scolpire il Cristo
morto, pervenga ad un effetto visivo diametralmente opposto alla fluidità
dell’ondoso velo del Sanmartino. Qui, il canone della “forma aperta” ispira le
duttili inversioni dinamiche modellate fin nelle intime pieghe delle superfici
plastiche.
Lo scultore sa servirsi di tale preziosa
eredità barocca, per distogliere il riguardante dall’insopportabile rigor
mortis, dalla svilente suggestione di trovarsi ad assistere al finale
definitivo posto in scena dal dramma sacro, senza speranza alcuna di riscatto.
Fa da contraltare, la costruzione cartesiana
dello spazio in cui Mantegna “scolpisce”, invece, i contorni della figura con
precisione degna di un trattato scientifico epocale.
Se non proprio di un trattato di Anatomia
come quelli specialistici di Vesalio o piuttosto, di Leonardo, sicuramente di
Prospettiva centrale. Disciplina che egli mostra di sapere non solo applicare
alla rivoluzione spaziale operata dal ‘400, ma anche epurare da quelle
inevitabili aberrazioni ottiche derivanti da meccaniche costruzioni di
geometria teorica, in conflitto col linguaggio delle arti visive.
Intenzionalmente, il pittore diverge in
quest’opera dal tema della sublimazione della morte che pervaderà invece,
intimamente l’animo del Sansevero nel commissionare il Cristo velato al
Sanmartino.
Mantegna sposta cronologicamente la
narrazione pittorica al momento del compianto di Maria. Rintanata in un angolo
eppure incombente con la sua espressività implacabilmente invecchiata da rughe
di umana disperazione, ella piange sul destino caduco del corpo mortale in cui
un imperscrutabile Dio aveva pur deciso di incarnarsi.
Sarebbe più giusto a mio avviso, ricordare la
celeberrima tempera della pinacoteca di Brera per il vero soggetto di fatto
rappresentato e col suo titolo più pertinente che recita, il compianto di tre
dolenti sul Cristo morto.
L’ammirazione e lo stupore di Antonio Canova
Se, da una parte, la vena patetica che
impregna l’ispirazione del Cristo del Sanmartino, ha suscitato innegabilmente
da sempre un’intima sintonia nel diffuso misticismo popolare, non ci aiuta però
a penetrare più di tanto la profonda essenza di tale inedita bellezza.
È lecito chiedersi a tal proposito, la vera
ragione che motivava l’entusiastica ammirazione provata nei confronti del
Cristo velato da Antonio Canova, il cui giudizio sopra ogni altro è da prendere
in considerazione incondizionatamente, per l’indiscusso genio e la competenza
artistica.
Cos’altro lo scultore neoclassico intuiva
oltre quei veli di tale ineffabile fattura da eclissare finanche l’audace
capolavoro del Corradini, la Dama velata posta a coronamento del sepolcro
materno?
Basta invocare da sola la “poetica degli
affetti” cara al sentimento dello scultore neoclassico, per far pendere il
giudizio a favore della scultura del Sanmartino verso la quale mostrò la più
sconfinata venerazione?
Innegabilmente, l’opera pervasa di humana
pietas rivendica, a giusto diritto, la raggiunta armonia tra ideali etici ed
estetici.
Accantonando gli accenti retorici e
l’ostentata monumentalità del Barocco trionfante, lo scultore sperimenta una
ricerca più intima, mirata ad “una comprensione sensibilizzata ed interiore,
grazie all’uso di una materia vibrante” [5].
Non è difficile immaginare di quali
opportunità potesse giovarsi il Corradini nello studio diretto dei modelli
classici, considerando i reperti recuperati all’antico splendore che giungevano
a Venezia pullulante di antiquari, crocevia di traffici e culture.
Lo stesso virtuosismo del drappeggio bagnato
di ascendenza ellenica, cifra inconfondibile dello scultore veneziano evocata
nelle sue ricorrenti velate, sembra debitore dell’impagabile lezione derivata
dall’esperienza dell’antico, ove le forme anatomiche si stagliano ineffabili e
sensuali, per niente dissimulate, bensì esaltate e perfettamente leggibili,
dentro le trasparenti increspature del tessuto.
Proprio come accade sulle tornite membra
d’alabastro della Pudicizia nel tripudio degli alchemici lucori della celebrata
Cappella napoletana, che discende dall’ispirazione della Vestale Tuccia dello
stesso Corradini. Sfortunatissima sorella condannata invece, dagli impietosi
rovesci della sorte ad una triste clausura, rinchiusa vergognosamente dentro i
bui recessi di Palazzo Barberini di Roma!
