30 marzo 2010

- Kamea di Venere.


29 marzo 2010

- Le sacre sinfonie del tempo.


" Dove c'è pluralità deve esserci conflitto; e sebbene il conflitto sembri una tragedia, la vera tragedia è l'ignoranza ".
Hazrat Inayat Khan

26 marzo 2010

- La Massoneria nel Regno di Napoli dal 1750 al 1789.


La Libera Muratoria italiana, nel 18° secolo, trae ispirazione da due diversi indirizzi: quello “inglese” e quello, operante in Francia, detto “scozzese”. La Massoneria Inglese, caratterizzata da tre gradi, è razionalista e liberale, ha una matrice originaria protestante, si presenta come un sistema morale separato dal credo religioso. Osteggia i vecchi ordinamenti politici assolutisti e favorisce Ia formazione di stati moderni sul modello delle monarchie illuminate o di quelle costituzionali. I propri adepti sono reclutati tra professionisti, intellettuali borghesi, proprietari e nobili imborghesiti. Essa nasce dalla antica gilda dei muratori e dalle compagnie di livrea, è costituita in Gran Loggia nel 1717 da alcune logge londinesi ed è istituita, in modo organico, nel 1723, dal dottor James Anderson che concepisce e scrive la Costituzione ed i Regolamenti.
Nel 1700, incontriamo, per la prima volta in Francia, una Libera Muratoria, soprannominata “scozzese”, non certo per provenienza geografica, ma perché concepita e praticata da gruppi di cattolici-stuardisti i quali avevano addizionati ai tre gradi originari una serie di cosiddetti “alti gradi”.
Nei rituali di tali gradi, erano presenti elementi di esoterismo e di occultismo, suggestioni ermetiche, alchimistiche, teosofiche e teurgiche. Queste suggestioni non mirano a contrastare lo spirito cristiano-cattolico introdotto nei rituali dagli stuardisti ed adottato da una certa massoneria cavalleresca creata da un tal cavaliere Ramsey, anzi si fondono con esso dando origine ad un misticismo esoterico di una tinta del tutto particolare. Chi veniva insignito degli “alti gradi” pretendeva di rappresentare l’aristocrazia della massoneria e di possedere conoscenze esclusive. Le riunioni avevano luogo in logge particolari chiamati “Capitoli”, “Consigli” o “Concistori” ed ivi venivano officiate cerimonie molto complesse in atmosfere mistiche e misteriose. Il patriziato settecentesco amò organizzare le proprie irrequietezze spirituali in questi complessi sistemi, ricchi di simboli e di allegorie, ispirati dal cristianesimo esoterico dei Rosacroce e dei Templari, densi di fasto cerimoniale, spesso “sinonimi di indigenza intellettuale”, ritenuti veicoli di esclusive conoscenze e di poteri spirituali annunciati, ma mai rivelati.
Questi due orientamenti saranno determinanti per la storia e lo sviluppo della muratoria partenopea durante tutto questo secolo: ora intrecciandosi, ora scontrandosi, ora fondendosi, determineranno tendenze culturali, aggregazioni sociali, scelte politiche. In Napoli, al tempo del conte di Harrach, viceré di Carlo VI d’Austria dal 1728 al 1733, esistevano Logge di militari austriaci. Queste Logge erano chiamate “Feldiogen”, logge di campo, prive di numero e di titolo, non stilavano verbali delle loro riunioni. Si può supporre che «ciascuna di esse riunisse fratelli di una stessa arma o nazionalità, o fatto non raro a quei tempi, di una medesima confessione cristiana». Michelangelo D’Ayala riferisce che nella biblioteca del principe di Belmonte era conservato un manoscritto anonimo, nel quale si leggeva: «I Liberi Muratori sino del tempo di Carlo III si erano introdotti in Napoli, ma si mantenevano in maniera nascosta e ristretti tra soli forestieri, che sotto tutt’altro pretesto si radunavano. Da principio un piemontese di mestiere acquavitaro ed un francese, mercante di seta furono ammessi. Costoro conosciuti a fondo i principi della società, pensarono di erigere una Loggia separata: infatti, l’anno 1745 eseguirono un tale immaginato disegno».
G. De Blasis scopri nel 1905 un documento, presso l’Archivio della Società napoletana di storia patria che confermava tale circostanza. Questo può essere considerato il più importante documento sulle origini della muratoria in Napoli e, forse, il più antico in lingua italiana. In esso si legge: «Allorché l’Armi Cesaree presero il possesso del Regno di Napoli (si riferisce al 1707) si introdussero in quella vasta città le logge dei Liberi Muratori, i quali celebrarono i loro misteri con cautela. Negli anni 1749, 50, 51 vi si stabilirono più logge e ne furono maestri reggenti il primo Lornage.... L’autore del documento citato dal De Blasiis è anonimo e si firma: “Curioso dilettante”. Il titolo per intero è: «Istituto ossia Ordine dè Liberi Muratori. Traduzione germana dall’idioma francese nell’italiano fatta che un Curioso Dilettante di novità, con i catechismi, Capitoli, Tavole di Disegni ed altre Cerimonie e Funzioni solite fassi nelle Università dè Muratori, con tutti i Segni e le parole antiche, e recentemente riformate con dissertazione Apologetica, formule di Patenti, ed alcuni discorsi soliti recitarsi nelle Logge, dai rispettivi oratori in tutte le ricezioni dei fratelli, ed in altre diverse occasioni, con il Ragguaglio dello Stabilimento dè Liberi Muratori nel Regno di Napoli 1749, 1753, 1765».
Dunque, mentre il Curioso Dilettante data la nascita della prima Loggia nel 1749, l’anonimo del manoscritte del Principe di Belmonte parla del 1745, tutti e due però concordano che un “francese” fu il primo Maestro Venerabile, Louis Lornage, così si chiamava “il francese” che era lionese, di mestiere “mercante di sete” come sostengono documenti del 1776, di religione calvinista. Dal manoscritto del Curioso Dilettante apprendiamo che la Loggia Lornage era formata da borghesi, qualche militare e molti inglesi e scozzesi. Pertanto, riteniamo che lavorasse secondo i rituali inglesi dei tre gradi simbolici ed avesse essenzialmente un carattere filantropico. Lornage iniziò nella sua Loggia diversi militari tra i quali l’Alfiere Zelaia, del Reggimento reale di Napoli, un sacerdote don Filippo Pattoni Nazari di Savigliano, qualche nobile, Don Domenico Vernier, aiutante di Camera di S.M. I militari, però, mal sopportavano d’essere rappresentati da un “borghesuccio” come Lornage, anche perché ritenevano «fosse necessario ammettervi persone di nobile e cospicuo casato che all’occorrenza proteggessero la loggia dalle opposizione governative». Non poteva certo, un piccolo borghese, un “bottegaio”, ricevere e tenere “sotto il proprio maglietto” nobili e militari di alto grado. Probabilmente fu questo il motivo che creò disarmonia nella Loggia; e nell’Aprile del 1750, Lornage fu “deposto” o come dice ancora il Curioso Dilettante, fu “escluso”. Ma sappiamo che questi due termini, “deposto” ed “escluso”, non hanno senso nella Libera Muratoria, quindi pensiamo che Lornage fu indotto a dimettersi ed al suo posto venne, unanimemente, eletto l’Alfiere Zelajia (o Zelaia). Questa a me sembra l’interpretazione pin verosimile dei fatti, anche perché Lornage non lascia subito la Loggia, ma come riferisce il Curioso Dilettante, «nel mese di Luglio dell’istesso anno 1750 su alcune differenze si disunì La Loggia Zelajia. I Fratelli Pattoni, Ocham e Carreras, abbandonarono la Loggia Zelajia ed insieme con Voaijcr, Lornagc e Fromentin Forestier ne fondarono un’altra alla quale presiede nuovamente Lornage». Questa Loggia si arricchì di nuovi fratelli, ma rimase sempre una Loggia della piccola borghesia. Invece, alla Loggia di Zelajia, che si riuniva nel palazzo del Marchese Aloise al Ponte di Chiaia, aderirono diversi militari ed alcuni nobili. Il primo ad essere ricevuto fu Gennaro Carafa, principe di Roccella, presentato da Don Domenico Venier, aiutante di Camera di Sua Maestà. «Indi furono ricevuti il Principe di S. Severo cd il Principe di Calvarusso, e molti altri». È importante tentare una interpretazione del contrasto tra Zelajia e Lornage, poiché aldilà di quello che può sembrare una bega di Loggia dettata da piccoli ambizioni, esiste un diverso modo di concepire la Libera Muratoria. A tale proposito Francovich scrive: «Ma questo dissidio tra Zelajia e Lornage, non è tanto un dissidio tra persone ambiziose, desiderose entrambe di primeggiare; si tratta evidentemente di un contrasto fondato sulla diversa provenienza sociale, che a sua volta provocava una diversa valutazione della Libera Muratoria.
Sembra chiaro che lo Zelajia, amico di principi e nobile lui stesso, volesse innestare alla massoneria inglese, dai tre gradi simbolici e dall’ideologia liberali la riforma scozzese che meglio corrispondeva alle ambizioni e al gusto degli aristocratici napoletani i quali da allora assumono la direzione della libera muratoria partenopea. Non solo, ma il groviglio degli alti gradi meglio serviva a celare gli interessi esoterici di alcuni nobili cultori della magia». Ma siamo sicuri che nella massoneria napoletana esistessero gli alti gradi? La risposta è affermativa. Infatti, Renato Soriga sostiene di avere trovato nell’Archivio Vaticano una parte del rituale per il grado di Maestro Scozzese. Il rituale è di quel periodo e fu stampato clandestinamente nella tipografia del Principe di San Severo. Inoltre, risulta che dopo lo scioglimento delle Logge nel 1751 per la scomunica papale, Carlo III abbia inviato al pontefice certi documenti dal Principe di San Severo. Questi manoscritti contenevano “la traduzione francese delle Costituzioni delle Logge d’Inghilterra, costituzioni qui (cioè a Napoli) capitate, ma non per ancora accettate” e gli Statuti di tre alti gradi: Maestro Scozzese, Eletto e della Sublime filosofia.
Ma chi aveva importato a Napoli gli alti gradi e da dove? «Abbiamo visto come lo scozzesismo nascesse e si affermasse, intorno agli anni ‘40, in Francia, dove una società aristocratica e fortemente gerarchizzata aveva anteposto il mito della cavalleria cristiana all’egualitarismo razionalista e deista del rito anglicano». Una delle prime Logge francese fu fondata da John Coustos, intagliatore di pietra, calvinista, famoso nella storia della Libera Muratoria perché, nel 1743, venne processato a Lisbona dall’Inquisizione, con l’accusa di svolgere proselitismo massonico, torturato e condannato al remo per quattro anni sulle navi portoghesi. Fu messo in libertà subito per l’intervento diplomatico dal governo inglese e si stabilì in Inghilterra. La Loggia Custos era una Loggia di tradizione inglese della quale faceva parte una certa nobiltà francese.
Quando nel 1747 Coustos lascia la Francia, gli succede come Venerabile Louis François Anne de Neafville, duca di Villeroy, parì di Francia, favorito di Luigi XV. La Loggia Coustos diventa la Loggia Villeroy e dai verbali, conservati alla Biblioteca Nazionale di Parigi apprendiamo che sono membri di questa Loggia 27 francesi e 41 stranieri. «Con il mutare del Venerabile, non è più la Loggia del borghese e protestante John Coustos, ma diventa ora la Loggia del duca di Villeroy; e questo cambiamento da una direzione borghese a una aristocratica, comporta l’abbandono della massoneria hannoveriana e l’adozione degli alti gradi». Scorrendo l’elenco dei fratelli, ci rendiamo conto che questa non è una semplice Loggia, ma una Loggia madre dalla quale Ia massoneria degli alti gradi si propaga per tutta l’Europa. Tra i fratelli stranieri c’è il barone Scheffer, fondatore dell’Ordine in Svezia; il principe Lumbomirski, uno dei fondatori della Loggia “I tre fratelli” di Varsavia; il principe Nariskin, fondatore della Loggia “Apollon” a Pietroburgo; Johann Daniel Kraft, fondatore della Loggia di Amburgo; ed anche il principe Gennaro Carafa della Roccella. È probabile, quindi, che sia stato Carafa a dare questo nuovo indirizzo anche alla Massoneria Partenopea. Tornando, adesso, alle vicende delle Logge napoletane, apprendiamo dal Curioso Dilettante che il principe di San Severo compie una fulminea e sfolgorante carriera poiché viene, quasi subito, proclamato dalla Loggia Zelajia, Gran Maestro dell’Ordine. «Ma avendo la Loggia Zelajia proclamato per Gran Maestro dell’Ordine, e in tale qualità riconosciuto il Principe di San Severo, ed essendo da questo ricercato Lornage e la sua Loggia a riconoscerlo per tale, dopo vane deputazioni e dibattimenti, sotto il 24 di Ottobre dell’istesso anno 1750 fu riconosciuto anche da questi per Gran Maestro interinalmente, però, sino al 24 Giugno 1751». Apprendiamo, altresì, che sempre quel giorno, cioè il 24 Ottobre 1750, la Loggia Lornage rimase incorporata in quella del Gran Maestro e che egli “nelle debite forme, sedendo in trono di re Salomone” creò la Loggia di Guglielmo Moncada, principe di Calvaruso. Dall’elenco degli affiliati si può dedurre che questa Loggia pur essendo presieduta da un principe aveva un carattere borghese e seguiva probabilmente la tradizione inglese. Era Primo Sorvegliante Lornage e Secondo Sorvegliante Fromentin, due calvinisti. Nella Loggia vi erano negozianti, militari, cattolici e protestanti, napoletani e stranieri. Sedevano tra le colonne ben tre ecclesiastici e come aggregato anche l’ambasciatore di Danimarca. Nel Febbraio del 1751, il Gran Maestro Di Sangro diede una Patente per aprire una Loggia al barone Henri Teodor Tschudi, cadetto nel reggimento svizzero. La Loggia si riuniva in casa del Maresciallo Leonardo Tschudi, zio del barone ed anche lui massone. II barone Tschudi diventerà una personalità nel mondo massonico del settecento poiché fonderà un proprio sistema massonico occultistico, chiamato la “stella fiammeggiante”, con propri simboli e rituali piuttosto complessi, ispirati all’ermetismo ed all’alchimia. Teodor Tschudi era un massone spiritualista, egli mirava alla rigenerazione morale dell’uomo, all’attuazione della “grande opera” degli alchimisti mistici. Probabilmente aveva avuto uno scambio di informazioni con il Principe Di Sangro attento studioso e sperimentatore di alchimia. Infine, anche il principe Gaetano Carafa della Roccella fu abilitato, con patente rilasciata dal Gran Maestro San Severo, ad aprire una loggia. In questo periodo «la massoneria era diffusissima a Napoli e, pur avendo fatto proseliti nell’alta nobiltà del Regno e negli ambienti di corte, essa non era venuta meno alla prerogativa di mescolare ceti diversi, affiancando nelle logge l’ufficialetto al maresciallo, il mercante al principe di sangue. Il gusto del mistero ed il culto della magia si confondevano con la mondanità e con la possibilità di entrare in dimestichezza con persone altolocate». Ma chi era San Severo? Chi lo sosteneva? Perché dopo una fulminea ascesa esce di scena in modo rovinoso per l’Ordine? Raimondo Maria de Sangro, Marchese di Castronovo, settimo Principe di San Severo, pari di Spagna era uomo di eccezionale fascino ed autorità. Antonio Genovesi nell’autobiografia cosi lo descrive: «È di corta statura, di gran capo, di bello e giovanile aspetto; filosofo di spirito, molto dedito alle meccaniche; di amabilissimo e dolcissimo costume; studioso e ritirato; amante le conversazioni di uomini di lettere. Se egli non avesse il difetto di avere troppa fantasia, per cui è portato a vedere cose poco verosimili, potrebbe passare per uno dei perfetti filosofi. Per molti versi egli può essere considerato l’incarnazione dell’estetica del suo tempo; un uomo barocco, nato per stupire: Barocco il teatro che ad ogni occasione fa scorrere sotto gli occhi dei suoi contemporanei, barocca si deve considerare la sua passione per la pirotecnica, per i molti giochi, le fantasmagoriche illusioni che permette di improvvisare; con l’aggiunta di una evidente inclinazione all’umorismo e all’ironia. Un pò meno all’autoironia; ma si sa, i nobili hanno spesso un concetto molto alto delle loro persone per riderci sopra». II Principe era un uomo colto, molto colto in confronto alla media della nobiltà napoletana. Aveva studiato a Roma in un Collegio dei Gesuiti. Dal 1743 al 1746, aveva servito nell’esercito ispano-napoletano con il titolo di Colonnello della provincia di Capitanata, partecipando alle campagne militari della guerra di successione austriaca e distinguendosi nella battaglia di Velletri. Era un leale suddito di Carlo III, verso il quale nutriva scotimenti di sincera e devota amicizia, sebbene odiasse la corte e particolarmente il ministro Tanucci. Nei confronti del Papa nutriva una filiale affezione, ma disprezzava il clero e la curia. Ma il volgo patrizio e plebeo considerava il principe «nu tipo curiusu assai». Nacque così «la singolare leggenda, alimentata da monaci e da malevoli, non del tutto spenta ancora oggi, che egli fosse un mago o uno stregone». In verità, il principe era solo un alchimista, un empirico sperimentatore. Aveva impiantato un laboratorio nel suo palazzo al Largo Del Real Monastero di San Domenico. «Chi si fosse trovato a passare, nel cuore della notte, nei dintorni di Palazzo Sansevero, in quel largo finalmente libero da tutti gli ingombri e le cianfrusaglie del giorno – non libero però dall’immondizia, stabilmente inserita nel paesaggio - sarebbe stato costretto a pensare l’esatto contrario». «Fiamme vaganti, luci infernali guizzavano dietro gli enormi finestroni che danno dal pianoterra, nel vico San Severo scomparivano le fiamme, si rifaceva il buio ed ecco rumori sordi e prolungati suonavano là dentro . Era di là che il rumore partiva: lì, inserrato coi suoi aiutanti, il principe componeva meravigliose misture, cuoceva in muffoli divampanti - emulo di quell’Elettore di Sassonia di cui Carlo III aveva sposato la docile figliola - porcellane squisite e terraglia d’ogni sorta». Il popolino dei bassi vicini era terrorizzato e mormorava a bassa voce: «0 principe è ‘nu diavolo’ ». Probabilmente il Principe era collegato ad un gruppo di Rosacroce esistente a Napoli, ma al tempo stesso era uno studioso di Sesto Empirico e di Bayle. Come se non bastasse tutto questo, il Di Sangro aveva sistemato nel suo palazzo una stamperia dalla quale uscivano opere tutt’altro che canoniche, come il proibitissimo libro dell’abate Montfaucon de Villars dal titolo: “Il conte di Cabali, ovvero ragionamento sulle scienze segrete”, o ancora un altro famoso testo di magia: “L’Adcisidemon sive titus livius a superstitione vindicortus”, pubblicato in gran segreto, falsificando luogo e data, e infine la sua opera: “Lettera apologetica dell’Esercitato Accademico della Crusca” contenente la difesa del libro intitolato: “Lettere di una peruviana per rispetto della supposizione dei Quipu.” Quest’ultima opera venne definita dal prete salernitano Innocenzo Molinari, una continua cabala e una sentina di eresie e di empietà, dove si negava la Genesi, ed il miracolo di San Gennaro e se non bastava si prendeva pure la difesa della setta massonica. Sorse una pubblicistica polemica e calunniosa nei confronti del Principe che gli fruttò severi rimproveri da parte delle autorità ecclesiastiche e la messa al bando dell’opera. «Nè va dimenticato che il Di Sangro è anche Il fondatore del più importante monumento d’arte barocca esistente a Napoli: la Cappella San Severo in cui non solo si manifesta la volontà di stupire, di scoprire e di ammaestrare del committente, ma anche il bisogno di esprimere con complesso Simbolismo il senso segreto di un mondo arcano. Penso infatti che le decorazioni che vi fece apporre, indicando agli scultori i temi da svolgere, le lapidi che egli stesso dettava, abbiano nel loro simbolismo, finora mai o mal spiegato, un significato massonico. Massone infatti era - oltre che amico del principe - l’artefice principale della Cappella, lo scultore Antonio Corradini, che fece parte in quegli anni di una loggia napoletana». L’accoglienza di Raimondo San Severo nella Loggia Zelaija, fu sollecitata dal principe Gaetano Carafa della Roccella, membro della Loggia Villeroy di Parigi, con il segreto intento di dare una svolta scozzese alla Muratoria Partenopea, fondata da borghesi protestanti sul modello trigradale inglese. Forse il padre putativo della Massoneria Napoletana Luis Lornage, mercante, calvinista, il suo amico Fromentin, il sacerdote Pattoni e pochi altri fratelli esperti di cose massoniche intuirono il piano del Carafa e si opposero, pur sapendo di combattere una battaglia perduta poiché molti erano i fratelli impazienti ed orgogliosi di avere tra le colonne la nobiltà ed i militari di alto rango. Così il gruppo Lornage batté ritirata e fondò un’altra loggia, conservando la ritualità inglese. Il disegno dello scozzese Carafa si compì con l’elezione del Principe Raimondo Di Sangro a Gran Maestro. Egli si affrettò a ricercare Lornage e la sua Loggia “a riconoscerlo per tale” e dopo vane “deputazioni e dibattimenti sotto il 24 ottobre dello stesso anno 1750 fu riconosciuto”, ed il povero Lornage venne giubilato insieme al suo gruppo. II Gran Maestro aveva dato un forte impulso alla Muratoria, il reclutamento tra i nobili ed i militari di alto grado andava benissimo, le logge avevano mutato fisionomia, tra le colonne non c’erano solo borghesucci ed ufficialetti, ma il fior fiore della nobiltà, dei giureconsulti, della milizia borbonica e dei borghesi. Il Principe immaginava nuovi e grandiosi scenari socio-politici: «Come Gran Maestro, capo della massoneria del regno, forte del disegno che la setta perseguiva, avrebbe tentato di accentuare la pressione sul potere cui era più vicino, sul sovrano, fino ad ottenere che diventasse lui il Capo della muratoria napoletana. Con Carlo a fargli da scudo, nulla e nessuno lo avrebbe fermato». Fantasticava una utopistica concertazione «tra la nobiltà ed i giureconsulti, tra il primato ereditario degli aristocratici le loro sacrosante prerogative e le pretese crescenti dei borghesi, le loro legittime ambizioni». Tutto ciò doveva avvenire con il consenso del Re, sotto la spinta della Libera Muratoria per il beneficio di tutti. Ma il Principe come diceva il suo amico Genovesi - aveva troppa fantasia, per cui era portato a vedere cose poco verosimili; infatti dopo pochi mesi le illusioni del Principe si infransero rovinosamente contro il becero e reazionario immobilismo del Re, sostenuto dal ministro Tanucci e contro la tenace opposizione di un clero forte, ricco ed avido, che rivendicava ed imponeva le proprie prerogative e che si sentiva tremendamente minacciato dalla scellerata combriccola dei massoni. Ma tutt’Italia e non solo il Regno di Napoli, ed anche la Francia e qui e là tutta l’Europa era un rigoglio di Logge, e come se non bastasse, circolavano inesistenti dicerie secondo le quali i re, i vescovi e i cardinali, oltre al medesimo Pontefice fossero membri della diabolica congrega, anzi si diceva che fosse imminente la revoca della scomunica lanciata tredici anni prima da Clemente XII. A metà di gennaio del ‘51 il Papa chiese all’ambasciatore di Carlo III di comunicare al suo sovrano che «Napoli era già appestata dalla setta dei Liberi Muratori e che la peste era già penetrata fisica- mente fra non pochi personaggi della Corte». L’ambasciatore riferì e gli fu risposto che il Re sapeva di tali logge e che era disposto a prendere segrete ed adeguate misure per sradicare il nascente male, non solo evitando che avvenissero riunioni, ma soprattutto intervenendo per stroncare il proselitismo. Mentre era in corso questa corrispondenza frati, preti, confessori e, specialmente, il gesuita Francesco Maria Pepe misero in agitazione il popolo, i lazzeri, tanto che a Napoli «vi fu un vero movimento popolare contro la setta, la quale venne incolpata perfino del mancato miracolo di San Gennaro, in quell’anno 1751». Naturalmente il Principe Raimondo Di Sangro fu il bersaglio prediletto dei preti, del volgo e degli stessi nobili, sobillati dal Ministro Tanucci che lo odiava e lo disprezzava. Il 28 maggio del 1751 il Pontefice, ruppe gli indugi, ed emanò la bolla Provides Romanorum Pontifcum, con la quale confermò la scomunica lanciata da Clemente XII spiegando i motivi che l’avevano ispirata - confirmamus, roboramus et innovamus - aggiungendo dure parole contro i calunniatori - contra obloquentes, quo facilius possemus mendacibus calumniis fomentum… Inoltre, Benedetto XIV condannò lo spirito di tolleranza massonico che permettcva, nelle logge, la promiscua convivenza tra cattolici e protestanti e perfino ebrei. Biasimò il segreto massonico ed il fatto che fosse sancito con un giuramento, ed, infine, richiamandosi alle leggi civili ed al diritto romano: ne societates et conventus sine Principis auctoritate inire et habere possent, sottolineava l’argomento, tanto caro alla pubblicistica antimassonica, che il sorgere delle Logge rappresentava un pericolo, non solo per la religione cattolica ma anche per lo Stato. Per il Gran Maestro Di Sangro fu un brutto colpo, i suoi sogni svanivano, la Chiesa aveva condannato duramente la fratellanza, adesso bisognava evitare che anche il Sovrano prendesse provvedimenti, «Carlo era geloso della propria autonomia, se si abbandonava nelle manifestazioni esteriori di ossequio, in realtà conduceva uno strano braccio di ferro con la Santa Sede». Di Sangro, dopo avere a lungo riflettuto, decise di fare Ia prima mossa, uscì allo scoperto e chiese udienza a re Carlo: egli era il Gran Maestro dei Liberi Muratori, ma era anche un principe, un Grande di Spagna, un valoroso militare che aveva messo la sua vita a servizio della corona e soprattutto un fedele e devoto suddito, sinceramente amico del sovrano. Avrebbe usato le sue capacità diplomatiche, i discorsi più appropriati e convenienti per far comprendere al sovrano che la Libera Muratoria non era la peste e men che mai un pericolo per lo Stato. Questo era l’unico modo - secondo il Principe - per limitare i danni personali e salvare l’Istituzione Massonica e partenopea. Invece, il colloquio fu penoso. Il Principe si destreggiò con cautela, «riuscì a non rivelare al Sovrano i segreti fondamentali della fratellanza... si impegnò a minimizzare tutto, a far apparire quella storia una sceneggiata senza senso, ad assicurare il Sovrano che la Massoneria non era in alcun modo nemica della religione, meno che mai del potere reale. Ebbe un tuffo al cuore quando, quasi senza accorgersene, incalzato dalle domande, sentì la sua voce che elencava gli statuti delle Logge, e uno dopo l’altro prendeva a tirar fuori anche i nomi degli associati. Sarà