Pur prescindendo dal paragone col prototipo
in terracotta del Corradini, non potendo indovinare gli esiti finali della
trasposizione marmorea, è facile constatare come il velo del Sanmartino non sia
percepito dal pubblico, anche il più disattento, quale semplice, meccanica
sovrapposizione del panneggio alle nude membra.
Quell’insolita sindone che nulla occulta al
nostro sguardo, si mostra d’un tessuto sottile al punto di dissolversi in
un’avvolgente eppur straziante carezza.
Il velo qui, a differenza dalla Pudicizia, fa
tutt’uno con la carne.
Non risulterebbe affatto ozioso, a mio
avviso, approfondire più in dettaglio il raffronto puramente tecnico con una
famosa opera del Canova, Ercole e Lica, oggi al Palazzo Corsini [6].
Ecco il velo di luce, pieno di vita
L’esaltazione neoclassica della nuda anatomia
dell’eroe, in un soggetto di tale inedito pathos per lo scultore così
apollineo, concede eccezionalmente spazio all’intrusione di un elemento
apparentemente accessorio: un invisibile velo che stirandosi aderentissimo alla
pelle, insinua le fitte increspature lungo i profili scavati dalle masse
muscolari di questo gigante di marmo, facendo affiorare tangibilmente la
lacerazione delle carni per effetto del veleno di cui è intrisa la camicia del
centauro Nesso.
Contravvenendo agli antichi, autorevoli
dettami di Leonardo da Vinci, il trattamento del tessuto, pur sottilissimo,
svolge una funzione estetica autoreferenziale affrancata dal corpo del Cristo
velato che pur dovrebbe rivestire, eccitando le forme con una speciale
vibrazione vitale.
Tutt’altro che inerte pellicola superficiale
sapientemente plasmata nel modellato stesso della figura, questa nuova
epidermide può registrare quel fremito che pulsa sotto la cute, talvolta allo
spasimo, arrivando a disfarsi persino, assieme alla stessa materia organica. Un
tale dissolvimento però, niente ha del greve, irreversibile abbandono del rigor
mortis.
La materia, piuttosto, sublima in una resa
ancor più preziosa dell’incarnato e riprende a vivere nel marmo, resuscitata
dallo scalpello dello scultore. Egli sa conferire forma plastica alle
invisibili correnti che in forza della feconda lezione del Barocco, animano nel
corpo deposto del martire una segreta pulsione di vita, ancorché immerso nel
torpore della morte, arrivando a distillare inimmaginabili effetti di
rarefazione e liquefazione della luce.
Ove il velo ammanta il Cristo di quella
divina caligine, che pur senza interporre alcun diaframma, offusca tuttavia lo
sguardo profano con l’inaccessibile luce donata al marmo dall’artista
autenticamente ispirato. Vero inestricabile ossimoro visivo agli occhi del non
iniziato!
Sotto questa luce, mi è impossibile tacere la
suggestione delle inesauribili metafore passate fin qui sotto silenzio, che
annidano ancora inedite, dentro questo marmo la cui quiddità è ben lungi
dall’essere definitivamente svelata.
Un’interessante rilettura potrebbe derivarne
allo studioso desideroso di spingersi ancor oltre, l’ulteriore approfondimento
in chiave esoterica del contesto e dei dettagli figurativi.
Raffrontati, ad esempio, al simbolismo degli
stadi iniziatici connessi al perfezionamento dei “gradi templari” dei Cavalieri
del Delta Sacro, che approda alla Massoneria del XVIII secolo, facendo
rifiorire, a dispetto dei secoli, insospettate affinità tra l’ermetismo e i
Fedeli d’Amore [7].
Il linguaggio dei Fedeli d’Amore ci apre la
mente al significato iniziatico
Mi limito qui a suggerire alcuni spunti
interpretativi connessi all’immagine del Cristo rinvenibili ad esempio, oltre il velame del verso dantesco.
Una volta addentrati nel simbolismo
esoterico, familiarizzando con l’allusivo argot dei Fedeli d’Amore, è possibile
scoprire come dietro la figura di Gesù, alla stregua di Beatrice stessa,
traspaiano insospettati significati iniziatici indubitabilmente riferibili a
gerarchie settarie.
Ne cogliamo eloquenti tracce in passi come
questo: “… Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse maturato …
vivette ottantuno anno … E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e
fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli
sarebbe ali ottantuno anno di mortale corpo in eternale trasmutato.” (Dante,
Convivio IV, XXIV)
È evidente che siamo di fronte ad un passo di
astrusa decifrazione. In verità, le
ardite congetture avanzate da Dante sull’ipotetica età di Cristo, non
costituiscono affatto un ozioso esercizio di calcolo. Piuttosto, nel registro
linguistico così esclusivo del fedele d’amore, l’età di 81 anni vuol
rappresentare l’età rituale. Non è superfluo, in proposito, ribadire quale
importanza annetta il poeta al numero tre ed al nove che ne sono la radice, e
con quanta frequenza il numero nove ricorra nella Vita Nuova.