stato anche uno spirito diabolico ma certo il Principe non mancava di ingenuità. Si era convinto, infatti, che quel colloquio sarebbe bastato a fugare i dubbi ed i sospetti del sovrano. Si sbagliava il Principe perché il 2 luglio del 1751, Carlo III pubblicò un durissimo Editto che metteva fuori legge la Società dei Liberi Muratori. Quando venne a conoscenza della prammatica reale, il Principe di San Severo fu costernato e pensò di tirarsi fuori dai futuri impicci sottomettendosi alla Chiesa. Fece una piena e completa confessione al sacerdote Giovan Battista Alasia, esternando la sua contrizione e rinunciando “in perpetuo” all’appartenenza alla Libera Muratoria e ricevendo, in cambio, “l’assoluzione dalle censure”. Ma Di Sangro non era uomo di mezze misure ed il 1 Agosto 1751 decise di inviare una epistola, in latino al Papa: fece l’apologia di se stesso, mise in berlina l’Istituzione Massonica e si dimostrò pentito. Il Papa gli rispose, non direttamente, inviandogli l’apostolica benedizione. Sta di fatto che cosi’operando il Principe tradi’ il segreto massonico e - come annota il Curioso Dilettante - «non più Gran Maestro dell’Ordine ma come fratello spergiuro e ribelle... [fu] proscritto da tutta la Società, e di tal proscrizione ne restarono avvisate tutte le Logge sparse per l’Universo mondo». Prima di promulgare l’editto, re Carlo aveva meditato a lungo. Egli era ben deciso a colpire la Massoneria e quindi ad accogliere ed assecondare i disegni della Chiesa cattolica, ma nello stesso tempo voleva evitare qualsiasi danno o accanimento nei confronti dei nobili e dei militari che avevano aderito alla società. Il 17 giugno del 1751, il Sovrano rispondendo ad una lettera del Pontefice che gi trasmetteva in via riservata la bolla di scomunica, gli inviò la minuta dell’editto che intendeva promulgare chiedendogli opportuni suggerimenti. Il Papa rispose sottolineando la necessaria alleanza tra altare e trono per tenere testa ai settari massoni, «e poiché nella minuta dell’editto contro la Libera Muratoria napoletana si accennava ad un precedente editto del 1746 con il quale Carlo III, allora sotto l’influenza dei suggerimenti giannoniani, toglieva ai vescovi autorità che avessero dal Papa in materia civile, costui, che male aveva digerito siffatta affermazione, consigliava la soppressione di quel passo e la sua sostituzione con un generico richiamo allo ius Regio, onde evitare che la rievocazione di passati contrasti potesse avvantaggiare i Liberi Muratori.
Il monarca annunciava, nel proclama, che: «in qualunque ben regolato Stato non vi è male che più contraddica e distrugga i princìpi della intrinseca sua costituzione, quando la perniciosa libertà che si arrogassero i cittadini di potere a loro capriccio formare riunioni e stringersi in società». Fatta questa premessa, il sovrano constatava che l’unione dei Liberi Muratori «quantunque dappertutto sia stata rigorosamente bandita ha insidiosamente penetrato sin’ anche nei nostri domini; quindi per ovviare ad un male sì grande e durevole di una società troppo sospetta incoraggianti Se Filippo [il primogenito] è idiota, Ferdinando non è una gran testa». Ad ottobre, Carlo III lasciò Napoli per Madrid ed abdicò in favore del minore Ferdinando IV. Egli, prima di partire per la Spagna, affidò la reggenza al ministro Bernardo Tanucci in modo da tenere saldamente in pugno anche la politica del Regno partenopeo. Con la partenza del Re iniziò la ripresa massonica anche perché Tanucci, sebbene non nutrisse simpatia per la “fratellanza”, lasciava ampi margini d’azione considerando la Massoneria una moda d’oltralpe, forse pericolosa per la Chiesa cattolica, ma non certo per lo Stato, valutando, anche, che molti aristocratici militavano nella setta. Sappiamo con certezza che nel 1763 la Gran Loggia d’Olanda rilasciò una patente alla Loggia “Gli Zelanti” di Napoli e che nel medesimo periodo la Gran Loggia d’Inghilterra, mentre era Gran Maestro Lord Blancy, nominò un Provincial Grand Mastet for Italy nella persona di Nicola Manuzzi napoletano. Nel 1768 la medesima Gran Loggia riconobbe la “Perfect Union Lodge” assegnandogli il n° 433 e nel 1769 la “Well Chosen Lodge” con il n° 444, della quale era Maestro Venerabile S. A. Francesco d’Aquino, Principe di Caramanico. Intanto, sempre nel 1763, una “Madre Loggia Scozzese” di Marsiglia concesse una patente alla Loggia palermitana “San Giovanni di Scozia” e nel 1765 la medesima Loggia ottenne “la suprema facoltà di costituire Logge nell’Oriente delle due Sicilie”. Nel 1767 la bella Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria e di Francesco I di Lorena, sposa Ferdinando IV di Borbone. Il matrimonio serviva a legare, gradualmente, alla politica austriaca il Regno di Napoli, affrancando Ferdinando IV dall’influenza del Sovrano spagnolo che continuava, da lontano, a governare tramite l’astuto ministro Tanucci. L’arrivo della Regina a Napoli coincise con una nuova primavera massonica poiché «nelle logge si raccoglieva la nobiltà partenopea avversa al ministro toscano, nelle logge, più che altrove, si faceva sentire lo spirito dei tempi mutati, non disgiunto dalla frivolezza salottiera, così cara alla Regina e così avversata dal vecchio Re di Spagna». Nel 1770 per un accordo tra la Gran Loggia d’Olanda e quella d’Inghilterra tutte le logge del Regno di Napoli passavano sotto giurisdizione inglese e da Londra direttamente venne nominato Provincial Grand Master for the Kingdom of Naples, don Cesare Pignatelli, duca della Rocca e di San Demetrio. La decisione della Gran Loggia d’Inghilterra di incamerare il Regno di Napoli come “provincia” non favorisce certo l’attuazione dei piani della Regina e dell’Austria che individuavano nelle Logge una “forza politica autonoma” per realizzare una politica filoaustriaca e liberarsi del ministro Tanucci fiduciario del vecchio re di Spagna. A dare corpo al disegno austriaco fu S. A. d’Aquino, Principe di Caramanico, ufficiale dei Liparoti, favorito della Regina, in seguito nominato Viceré di Sicilia, già Maestro Venerabile di una Loggia inglese. Nel 1733 il principe Caramanico, convocati i fratelli piu’ rappresentativi, ritenendo sconveniente che “la libera nazione napoletana” dipendesse da Londra, con un colpo di mano, staccò dalla Gran Loggia d’Inghilterra, con il consenso della maggioranza dei fratelli, la Loggia “Gli Zelanti” e diede vita alla Gran Loggia Nazionale. Gran Maestro Nazionale fu eletto il Principe Caramanico; Deputato G.M. Giovanni Gironda, Principe di Cannito, 1° Gran Sorvegliante; Diego Naselli dei Principi d’Aragona; 2° Gran Sorvegliante; Eugenio di Sora; Gran Segretario: Felice Lioy. Tutto questo avviene, è utile sottolinearlo, mentre a Napoli s’insedia come ambasciatore imperiale il conte Josef Wilczek, esponente della Massoneria Austriaca. Non tutti però aderirono alla Gran Loggia Nazionale. Infatti, rimasero fedeli agli inglesi: la Loggia “Perfect Union” n° 433, la “Well Chosen Lodge” n°444, il Gran Maestro Provinciale Cesare Pignatelli Duca della Rocca e San Demetrio, S.A. Giuseppe Medici, Principe di Ottajano e molti altri. La Gran Loggia Nazionale poteva contare su tre logge già esistenti a Napoli: “La Stella”; “Gli Zelanti” e “la Vittoria”, e su tre logge fondate con bolla della Gran Loggia stessa: “La pace”, “L’uguaglianza” e “L’Amicizia”, su alcune logge a Palermo, e su logge a Messina, a Catania, a Caltagirone, in Puglia ed in Calabria. La Gran Loggia Nazionale aveva un carattere mondano e politico, allo stesso tempo convivevano lo spirito filoaustriaco ed antispagnolo della nobiltà della corte della Regina e lo spirito riformatore rappresentato da intellettuali e borghesi, come l’avvocato Lioy, il grecista Baffi, il prete scienziato Nicola Pacifico, Mario Pagano, Gaetano Filangeri ed altri. Il carattere innovativo delle logge napoletane tutte consistevano nell’affiancare agli antichi interessi umanistici ed esoterici, occultistici, un nuovo interesse: quello politico che si concretizzava in un sentimento filoaustriaco ed antiborbonico non privo di venature progressiste. Non è invece possibile stabilire quanto la Libera Muratoria partenopea fosse manipolata da certi ambienti di corte e quanto, invece, fosse una essa stessa portatrice di nuove istanze politico-sociali. La fioritura di nuove logge era, certamente, causata da contrasti ed ambizioni personali di aristocratici, legati al proprio prestigio e di morale disinvolta, ma era altresì testimonianza e indizio di elaborazione di un libero pensiero da parte di scienziati, uomini di legge, politici ed intellettuali borghesi di fine intelletto e di specchiata moralità. Dunque, accanto alla Gran Loggia Nazionale resta operante La Gran Loggia Provinciale Inglese, ma si forma anche una Loggia mista. Giuseppe Medici, principe di Ottajano, nel 1774 si stacca dalla Gran Loggia Inglese e su patente costitutiva ottenuta dal Duca di Lussemburgo, Grande Amministratore di tutte le logge di Francia, fonda una loggia intitolata “San Giovanni del segreto e della perfetta amicizia”, nella quale furono ammesse non senza scandalo, anche le donne. Tra le componenti di questa Loggia, oltre la moglie del Principe, si annoveravano la marchesa di San Marco, favorita della Regina, una madama di Belsinoir, l’attrice Antonia Bernasconi e, forse, la stessa Regina Maria Carolina. Sebbene non vi sia alcun documento che attesti l’appartenenza alla Massoneria della Regina, tuttavia le voci circolanti erano suffragate da testimoni degni di fede: l’astronomo Lalande; l’abate Barruel, scrittore antimassone, il Principe di Canosa ed infine, il cantore ufficiale della Libera Muratoria napoletana, il calabrese abate Antonio Jerocordes che scrisse: «Venne al Tempio l’augusta Regina/e ci disse i miei figli cantate./ Ma la legge, ma il rito serbate,/ma si accresca del soglio l’onor./Io vi salvo dall’alta ruina,/io distruggo le frodi, l’inganno,/io vi tolgo dal petto l’affanno,/io vi rendo la pace del cor». Si racconta, altresì che la “sorella” «Antonia Bernasconi, prima donna del San Carlo, cantando una sera, sul palcoscenico di quel teatro, salutò il pubblico con il segno di apprendista accettato Libero Muratore, riscotendo a scena aperta grandi applausi». E per completare il panorama massonico, sappiamo che a Napoli vi era anche una loggia mista di rito egiziano, fondata da Giuseppe Balsamo, cosiddetto Conte di Cagliostro, amico del Cavalier d’Aquino, fratello del Principe Caramanico. L’incontrollata proliferazione di logge tra il 1770 e il 1775 mise in allarme non solo il clero, ma soprattutto il Re di Spagna e il ministro Tanucci, suo alter ego a Napoli. Il Re di Spagna fece pressioni fortissime presso il figlio Ferdinando IV perché stroncasse la “satanica combriccola” ed il Tanucci sperava che un nuovo contrasto tra il Sovrano e la Massoneria lo aiutasse a liberarsi dai cortigiani filoaustriaci. Il 12 settembre 1775, Ferdinando IV con un Editto, rinnovò l’ostracismo contro la setta, ripetendo la condanna del ‘51. Il proclama venne accolto con indiffercnza e solo pochissimi affiliati si presentarono ad abiurare - sembra fossero 24 su 200 - purtroppo tra questi vi fu anche il Gran Maestro della Gran Loggia Nazionale, prontamente sostituito da Don Diego Naselli, Principe d’Aragona. Gli altri maestri venerabili rimasero ai loro posti e le riunioni massoniche continuarono in forma privata, protette dalla inviolabilità delle mura delle case patrizie. Il ministro Tanucci, considerato il risultato ottenuto dal Decreto e spinto dal vecchio Re di Spagna, decise di effettuare un’azione dimostrativa che fosse di chiaro monito ai nobili, ma che a pagarne le conseguenze, come al solito, fossero i borghesi. Così ordinò al Caporota Gennaro Palliante, uomo corrotto e di pochi scrupoli, di irrompere in una riunione massonica e di arrestare i trasgressori della legge, raccomandandosi, però, di evitare ai nobili l’onta dell’arresto. Palliante cercò di raggiungere il risultato richiestogli, ma non vi riuscì. Il capo-sbirri pensò, allora, di escogitare una trappola per cogliere “in flagrante crimine” ed arrestare alcuni massoni borghesi e soddisfare cosi le attese del ministro Tanucci. Palliante, assoldato un certo Giovanni Rho, libero muratore di una loggia irregolare, paggio disoccupato di mestiere, gli propose di inventarsi una riunione per l’ammissione di un nuovo fratello un certo Alberto Letwizki, polacco, cameriere, anche lui al soldo e rassicurato con una promessa di immunità e un premio di 200 ducati. La riunione venne organizzata dal “fratello” Rho in una villa alle porte di Napoli il 2 marzo 1776 e, non si sa come, vennero coinvolti alcuni onesti massoni regolari appartenenti ad alcune logge inglesi come il medico svizzero Brutschy, il medico Giacinto Benè, il tedesco Francesco Mayer medico del Principe Filippo, fratello del re, il matematico Felice Piccinini ed il grecista calabrese Pasquale Baffi. Mentre tutti si trovavano riuniti, escluso Giovanni Rho, il capo-sbirri Palliante, con alcuni poliziotti, irruppe nei locali ed al grido “viva il Re”, arrestò i presenti. II Palliante annunciò la buona novella al ministro Tanucci, il quale a sua volta recò il trionfale annuncio a Re Ferdinando IV contentissimo di avere dato una lezione esemplare e definitiva ai liberi muratori ed in modo particolare agli aristocratici senza però comprometterli. Il ministro Tanucci in una lettera al Re di Spagna, suo vero padrone, così commentava l’accaduto: «Il Re (Ferdinando IV) alla prima notizia che gli umiliai, del fatto se ne rallegrò infinitamente; oggi poi mi ha detto che è stato opportuno che il fatto era accaduto in persone di poco conto. Perché li Cavalieri rei si guardassero dalle riunioni e non potranno essere sorpresi.» I massoni caduti nella retata furono poi deferiti alla Giunta di Stato con l’imputazione di lesa maestà, reato che poteva comportare anche la pena di morte. Il Re e Tanucci pensarono di avere vinto ormai la partita, ma la situazione si complicò notevolmente perché la Regina e i magistrati subodorarono l’inganno che era stato commesso dal Palliante mentre personaggi influenti e d’opinione pubblica s’indignavano. I massoni in carcere non vennero reputati rei, ma piuttosto perseguitati e la stessa regina Maria Carolina fece pressioni sul debole Re Ferdinando IV perché li liberasse. Anche la cognata del re Maria Cristina ed il marito, il duca Alberto di Sassonia, figlio del re di Polonia, massone, di passaggio a Napoli in quei giorni, difesero apertamente i “fratelli perseguitati”, costretti in vincoli nelle segrete napoletane. Nel giugno del 1776 giunse a Napoli la duchessa di Cartey moglie di Luigi Filippo di Orleans, Gran Maestro della Gran Loggia di Francia ed ella stessa Gran Maestra delle logge femminili o di adozione. La duchessa perorò con passione la causa del “fratelli” in carcere, mentre vennero messe in circolazione varie copie di un libello anonimo, attribuito all’avvocato Felice Lioy, noto massone, che formulava una violenta accusa sull’operato del capo-sbirri Palliante e difendeva coraggiosamente gli arrestati e la Massoneria in genere considerata come associazione di uomini colti e di filantropi. La svolta definitiva del processo si ebbe verso la fine del 1776 quando Ferdinando IV, spinto dalle pressioni filomassoniche provenienti da ogni parte, licenziò il Tanucci e nominò ministro il marchese Sambuca, favorevole ai Liberi Muratori. Difatti, poco dopo gli incarcerati furono rimessi in libertà e s’innalzò un coro di lodi all’opera della Regina Maria Carolina; a Parigi, nell’aprile del 1777 gli fu intitolata una loggia, e l’abate Jerocades scrisse: «Se alla guerra, se all’aspra tempesta /già succede la pace e la calma; /Carolina riporta la palma, /che dell’empio sconfisse il furor». Il capo-sbirri Gennaro Palliante, dopo un processo con vicende alterne, venne graziato dal sovrano e andò in pensione, i massoni arrestati furono reintegrati nei loro posti, il polacco Letwiski morì misteriosamente, forse avvelenato, nel 1777. Finiva così la seconda repressione massonica partenopea ed ancora una volta a spese della borghesia: un avvocato, un professore di greco, qualche militare e qualche commerciante. «Capi espiatori certamente, ma anche esponenti di quel ceto borghese che nelle logge vede un modello di vita democratica determinata dalla uguaglianza di tutti gli associati, dalla eleggibilità e dalla temporaneità delle cariche». La libera muratoria diventa il veicolo delle idee antifeudali ed antiassolutistiche, aldilà della ritualità e delle solennità mondane nelle logge si alimenta uno spirito nuovo destinato a fare della Massoneria un partito progressista. Sebbene gli Illuministi, i riformatori operino fuori della Massoneria, tuttavia sono le logge a diffondere le loro idee ed ad organizzare un partito in lotta contro i privilegi della Chiesa e le strutture feudali. Tornando adesso alla Libera Muratoria nel Regno di Napoli, abbiamo già detto che dopo l’editto d’interdizione emanato da Ferdinando IV nel 1775, II Gran Maestro della Gran Loggia Nazionale, il principe di Caramanico, abiurò davanti alle autorità competenti, ma abbiamo motivo di credere che la sua apostasia fosse un fatto formale e politico, poiché il suo nome riaffiora in un elenco di Liberi Muratori siciliani nel 1711, periodo in cui era Viceré in Sicilia. In ogni modo dopo solo quattro mesi la Gran Loggia Nazionale si ricompose ed il 24 giugno del 1776 venne eletto Gran Maestro Don Diego Naselli dei Principi d’Aragona; suo deputato, l’abate Olivetano Kiliano Caracciolo, odiato dagli ecclesiastici, ma amato dalla Regina. Diego Naselli fu il classico rappresentante della aristocrazia napoletana colta e curiosa, nutriva aspirazioni spiritualiste e coltivava gli studi ermetici, fu molto interessato al sistema degli Alti Gradi. Ben presto Naselli e la maggior parte dei Grandi Ufficiali della sua Gran Loggia aderirono al sistema della Stretta Osservanza eseguendo così il distacco dalle logge inglesi e di conseguenza dalla Gran Loggia di Londra. L’adesione alla Stretta Osservanza venne sollecitata dal Barone vonEyben, diplomatico e rappresentante del Re di Danimarca a Napoli. A sollecitare l’adesione del Naselli fu certamente anche la Regina che approvava l’adesione ad un organismo dominato da elementi tedeschi. Il mito portante dell’Ordine della Stretta Osservanza era quello dei cavalieri templari. I tedeschi aggiunsero anche un collegamento dei cavalieri templari con i Canonici del Santo Sepolcro che a loro volta conservavano i segreti degli Esseni. Secondo questa poco credibile leggenda, nata nel sec. XVIII l’Ordine dei Templari si sarebbe perpetuato in seno alla Massoneria, di cui i cavalieri costituiscono l’ordine interno e dirigente, ignoto agli stessi affiliati. La leggenda riporta l’elenco dei Gran Maestri che clandestinamente si sarebbero susseguiti per 250 anni, conservando e trasmettendo i segreti dell’Ordine. Lo scopo del sistema era la ricostituzione dell’antico Ordine Templare ed il riacquisto delle antiche ricchezze Il fratello veniva armato “cavaliere”, con un rituale in lingua latina, scopiazzato dal culto cattolico. La Stretta Osservanza faceva capo al Duca Ferdinando di Brunswick e Lunenburg, cognato del Re di Prussica Federico II, di religione luterana. L’adesione della Gran Loggia Nazionale alla Stretta Osservanza era ben vista politicamente dalla Regina che considerava rafforzato il partito filoaustriaco, soddisfaceva le smanie dell’aristocrazia desiderosa di mistero e di novità ed aveva minore opposizione nella Chiesa Cattolica. Anzi, lo spiritualismo religioso che «animava la Massoneria Templare, con i suoi riti scimmiottanti quelli della Chiesa romana, con i suoi miti che per un verso o l’altro si rifacevano al medioevo cristiano, non senza precisi riferimenti a Roma, rappresentavano un’ottima premessa per battere il protestantesimo razionalista ed offrire un terreno d’incontro, tra spiritualisti evangelici e cattolici in cui quest’ultimi, con la loro ricca tradizione culturale avrebbero finito per prevalere. In quanto all’ermetismo occultista, coltivato comunque da piccoli nuclei d’iniziati... solo in apparenza sconfinava nell’eresia. In fondo, fino ai tempi di Alberto Magno e di san Tommaso d’Aquino, alchimia e magia, evocazione di spiriti benigni ed esorcizzazione di quelli maligni, avevano trovato un parziale diritto di cittadinanza anche in seno alla Chiesa Cattolica». Ben altra cosa era la Libera Muratoria Inglese che si presentava con un semplice sistema trigradale, che utilizzava un rituale essenziale e riuniva nobili, borghesi e militari e che veniva considerata politicamente e socialmente pericolosa per l’umanitarismo egualitarista, per le idee liberali e progressiste derivanti dal protestantesimo razionalista. La Massoneria Inglese era molto attiva e sorgevano logge un poco ovunque per tutto il Regno di Napoli. Continuando nella descrizione della geografia massonica del Regno di Napoli, procederemo con un sommario di quest’ultimo decennio che meriterebbe una trattazione più puntuale specialmente per gli eventi riguardanti le logge legati agli Alti Gradi della Stretta Osservanza, riformata dopo il Convento di Wilhelmsbad del 16 luglio 1782: molte notizie che riferirò sono, infatti, ricavate dall’epistolario e dagli scritti del brillante teologo luterano Friederich Munter, inviato in Italia dal Duca di Brunswick per ristrutturare e diffondere gli altri gradi. Sappiamo che in Calabria esistevano diverse logge: a Reggio Calabria, a Troppa, a Filadelfia, a Maida, a Catanzaro. Probabilmente queste logge furono fondate tra il 1773 e il 1883 dall’abate Jerocardes. Munter riferisce che «a Reggio Calabria c’era una loggia di costituzione inglese, i fratelli tenevano le loro agapi in un’osteria; sul loro conto si mormorava che fossero sodomiti e l’arcivescovo faceva violenti prediche contro di loro» .Munter a Reggio conobbe Agamennone Spanò, morto per mano del boia borbonico nel 1789, e Giuseppe Zurlo che scampato alla Rivoluzione fece una brillante carriera politica sotto Murat e partecipò ai moti del 1820. Fu Zurlo a mettere in contatto Munter con Domenico Cinilo, con Mario Pagano, con Gaetano Filangeri e con Donato Tommasi. Anche la loggia di Tropea, fondata ad interim con patente marsigliese, passò a far parte della Gran Loggia Provinciale Inglese. Delle altre logge calabresi non si sa nulla aldilà della loro esistenza. A Messina, nel 1780, esistevano due logge: la prima, esistente fin dal 1776, patentata dalla Gran Loggia Nazionale di Napoli, aveva come titolo “La Loggia dei Costanti”, ma scomparve, non si sa perché, nel 1782; nel 1778 sorse un’altra loggia, di cui non conosciamo il titolo, che aderì al sistema inglese. Anche W. Goethe parla di una loggia aperta nel suo “Viaggio in Italia”. A Palermo vi erano due logge: la prima era la vecchia loggia “San Giovanni di Scozia”, che dopo il 1776 aveva aderito al Regime Rettificato di Lione, seguendo l’esempio della Gran Loggia Nazionale; l’altra, invece, era nata con patente del Gran Maestro Provinciale del sistema inglese Cesare Pignatelli. Di questa loggia inglese faceva parte uno dei più colti aristocratici napoletani, il marchese Corrado Bajada, il giurista e letterato Giovanbattista De Stefano, il poeta Antonio Lucchesi dei principi di Campofranco, il poeta Giovanni Meli e diversi frati benedettini e domenicani. A Siracusa c’era stata un loggia fondata dal Principe Carlo di Lorena, ma in questo periodo aveva cessato ogni attività e vi erano solo fratelli sparsi. A Catania, invece, vi era una loggia molto efficiente, malgrado le persecuzioni del vescovo ed era diretta dal vecchio Principe Ignazio Paternò noto mecenate ed amato da tutti i fratelli per la sua gcntilczza. Dalla “Noticen für Geschichte” apprendiamo, inoltre, che in Sicilia ed a Napoli esisteva una società segreta, concorrente della massoneria chiamata “Gli Zappatori”. Questa società aveva come scopo quello di infiltrarsi nell’Ordine Massonico per poi tradirlo, rendendolo ridicolo e svelarne i segreti. Il loro simbolo era un albero presso il quale giaceva una scure ed un massone che correva a gambe levate. Nella loro società venivano ammesse anche le donne ed il loro capo era un certo Ignazio Wirtz, ufficiale di un reggimento, ex massone. Gli anni ottanta del diciottesimo secolo segnano un nuovo declino della Libera Muratoria nel Regno di Napoli, questa volta dovuto soprattutto a cause interne. Forse questa crisi era latente: la Gran Loggia Nazionale aderendo alla massoneria cavalleresca aveva in un certo qual modo segnato il suo destino, perché le nuove generazioni avevano istanze diverse, meno mistiche, meno spiritualistiche, più coerenti e politiche. Mentre le logge inglesi crescevano e si dilatavano e stavano ottenendo da Londra il permesso di erigere una Gran Loggia delle Due Sicilie. Tuttavia, anche queste logge erano in crisi perché depauperate dalla aristocrazia avevano poco peso politico. Ma la verità era che per tutta la Massoneria europea sembrava fosse giunta l’ora della crisi. In Germania la Massoneria veniva attaccata da “forze reazionarie, cattoliche ed occultistiche”. Lo stesso Imperatore d’Austria dubitava che la Libera Muratoria potesse essergli utile per i suoi fini politici. Iniziava a levarsi il vento della Rivoluzione, ed i sovrani nutrivano sospetti verso tutto e tutti. Di lì a poco a Napoli sarà pubblicato il terzo editto contro le società segrete, sicché molti liberi muratori entrarono in clandestinità dando vita a gruppi politici segreti. «Evidentemente la crisi della Massoneria non era crisi di sistemi o diritti, ma era qualcosa di ben più profondo. Ci si accorgeva ormai da parte degli stessi “fratelli” spiritualisti che il sorgere di una spiritualità non poteva essere opera di una organizzazione massiccia come la Massoneria, ma doveva essere frutto di opera individuale e di piccoli gruppi esoterici formati da eletti». Nel lento progredire dell’Istituzione accendeva speranze nei massoni razionalisti i quali ormai avevano capito che occorreva ricorrere alla lotta politica aperta, sensibilizzare più vasti ceti sociali per vedere concretizzarsi le aspirazioni costituzionali e gli ideali liberali.