Eppure, come non accorgersi dell’inspiegabile
affinità col simbolismo dei gradi “gradi templari” della Massoneria fondati sul
numero tre e le sue potenze emblematizzati, ad esempio, dal Delta sacro o Delta
luminoso.
Né possiamo ignorare l’importanza del
risorgente simbolismo di questa cifra chiave trasmigrata anche nel Grado di
Maestro Scozzese del sistema descritto dal principe di Sansevero, ove “il
riferimento al numero 81 cubo di 9, corrisponde al numero dei Maestri scelti da
Salomone per proseguire la costruzione del Tempio sotto la direzione di
Adonhiram”. (Sigfrido Höbel, Opus Minimum equinozio di primavera 2010 pag 29)
Fiduciosi dell’attenzione accordataci dal
nostro lettore, indugiamo un momento sull’opera del Sanmartino nell’intento di
portare in luce ulteriori insospettate concordanze col simbolismo e con la
terminologia ermetica.
Riguardandola ancora in questa prospettiva
esegetica, dietro l’inquietante letto di morte scolpito nel marmo, ci sarà dato
scorgere qualcosa di ben diverso dal triste feretro ove il corpo esanime di
Gesù deposto chiude inesorabilmente l’ultimo atto dell’agonia sul Golgota.
A ben guardare, non mi sembra azzardato
indovinare una metafora ben più sottile, l’allegoria stessa del “letto di Dio”.
Alcova feconda di raptus amorosi, pregna
d’infuocato mistero e di alchemiche trasmutazioni, ove si consuma la coniunctio
per antonomasia, l’amplesso tra l’anima e Dio.
La
trasposizione lirica di un tal simbolismo, in perfetta sintonia col pensiero
dei Fedeli d’Amore, a mio avviso, trova chiara eco nelle Laude di Jacopone da
Todi. (LXXI cantico)[8].
A torto liquidato come “giullare di Dio”,
confinato nei propri mistici, contriti vagheggiamenti, e invece, niente affatto
ingenuo e popolaresco, Jacopone non manca di fornire interessanti chiavi per
meglio intendere ogni dettaglio a corredo del nostro letto simbolico, dietro i
quali il dotto poeta giunge a ravvisare con inaspettata dimestichezza col
linguaggio ermetico, intenzionali riferimenti ai gradi di una vera iniziazione
rituale dissimulata talvolta, sotto il velo d’una mistica pazzia alla quale si
perviene sull’onda gioiosa di una danza altrettanto esaltante.
Questi gradi sono quattro; liquefatio che si
oppone alla congelazione, languor, zelus, excessus mentis. (Luigi Valli, Il
linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore pp 97/191)
Espressioni queste mutuate dal linguaggio
alchemico che designano “i gradi e la virtude del vero amore” quali ritroviamo
fedelmente enunciati nelle rime amorose di Nicolò de’ Rossi, intimamente
pervase di esoterismo.
Nel quarto, l’Intelletto attingendo alle più
profonde energie della fantasia creatrice attraverso la progressiva astrazione
e disarticolazione delle ordinarie percezioni terrene, perviene infine, alla
somma gerarchia della virtude del vero amore mediante l’estasi.
Coinvolti per irresistibile empatia, nella
trance dell’esemplare sacrificio incarnato dalla passione del Cristo del
Sansevero, in questo stadio finale di perfezionamento sapienziale, ci
riscopriamo imbozzolati dentro il velo o piuttosto, la sindone o il
sottilissimo lenzuolo cantato dalla laude di Jacopone, quasi fossimo rapiti nel
nido della Fenice, in attesa di prodigiosi risvegli e disvelamenti. Meglio non
saprei definire un tal velo ardente di alchemico fuoco trasmutatorio, se non
con la calzante espressione di Ignis amoris coniata da Giuliano Kremmerz.
Si sta svelando il mistero della nascita
La poetica figurativa della scultura del
Sansevero sembra prediligere una dimensione fenomenica assai singolare.
Se, da un canto, l’arredo plastico di veli e
reti ordite di intricatissimi nodi rischia di teatralizzare le opere in un
vacuo virtuosismo echeggiante le scenografiche macchine seicentesche,
dall’altro dota la scultura di un’interessante dialettica formale, giocata tra
le figure e i diversificati involucri che di volta in volta le imbozzolano.
Questa dimensione di complementarità assunta
dall’immagine rispetto al blocco di marmo dal quale prenderà vita, non avrebbe
certo mancato di suggerire a studiosi come Cesare Brandi, illuminanti paragoni
con la concezione filosofica michelangiolesca della scultura fondata appunto
sulla dialettica tra la forma e la materia che la imprigiona.