25 marzo 2010

-Il pieno nel vuoto. ( Meditazione )


- L'alchimia della felicità.
Quando affermi di conoscere te stesso, in realtà sei portato a riconoscere il tuo corpo esteriore, le mani, i piedi, la testa, insomma le membra, mentre non conosci ciò che stà dentro di te di autenticamente tuo. Se sei travolto dall'ira, cerchi un nemico, se sei eccitato, cerchi il coito, se hai fame , il cibo; se hai sete, la bevanda: l'animalità si accompagna a te in queste cose. Ora, devi invece conoscere te stesso secondo l'essenza, onde apprendere chi sei, da dove provieni, perchè sei stato creato, in che cosa consiste la tua felicità e in che cosa la tu miseria.
AL - GHAZALI
- Quando tu non hai più pensieri, creando questo vuoto, trovi il pieno.

24 marzo 2010

- Kamea del Sole.


22 marzo 2010

- Verso un'armonizzazione del Maschile e del Femminile.

“Sono perseguitato dalle Madri, dalle Madri!” urlava Nikias, fingendosi pazzo, mentre fuggiva, inseguito dalla folla inferocita per avere indotto a venire a patti con i Romani gli abitanti di una città cartaginese della Sicilia, dove era stato eretto, in circostanze misteriose, un Tempio alle Madri. L’episodio, descritto da Plutarco, colpì la fantasia di Goethe che riprese questo tema nel “Faust” facendo intraprendere al protagonista un percorso iniziatico nel Regno spirituale delle Madri. Goethe aveva colto la vera portata del significato dell’episodio comprendendo che Nikias “non era pazzo, ma un essere umano divenuto veggente in un Regno di realtà spirituale”che lo atterriva con tutta l’incombente e misteriosa potenza del femminile. Egli descrisse le Madri quali esseri divini appartenenti ad un mondo che sta dietro la realtà sensibile, dove viene generato maternamente tutto ciò che è fisico e terreno perché nel Regno delle Madri si trovano l’essenza divina di tutte le cose e la matrice prima dell’esistenza. Il viaggio, iniziato sotto i cattivi auspici di Mefisto, lo spirito demoniaco che demotiva Faust con le parole “Tu vai alla ricerca del puro Nulla” a cui egli risponde “Nel tuo Nulla io spero di trovare il mio Tutto”, lo porterà al risveglio della sua anima: l’eterno femminino presente in ognuno di noi a prescindere dalla differenza di genere, retaggio del mondo delle origini, cui ci lega “la perenne ricerca di quell’Osiride che si può ritrovare solo grazie all’iniziazione o alla morte”. Contrariamente alle comuni credenze, il femminile non è dunque solo prerogativa della donna, ne è partecipe anche l’uomo quando manifesta immaginazione, capacità di abbandono, accettazione del diverso da sé, cura dei deboli e degli indifesi, abnegazione per amore dei figli, avversione alla bellicosità, rispetto e salvaguardia della Natura e così via. Eroi mitici e alcune personalità del mondo moderno ne hanno per certi versi espresso alcune caratteristiche, come ad esempio Ettore, Giulio Cesare, Martin Luther King, Rudolf Steiner, Carl G. Jung, Erich Fromm, il Dalai Lama e molti altri. Considerato una qualità dell’anima, uno stato del Sé, il femminile è un archetipo universale rappresentato da diverse espressioni simboliche riferibili a figure mitiche o a elementi del mondo vivente e non. Definire il femminile non è facile, tanto sono diversi ed opposti gli attributi che lo caratterizzano e che si esprimono sia con la fantasia, la creatività, la gioia, la sensualità, la protezione, la pace, la condivisione, la forza psichica, la comprensione del diverso, l’affinità per il primitivo e il naturale, sia con l’indecisione, la dipendenza, l’indeterminazione o con sentimenti estremi come la collera, l’istinto aggressivo, la vendetta, l’odio. Questi ultimi rappresentano il volto più nero della femminilità che si manifestò ad iniziare dai tempi successivi al matriarcato, probabilmente quando la donna, non riuscendo più a salvaguardare la sua identità soggettiva e collettiva compressa dal patriarcato incombente, tentò una forma di ribellione. I mitici archetipi simbolici del femminile divennero così il riferimento anche delle caratteristiche più negative, non sempre corrispondenti al vero, cui diedero valenza esigenze e circostanze temporali, superstizioni umane, interpolazioni di natura etica susseguitesi dalla Grecia arcaica, e in parte, a quella classica così che “le credenze primitive tramandate oralmente e affidate alla memoria persero molto della loro primitiva purezza” La civiltà del matriarcato ha segnato il modo di essere al femminile. Nelle terre della Lidia - raccontano Erodoto e Plutarco - i cui abitanti provenivano da Creta, si praticava un regime matriarcale dove i figli prendevano il nome della madre e non quello del padre, e se nascevano da madre libera e da padre schiavo erano considerati di nobile nascita, ciò non valeva nel caso contrario. Alla donna veniva riconosciuto uno stretto legame con la divinità perché si considerava dotata di una superiore comprensione del potere divino. Per questo essa poteva far riconoscere leggi come ad esempio il diritto di successione a favore delle figlie alle quali, avendo acquisito con l’eredità una autonomia che le svincolava dal consenso genitoriale, fu concesso il diritto di scegliersi il marito. L’importanza della donna era attestata da molti altri fattori. Ad esempio la denominazione di Terra-Patria, comune a molte regioni del mondo antico, a Creta era chiamata Terra-Madre in rappresentanza della Dea-Madre primigenia, la Mater Matuta dei romani, alla quale si faceva risalire ogni cosa e di cui le donne mortali erano immagine: una rappresentatività che conferiva loro il fondamento della “dignità femminile” e che trovava la sua massima espressione nel nome Atena che tutte le donne della Grecia antica portavano. Nel Menesseno Platone scrive“Non è la terra a imitare la donna, ma la donna a imitare la terra…. per questo motivo è verosimile che la prima nascita sia stata portata a termine, attraverso i poteri del Creatore, dalla terra senza che fossero necessari quegli organi…che la natura deve produrre negli esseri che procreano .. Dunque la prima nascita avvenne nel grembo materno della Terra, le successive con la riproduzione nel grembo della donna”. Si può dire che il matriarcato appartenne ad un periodo dell’umanità e ad una religione che hanno inteso la terra quale sede “dell’energia materiale”, il patriarcato a quel periodo dell’umanità in cui alla materia è stato affiancato un artista rappresentato dall’uomo creatore di idee che la donna trasforma in realtà viventi”. Ciò sembra confermare che il passaggio al patriarcato coincida, per il fondamento spirituale di riferimento, “con un più alto sviluppo religioso dell’umanità”. Un fondamento spirituale che molto più tardi porterà alla riconsiderazione del femminile con la sublimazione della Mater Matuta nel mondo spirituale, un riferimento attestato dalle figure femminili di Beatrice, Maria, Iside, Elena che rappresentano i volti immortali dell’anima, il femminile purificato dalla materia. Nei templi massonici l’archetipo del femminile è rappresentato da Minerva-Atena e da Venere-Afrodite, simboleggianti la Saggezza e la Bellezza, l’archetipo maschile da Eracle-Ercole simbolo di Forza e Bellezza (attributi riferiti alla forza morale che vince le ingiustizie e alla bellezza interiore conquistata attraverso il difficile percorso iniziatico delle dodici fatiche). Atena per i Greci, Minerva per i Romani è considerata dea della Sapienza, delle Scienze e delle Arti, ma anche della guerra intesa in modo diverso dalla nostra accezione moderna. E’ una dea guerriera che combatte la forza bruta e impulsiva, rappresentata da Marte-Ares, per proteggere, con le competenze che le sono state assegnate, i mortali a lei devoti dai loro avversi destini o per sconfiggere i loro avversari. Simbolo dell’intelligenza e come tale non disgiunta dallo spirito di iniziativa e dal coraggio, essa è contemporaneamente “protettrice delle città, amministratrice della giustizia, ispiratrice del pensiero filosofico, fautrice del lavoro operoso (fu lei a presiedere i lavori per la costruzione dell’Argo, la più grande nave dell’antichità), e delle attività femminili connesse alla filatura, alla tessitura e al ricamo”. La grazia pagana, sostituendosi ad Aracne che trasformò in ragno perché osò sfidarla. Emblematicamente rappresentata dall’archetipo femminile di Minerva, la donna, fedele “a quella natura materiale-materna che la caratterizza nella sua elezione a donna lunare ed in cui si radicano anche il suo rapporto con la notte ed il lavoro della tessitura”, ne fece la sua massima figura di riferimento. In contrasto con Artemide-Diana che non accetta compromessi con il mondo maschile, Minerva si differenzia perché è vicina agli uomini, “intrattiene con loro un rapporto molto amichevole e quotidiano, lasciando ad altre mitiche figure del femminile la funzione sessuale e riproduttrice. La combattività di Atena non essendo rivolta contro il mondo maschile assicura alla donna un posto di primo piano nel mondo degli uomini ed è a sua volta essenziale per la partecipazione delle donne al potere”. Un potere - secondo la leggenda - consegnato ad Atena dagli dei dell’Olimpo quando, gareggiando con Poseidone, dio del mare, per la sovranità dell’Attica, essa regalò a questa regione l’ulivo che da allora ebbe, in Atene, un culto particolare. Potrebbe sembrare un paradosso associare l’ulivo, simbolo di pace, ad Atena, ma ricordiamo che i soldati portavano rami di ulivo nei cortei trionfali per implorare protezione, vittoria, ritrovato equilibrio e dunque pace che a quei tempi significava assenza di guerra. Un’altra versione della leggenda è narrata da Varrone. Fu chiesto all’oracolo di Delfi il significato di un prodigio: la nascita contemporanea di una sorgente e di un ulivo; l’oracolo rispose che l’ulivo significava Minerva e l’acqua Nettuno. Si demandò ai cittadini la decisione di rispondere a quale divinità dedicare la città e questi, in maggior percentuale donne, votarono per Minerva e la città venne chiamata Atene. Per placare Nettuno da questo oltraggio, le donne furono costrette a perdere il diritto di voto, il diritto di dare il proprio nome ai figli e il diritto di portare, oltre al proprio, il nome di Atena: una dimostrazione che in Atene esisteva già una certa forma di matriarcato. C’è un aspetto interessante e ambivalente che riguarda la dea e che pone l’interrogativo “Quale nesso congiunge il matriarcato di Minerva al patriarcato che essa ha voluto celebrare con la erezione dell’Areopago, ai piedi della collina di Marte-Ares dove il tribunale, presieduto dalla stessa dea, assolse Oreste il matricida?” Ancora una volta rispondono i miti pagani che raccontano: per impadronirsi del sapere di Meti, la dea più sapiente dell’Olimpo, Zeus tentò di violentarla, ma fu colto dal pensiero che sarebbe potuto nascere un figlio più intelligente di lui e allora la divorò. In seguito, essendo stato colto da forti mal di testa ( simili alle doglie del parto), si fece aprire il capo da Prometeo e ne uscì Minerva, liberando dalla sua testa ciò che restava del sapere femminile di Meti e precludendo a se stesso e a tutti gli uomini questo sapere femminile. Dunque Atena appartiene al matriarcato in quanto è rimasta fedele alla natura materiale-materna che la caratterizza anche nella sua elezione a donna lunare; ma nella sua formazione spirituale essa abbandona ogni aspetto materiale giustificata dal fatto che è nata dal capo di Zeus, “Atena quindi ha la qualifica della sapienza femminile appartenente al matriarcato e in quanto alla sua nascita dalla testa di Zeus, sede della somma intelligenza divina, appartiene al patriarcato che deve la sua origine a questo fondamento spirituale” .Forse la partecipazione delle donne al potere fu la condizione sine qua non per cui Atena, colei che non è nata da madre,“la dea fedele a tutto ciò che è maschile, eresse l’Areopago nel luogo dell’antico diritto delle madri, di natura fisica e ctonia che divenne da quel momento il diritto divino di Giove-Zeus, di natura incorporea, trascendente: il diritto del patriarcato. L’altro simbolo archetipale del femminile posto nel Tempio massonico è rappresentato dalla statua di Venere-Afrodite, dea della Bellezza e dell’Amore, ma con un’accezione diversa da come vengono modernamente considerati i due attributi.