Quell’Idea primigenia incapsulata nel marmo,
e ad esso platonicamente preesistente, esemplarmente riassunta nei famosi
Prigioni.
Si potrebbe meglio rappresentare l’eventicità
del processo creativo?
L’epifania dell’Opera attraverso la segreta
gestazione all’interno della pietra grezza del blocco marmoreo?
Il travaglio dell’artista combattuto tra i
folgoranti vaticini dell’ispirazione e gli inesprimibili concetti che premono
dentro l’anima inquieta?
L’incessante dialettica dei suoi più intimi
pensieri mentre ascendono alla visione interiore dell’Arte?
Forse, suona alquanto audace l’accostamento
della poetica michelangiolesca che trova il suo più eloquente enunciato nella
tecnica del non finito, a confronto dell’estrema levigatura dei raffinati dettagli portati oltre il segno
della più iperrealistica resa del vero, così come è dato cogliere negli
accuratissimi cordami che imprigionano il Disinganno o piuttosto, nei veli che
scivolano diafani sulla genealogia lapidaria del principe.
Nondimeno queste due vie opposte dell’Arte
del non finito e dell’iper-finito, ci spingono a riflettere su una semplice
verità: l’atto del guardare ha per sua natura, una profonda radice spirituale.
La visione artistica esige un’intensità e una
ritualità dello sguardo perché sia concesso di penetrare il velo di Maya.
Solo in virtù di questa intuizione, di questo
dolce lume poteva rivelarsi a Michelangelo la sua creatura assopita nel blocco
di pietra grezza in attesa di venire al mondo.
… tra i’l foco e ‘l cor di ghiaccia un vel
s’asconde
che ‘l foco ammorza, onde non corrisponde
la penna all’opre, e fa bugiardo il foglio.[9]
Come illudersi di riuscire a spingersi oltre
con tali occhi ancor contaminati, per cogliere l’anima palpitante dormiente
sotto i veli?
Eppure, in questi tre secoli mai ella smise
di sussurrare quei sublimi, segreti divisamenti ancora echeggianti tra i marmi
del Sansevero, che infiammarono il principe e l’artista-iniziato, e che
rimarranno, ahimè, eternamente inaccessibili a quanti non hanno orecchi per
ascoltare.
Rosanna Cioffi, La Cappella Sansevero, Arte barocca e ideologia
massonica pag
50
2-
Guida d’Italia del Touring Club Italiano ed. 1981
3-
Emile Bertaux, L’Art dans l’Italie meridionale - pag 606
4-
Giuseppe Alparone, Note sul Cristo velato nella Cappella
Sansevero a Napoli. 1957 In Bollettino d'arte / Ministero della pubblica
istruzione, Direzione generale delle antichità e belle arti.
5-
“ … Siamo negli anni in cui le esperienze del Barocco sono ancora vitali ma gli
orientamenti culturali cominciano a stemperarsi in un clima di rinnovate
suggestioni, che smorzano il vigore, la foga e gli eccessi celebrativi del
Barocco trionfante a favore di più distesi accenti naturalistici …” Flavia
Petrella (Ispettrice della Soprintendenza per i Beni artistici e storici di
Napoli).
6-
Attraversando le più alterne vicende storiche tra il 1795 e il 1815 che ne
hanno radicalmente ribaltato più volte il significato politico-simbolico,
l’opera venne inizialmente commissionata al Canova da Onorato Gaetani dei
principi d'Aragona, maggiordomo del re di Napoli.
7-
I Prìncipi di Mercede «pervengono mediante la loro triplice virtù
a sollevare il velo della verità»; e si chiamano perciò beni émeth, i figli della Verità. Tra i
simboli caratteristici del grado figura il Palladio dell'Ordine, ossia «la statua della Verità, ignuda e coperta di
un velo tricolore»…Il linguaggio
segreto dei “Fedeli d’Amore”, Pietro Negri [pseudonimo di Arturo Reghini] in Introduzione alla Magia, Edizioni
Mediterranee, Roma, 1971 - vol. II, pp. 96-105.
Nel Rito Scozzese si
ritrovano nel XXVI grado.
8-
Ipotesi che trova puntuale riscontro già nelle illuminanti chiose della
raccolta editata nel 1617, delle Poesie
spirituali del B. Iacopone da Todi frate minore, accresciute di molti altri
suoi cantici novamente ritrovati, che non erano venuti in luce … con
le scolie, et annotationi di Fra Francesco Tresatti da Lugnano,
editato in Venetia, appresso Nicolò Misserini . MDCXVII
9-
Michelangelo Buonarroti, Rime.