“Il culto di Venere ha poco a che fare con i canoni di bellezza così come li concepisce la nostra cultura dell’immagine e, oggi, del consumismo. La bellezza afroditica è approssimabile più a uno stato di grazia, in cui si fondono fascino e audacia, che a una adesione a un canone stabilito”. La sessualità afroditica va letta come arte di amare e come esperienza estatica riferibile ad un percorso di conoscenza interiore di sé e dell’altro che il “desiderio ci pone accanto”, in perfetto allineamento con la civiltà matriarcale che considerava l’amplesso un rito sacrificale di donazione di sé, una forma di preghiera, come attestato dalla prostituzione sacra di cui rimangono testimonianze a Pirgi. Nell’antica Neapolis, secondo gli studi di W. Schubert (1897 – 1940), in una grotta misterica vicina al Tempio di Priapo di Lampsaco si favorivano gli accoppiamenti in promiscuità e totalmente al buio per soggettivare l’atto del dono. A prescindere da simili situazioni estreme, la tradizione religiosa ha in seguito represso e deturpato l’atto sessuale distaccandolo dalle sue basi spirituali, determinando il sorgere di fobie e patologie. Il mito di Venere-Afrodite racconta la sua nascita dal seme di Urano castrato dal figlio Crono sfuggito all’infanticidio perpetrato dal padre ai suoi fratelli. Galleggiando sulle onde del mare il liquido seminale divenne schiuma marina da cui nacque Afrodite. Non a caso i due archetipi, cui le “stesse ragioni simboliche hanno motivato la nascita” e che rappresentano due dei molteplici simboli del femminile o meglio dei vari modi di essere al femminile, Minerva l’intellettuale, la sapiente, la saggia che nasce dalla testa di Zeus e Afrodite, la bella, la seducente, la gioiosa, che nasce dal sesso del padre Urano, adornano i templi massonici e sono personificate, assieme ad Ercole (Eracle per i Greci), dalle tre Luci della Loggia. Come Minerva anche Venere era vergine prima che il mito di Eros, gerarchizzando la relazione uomo-donna, la trasformasse in sposa di Efeso, lo storpio che compensava la sua bellezza con i più bei gioielli di tutto l’Olimpo. A quei tempi il significato di vergine non si riferiva a colei che non conosce uomo, ma a colei che appartiene a sé stessa “nel senso di inafferrabilità e abissabilità”, così come l’esperienza sessuale poteva diventare esperienza spirituale profonda per la capacità di conoscenza interiore che la donna possiede captando la soggettività dell’altro. In tempi ancor più lontani la parola Virgo, considerata una deformazione di un’antica radice atlantidea, indicava il principio materno. L’ultima Virgo Mater che dominò la civiltà atlantidea fu Lilith, la personificazione della Luna Nera.In seguito tutte le vergini madri di tipo pagano demetriaco e quelle asiatiche, molte delle quali raffigurate con il volto nero, furono fuse dal Cristianesimo in un unico personaggio: la Madonna, anche in versione di Madonna nera. In Afrodite si ritrovano paradossalmente sia una forte identità, sia la capacità di fusione con l’altro ad attestare il segreto di una unione vera e profonda che richiede nei due individui il mantenimento della distinzione e della separatezza , altrimenti l’altro sarà solo il riflesso del proprio desiderio o, se prevarrà l’Ego, ognuno rimarrà arroccato nella propria identità (egoicità). La bellezza di Afrodite si manifesta oltre che dal suo corpo, anche dalla grazia del suo fare , dalle parole del suo dire, dal fascino della sua intelligenza. A fronte della comune credenza che una donna non possa essere bella e intelligente insieme, solo superando questa falsa dicotomia potrà essere realizzato il mito di Afrodite. In antichità la dea veniva appellata “Afrodite dai begli occhi” che esprimevano tutta la sua intelligenza, ed era rappresentata con vesti drappeggiate, anche se avvolgenti per svelarne le sinuose forme; quando più tardi, per esaltarne unicamente la bellezza fisica, fu raffigurata nuda, assunse l’appellativo di Afrodite “dalle belle natiche”. La bellezza non è unicamente una questione di forma e visibilità contrariamente a quanto attestano i nostri tempi; ciò a conferma che il fascino e la magia stanno sempre dentro il mistero e che quando vengono meno i suddetti attributi la donna assume tutte le caratteristiche più degenerative, aprendo la strada alla pornografia, alla prostituzione, esibendo modelli di femminilità riduttivi derivati da una cultura dell’apparire piuttosto che dell’essere. Nel contesto massonico sono presenti molti elementi simbolici che si rapportano all’archetipo universale del femminile quali la Luna, l’Acqua, la Natura, la Madre-Terra, l’energia materiale femminile, notoriamente personificati da Diana-Artemide, Cerere-Demetra, Vesta-Hestia, Giunone-Era. Fra questi un posto di primo piano è rappresentato dalla Luna. Nelle antiche agapi massoniche, delle sette libazioni offerte ai sette pianeti divinizzati, la seconda era dedicata alla Luna “che protegge con la sua tenue luce i più segreti misteri”,“una parola circoscritta in quegli stretti limiti che il più rigoroso ragionamento sarà spinto a rispettare” , come a dire, trasferendo il detto su un altro piano di lettura, che l’imperscrutabile labirinto dell’inconscio dovrà essere rispettato e mantenuto vergine. La Luna comprende in sé molti aspetti del femminile poiché le sono associati innumerevoli simboli del mondo vegetale, animale, umano: è principio di fecondità, creatività, immaginazione, ispiratrice di artisti e sensitivi, padrona dell’inconscio e della notte, simbolo di incostanza perché legata al principio di trasformazione. Essa influenza le acque, le maree, i cicli biologici femminili, la fertilità, le acque amniotiche. Le sue fasi hanno segnato lo scorrere del tempo nei calendari lunari, il suo ciclo completo corrisponde a quello biologico femminile. Questi attributi la eleggono matrice di ogni femminilità. Molte sue significative valenze si trovano nei Tarocchi, nella mitologia, nell’astrologia, in molti scritti tra cui famosi quelli di Plutarco. Nella mitologia egiziana la Luna è fusa con il disco solare, cosa che troviamo molto più tardi, anche nella civiltà meso-americana del Messico, una fusione attestata anche nella Genesi quando si legge “ Dio separò la luce dalle tenebre……e pose i luminari maggiori in cielo….” Alla cultura egiziana è ascrivibile il rapporto, che la Luna esprime, dell’individuo con la Natura e del conscio (l’energia mentale) con l’inconscio che la dea condivide con le Acque, simbolicamente rapportato alla forza psichica femminile compresa nell’archetipo della Grande Madre. Con il passaggio dalla cultura egiziana a quella greca e romana i simboli animali della dea Luna ( vacca, cane tricefalo, orsa, leonessa, ecc.) vennero progressivamente sostituiti da immagini mitiche umanizzate. Molte sono le deità lunari rappresentative delle articolate sfaccettature attribuite all’archetipo Luna (Demetra, Vesta, Cerere, Ishtar, Iside, Cibale, Lilith, Venere, Minerva, ecc.). Tra queste quella che per certi aspetti ne personifica i principi più significativi è Artemide-Diana. L’Inno ad Artemide di Callimaco la ritrae quale “Bella e fiera, è la Vergine indomita. E’pura e fredda come la luce della luna…..Dolce e crudele, la sua freccia è infallibile….Le appartengono i giochi dell’infanzia, i casti pensieri degli adolescenti. E’ la dea della natura selvaggia, dei corpi intatti, dei cuori liberi dalle passioni”. Artemide, amazzone fiera e infallibile, amante e protettrice delle selve, degli animali, dell’acqua pura di sorgente, avvolta da una luce bianca argentea, è la personificazione per eccellenza della Luna come Apollo, suo fratello gemello, emblema del mascolino, personifica il Sole. Non a caso Sole e Luna si trovano effigiati all’Oriente del Tempio massonico per illuminare il cammino dell’iniziato che ha bisogno sia dell’energia radiante diffusa della Luna che con la sua tenue luce pur sfumando i contorni delle cose permette di leggerne in modo pervasivo l’insieme, sia dell’energia raggiante del sole che con la sua luce diretta rende tutto chiaramente visibile. Artemide-Diana è la dea della falce di luna che nel suo crescere e decrescere simboleggia il ciclo vitale attraverso le varie fasi di nascita, crescita, maturità, morte. Essa condivide questo simbolo con Selene la dea della luna piena, radiosa nella sua forza psichica luminosa e con Ecate-Lilith che impersona la Luna nera, l’aspetto freddo della luna, simbolicamente il potere inconscio femminile cui sono stati conferiti tutti i suoi attributi negativi. Con la sua rappresentatività lunare, Artemide viene considerata triforme in quanto comprende le altre due dee inglobandole nella sua dinamica ciclica e condividendone così le caratteristiche: è pura e luminosa come Selene il cui influsso si fa sentire sulle acque e sui cicli della fertilità femminile ma è anche crudele al pari di Lilith, una crudeltà volta a sottrarsi alle influenze esterne per rientrare in se stessa appropriandosi del proprio Sé primitivo, difendendo in tal modo la parte selvaggia della psiche femminile. La leggenda di Lilith, la prima donna, è molto illuminante per comprendere tutti i tabù posti sul desiderio femminile che le influenze cultuali e psichiche le hanno attribuito. Creata dall’argilla e vivificata dall’alito divino al pari di Adamo, Lilith aveva tutte le qualità per essergli pari. Per questo motivo non volle assoggettarsi a lui, ne soggiacergli nell’atto sessuale, come testimoniano gli antichi commenti della Bibbia prima che i Rabbini ne cancellassero il personaggio e la sua storia, attestando il suo rifiuto alla sottomissione con la fuga dal paradiso terrestre per raggiungere il Mar Rosso dove vivevano i demoni, diventando essa stessa violenta e vendicativa contro la stirpe di Adamo, cattiva e malefica in risposta all’ubbidienza impostale dal compagno e da Dio. Il suo personaggio, cancellato dalla Genesi, fu sostituito da quello di Eva creata da una costola di Adamo, quindi dipendente dal suo compagno per nascita e a lui inferiore. Con Lilith scompare “il volere di parità, la forte carica sessuale e il potere di aggressività in difesa delle proprie ragioni”. Per questo la Luna nera, simbolicamente personificata da Lilith, è presagio di calamità e malefici, è l’archetipo di antiche paure, un’eredità che ha pesato sulla donna fin dall’antichità. Invero Lilith rappresenta la parte nascosta, rimossa e rifiutata dell’archetipo femminile. Quando la personificazione del femminile, riconoscendosi in Artemide riesce ad identificarsi con la Natura avviene un processo che ha potere terapeutico e che apre la via alle zone vergini della nostra psiche così da interrompere tutte le stimolazioni esterne sul proprio Ego: una pausa che ritempra le energie e concilia con il mondo. La personalizzazione di Artemide comporta la difesa del proprio territorio interiore ed esteriore: bisogna diventare ecologisti della psiche oltre che della Natura, per difendersi dall’impatto profano della società e del mondo. L’Io non deve appropriarsi di tutto l’inconscio, rischieremmo di essere completamente addomesticati. Artemide può dare la vita come può dare la morte. Si legge nell’Ippolito di Euripide:“Già questa tempesta ha attraversato il mio ventre. Ma nel cielo c’è una dea delle nascite, l’arciera verso la quale lancio il mio grido, Artemide! E alla mia preghiera, aiutata dalle dee, viene sempre ad assistermi”. Non Giunone, la dea Madre, ma Artemide era la dea che veniva invocata per guidare un evento naturale come il parto, ma anche per chiedere una morte rapida quando la madre si rendeva conto che non ne sarebbe sopravissuta. L’indipendenza e lo sviluppo della forza fisica fanno di Artemide la protettrice degli adolescenti fino all’età in cui si dovevano assumere le responsabilità del cittadino. Essa presiedeva al loro sviluppo fisico e nel contempo offriva loro l’opportunità di godere di una vita inizialmente “incolta”in considerazione dell’età spesso refrattaria alla disciplina. Si sa che a Sparta le ragazze si esercitavano a lottare nude con il corpo spalmato di olio affinchè l’energia fisica rafforzasse l’energia primitiva femminile. Il culto di Artemide-Diana finì male: profanata la sua interiorità, dimenticata la sua energia primitiva, saccheggiate le sue foreste, abbattuti gli alberi di interi territori per la costruzione di navi da guerra, condannate ad una ingloriosa e dolorosa fine le sue seguaci che vennero considerate streghe. Nella nostra epoca la dea rappresenta un archetipo dei valori del femminile cui la donna dovrebbe fare riferimento per ritrovare un ruolo che forse ancora non conosce, anche se le appartiene. Le testimonianze raccolte da diversi scritti sono orientate a considerare l’universo del femminile come espressione di un’alterità radicale posta al di fuori di qualsiasi forma organizzativa sperimentata e di ciò che è stato detto nella storia dei popoli dove il genere maschile è diventato il parametro di individuazione di tutte le identità. Bisogna invece sottolineare che ogni categoria di genere ha le sue peculiarità. Forse una riconsiderazione del paganesimo rimosso potrebbe dare un quadro della totalità degli aspetti del femminile al quale la donna ha sovrapposto il femminismo che ha espresso tutte le negatività di genere: ne ha proclamato l’uguaglianza insistendo sulla somiglianza piuttosto che sulla differenza: una equazione più facile da raggiungere, ma assolutamente inefficace per l’integrazione e l’armonizzazione dei due ruoli che il mondo oggi richiede. Anche Pitagora innalza il genere femminile sottolineandone la natura religiosa ( riferibile all’orfismo pitagorico con la supremazia della Grande Madre) e la dignità su cui questa si fonda: si tratta di una filosofia che pur poggiando sulla fisicità, si eleva a contemplare la divinità suprema, facendone intuire più l’aspetto lunare che riconoscerne quello solare. Questo ritorno ad una visione pitagorica del mondo pre-ellenico verrà ripreso nelle dottrine gnostiche, in particolare in quella dei Templari restituendo supremazia alla materialità materna in contrapposizione alla dottrina cattolica che oppose al principio prevalentemente femminile-materiale quello puramente spirituale-paterno. Contrapposta allo ius civilis, la dottrina della Gnosi “evidenzia lo sviluppo consequenziale dello ius naturalis che risponde alla natura materna di Afrodite…. e alla legge della creazione naturale diffusa uniformemente su tutto ciò che è tellurico, che ripudia le leggi che costituiscono attentati all’eguaglianza naturale, che rinnega qualsiasi “mio” e “tuo” per donne e beni, che abolisce ogni “più”o“meno”e che nella proprietà privata scorge una violazione del diritto”, tanto era coeso il valore della comunità nelle società femminili, a fronte della valorizzazione dell’individuo nelle culture solari patriarcali. Un quadro più completo volto a comprendere le basi per un percorso di armonizzazione del maschile con il femminile nella Libera Muratoria, ci spinge a considerare altri parametri, quali ad esempio le forme di pensiero femminile e maschile. Il modo di pensare al femminile procede dalla visione di un insieme dove informazioni ed esperienze vengono messe in relazione tra loro, individuandone differenze, connessioni, simbolismi per arrivare alla conoscenza attraverso un processo sintetico, induttivo, analogico; un procedimento che non separa, ma unisce anche attraverso percorsi invisibili ed oscuri, dove possono manifestarsi l’indecisione e l’indeterminatezza della donna, per poi tornare alla luce con nuovi saperi; il pensiero maschile, analitico e logico-deduttivo in riferimento al principio di causa-effetto penetra nelle cose isolando i diversi aspetti del contesto fino ad arrivare alla conoscenza razionale. I due percorsi di pensiero, ricettivo (induttivo) penetrativo (deduttivo), per la loro complementarietà possono creare processi mentali armoniosi e completi, cosa che evidentemente non si è ancora realizzata per il sopravvento di uno sull’altro nonostante i cambiamenti sociali, politici, culturali, religiosi del mondo d’oggi che potrebbero offrire alla donna la possibilità di ritrovare ed esercitare il proprio ruolo. Anche le neuroscienze, in appoggio alle considerazioni psicologiche, evidenziano oggi un modo di pensare maschile e femminile attribuibile alle diverse funzioni degli emisferi cerebrali. “L’emisfero sinistro acquisisce i codici e le regole familiari e sociali e con essi sviluppa una personalità adatta all’ambiente socio-culturale in cui vive”. Esso induce una personalità conservativa e ripetitiva, e come tale difende ed impone i propri schemi mentali. L’emisfero destro interpreta fisiologicamente le informazioni in base al proprio codice genetico. (Esso) “si sostituisce agli stimoli ambientali (tipologie predominanti del pensare, abitudini, regole, tradizioni buone e cattive) programmando ed inviando stimoli all’emisfero sinistro per tentare di liberare l’individuo da abitudini, idee preconcette e riorganizzargli le informazioni distorte”. Risulta conseguente che l’Io dell’emisfero destro ci rende obiettivi, creativi, quello dell’emisfero sinistro competitivi ed egoici. L’emisfero sinistro, secondo la tesi dei neurobiologi evolutivi, ha assunto una dominanza che genera conflittualità, ingiustizia aggressività, guerra, violenza caratterizzanti il mondo attuale, che richiede invece di riportare il pensiero nei binari della duttilità mentale, della creatività e della immaginazione. Per abbattere i modelli mentali negativi dell’emisfero sinistro è necessario, come indicano i neurobiologi, educare il cervello destro attraverso una “scienza umana”che faccia convivere in un processo di integrazione le due componenti allo scopo di favorire l’armonizzazione sociale ed umana”. Le due forme di pensiero fanno parte entrambe sia del genere maschile che di quello femminile: ciò che varia è la prevalenza dell’una rispetto all’altra in riferimento a quanto è più connaturale. Se è comunque accertato che nella donna, pur non escludendo l’influenza dell’emisfero sinistro, prevale quella del cervello destro, questo non toglie che entrambi i generi, in relazione alla propria componente femminile, abbiano una grande responsabilità nell’elevazione del genere umano. A titolo di conferma si riportano alcune citazione, estrapolate da un discorso pronunciato dal Gran Maestro della G.L.D.I. Luigi Pruneti, durante le Giornate celebrative dei primi Cento Anni della nascita della nostra Obbedienza, che potrebbero costituire la premessa di un Manifesto sul riconoscimento e la valorizzazione del femminile. “In un mondo pervaso dalla crisi dell’etica e dallo smarrimento morale, il libero muratore deve ritrovarsi in se stesso affinché …la Libera Muratoria diventi scuola civile di pensiero…, eserciti la tolleranza come apprezzamento della diversità….per un confronto dialettico finalizzato alla crescita del progresso… pratichi la fratellanza nell’educazione all’ascolto degli altri come soggetti fondamentali del nostro esistere………(Bisogna) diventare soggetti di cultura, promuovere il confronto, il dialogo…, i valori universali di giustizia, pace, equità, diritto alla dignità, …la lotta per la corretta informazione, …(contro) l’ignoranza e il pregiudizio……”. Il contesto della nostra Obbedienza a carattere misto è il luogo più idoneo a realizzare questa trasformazione partendo dalla considerazione che “le pseudo-finalità attribuite alla donna e all’uomo nell’arco dell’evoluzione culturale dei popoli, hanno impedito che si fornisse loro un’educazione atta a sviluppare un’interazione utile alla dinamica evolutiva delle loro diversità”, Uomini si nasce, umani si diventa. Per questo uomini e donne vivono nel mondo profano in un continuo conflitto con la propria realtà genetica. Occorre dunque che la donna scopra il ruolo naturale e la realtà fisiologica del proprio femminile e maschile per comprendere la sua funzione sociale, parimenti dovrebbe fare l’uomo per riconoscersi con reale dignità nel proprio maschile e femminile. Partendo da queste premesse è auspicabile una presa di coscienza, a breve termine, dei rispettivi contributi che in termini di femminile e maschile possono esprimere uomini e donne operanti in una Libera Muratoria a carattere misto, ispirandosi non tanto verso modelli della cultura passata, ma cogliendone le valenze in termini di tradizione “a partire da una riconsiderazione dei miti e degli archetipi del femminile” attestati nei nostri Templi.
V.C. Zarattini

20 marzo 2010

- Kamea di Marte.


15 marzo 2010

- Kamea di Giove.


14 marzo 2010

- Il giuramento iniziatico.


Nel corso di una vita di appartenenza alla Massoneria sono letteralmente infinite le volte in cui o pronunciamo personalmente una solenne formula di giuramento o ne ascoltiamo le parole quando davanti all'ara s'inginocchia un Fratello. Troppo spesso, però, i comportamenti, le scelte, gli indirizzi, le impostazioni assunti dai Fratelli dimostrano che la “formula” dei giuramenti è stata udita, non ascoltata e non assimilata e che non abbastanza o per niente è stato riflettuto “sulla gravità dell'atto” compiuto e sugli “obblighi” assunti. Nella vita profana è ormai una triste abitudine quella di non dare valore alle parole, di decidere per se stessi e gli altri senza troppo approfondire, con una non curanza che non mettiamo neppure nella scelta di una pietanza in un ristorante. E' vero che decidere se carne o pesce, se fritto o arrosto coinvolge direttamente il nostro egoistico palato mentre impegni morali, sociali, umanitari sono concetti vaghi, indefiniti, e corrispondono a parole di cui ci riempiamo la bocca, che ci fanno partecipi del bonismo generalizzato e puntualmente rispolverato dalla canfora quando si tratta di far versare qualche lacrimuccia. Preferiamo, però, lasciare tutto quanto avvolto in una nebbia che non ci scomodiamo a diradare forse per timore di rivelare a noi stessi la nostra totale mancanza di volontà e fondamentale disinteresse. Certo è che ci aspetteremmo che impegni presi “liberamente e spontaneamente” fossero rispettati proprio perché assunti soltanto honoris gratia tra uomini che si vogliono di buoni costumi, in una società, quella dei Liberi Muratori, dove ancora non ci si vergogna a parlare di onore. Purtroppo mi accorgo che la profanità sta penetrando nella Libera Muratoria; per ora non è nulla di vistoso ma non mancano i segnali di una pericolosa deviazione che rischia di svuotare la Massoneria di ogni significato e di ogni tradizione portandola a diventare una associazione qualsiasi. Le parole che abbiamo, prima ascoltato e poi pronunciato, il giorno della nostra iniziazione diventano gusci vuoti al momento in cui il protagonismo si sostituisce alla ricerca di un miglioramento, quando il lavoro non è più “a gloria ed onore dell'Ordine” ma a glorificazione e lusinga del proprio io, l'operare non è più diretto al “bene e progresso dell'umanità” ma alla coltura del proprio orticello e all'abbellimento della propria corte, allorché le cariche si trasformano da servizio a potere. Consideriamo che siano dannosi per la Massoneria sia per la sua interiorità sia per la sua immagine esterna tutti gli uomini i quali, attratti da chissà quale miraggio profano, bussano alla porta dei Templi credendo di trovarvi dei complici e non dei Fratelli, sperando in vantaggi materiali di natura sociale ed economica. Non meno pericolosi sono coloro che interpretano a modo loro ed a loro profitto il cammino iniziatico vedendolo come una scalata al successo e compenso, in molti casi, di frustrazioni personali sofferte nella vita profana. Esiste un terzo caso di uomini i quali, cercando una via per migliorare, un modo per dedicarsi all'umanità, una filosofia e condotta di vita stravolgono il significato dei contenuti latomistici ed interpretano la Libera Muratoria volendo farne, a seconda dei casi, una società di mutuo soccorso, un'opera pia, una dottrina ed altro. Infine troviamo anche una categoria di massoni che appartengono ad altre associazioni che si dedicano alla ricerca spirituale e che stravolgono la spiritualità massonica in misticismo. Dobbiamo stare attenti al fatto che molte società, pur rispettabili, pur non in “urto od in opposizione con la Libera Muratoria” propongono metodi di ricerca, certamente validi, tuttavia non corrispondenti ai principi ed ai fini massonici. Ricordiamoci che siamo noi a dover cambiare – per questo riceviamo l'iniziazione che ci consente di cominciare di nuovo- e non l'Istituzione massonica e che qualsiasi deformazione a scopo personale, materiale o spirituale, è fortemente negativa e altera sostanza ed intenti muratori. Tutti questi finiscono con il formare il gruppo di coloro che sono solito definire iscritti alla Massoneria i quali, prima o poi, rendendosi conto di non aver fatto la scelta giusta lasciano l'Istituzione denigrandola, seminano zizzania per dimostrare di avere in mano scettro e potere, si rivestono di false sembianze che, ahimè, riescono a far apparire carisma ai più giovani, ai meno preparati ed anche a quegli anziani che di spirito massonico poco o nulla hanno capito e che si sentono lusingati di essere circondati da baldi, anzi baldanzosi leoncini rampanti, loro diretti allievi. Sarebbe compito dei “vecchi” che dovrebbero essere più saggi riportare a dimensione “giusta e perfetta” ogni forma di aspettativa ed aspirazione errata e pericolosa; mi accorgo con profondo dispiacere che non sempre è così e dei Maestri rimane soltanto il nome perché hanno ingannato gli altri e soprattutto se stessi non essendo stati capaci di ricevere l'Insegnamento e di identificarsi con esso. Lascio valutare a tutti voi, Fratelli, quali siano e di chi siano le responsabilità, quanto e come siamo coinvolti, quali rimedi possiamo portare. Mi limito a dire che bisogna dare prova del coraggio richiestoci quando bendati abbiamo varcato la soglia del Tempio nella speranza di trovare la Luce. Confessiamoci di avere sbagliato, abbiamo la forza di correggerci e ricominciare, sappiamo imparare, lasciare da parte, se necessario e per quanto doloroso, l'indulgenza quando minaccia di diventare fonte di diffusione del male, di tagliare gli arti incancreniti, se non si staccano da soli. Ripensiamo al valore del giuramento iniziatico – potrei anche ripercorrere i giuramenti dei vari gradi del Rito Scozzese Antico ed Accettato dai quali emerge che impegno e dovere crescono e dalla linfa del primo giuramento nascono piante solide sulla radice comune ma che assumono una funzione specifica. Ritorniamo quindi alla sorgente, al primo giuramento iniziatico per riscoprine insieme tutta la potenza:
Io...liberamente e spontaneamente, con pieno e profondo convincimento dell'anima, con assoluta ed irremovibile volontà, alla presenza del Grande Architetto dell'Universo, prometto e giuro...”.
Queste parole racchiudono tutta la sostanza della Libera Muratoria e della sua impostazione manifestando anche la differenza con ogni altra forma di giuramento e promessa. Il giuramento esoterico coinvolge l'uomo nella sua totalità, ragione e spirito, razionale ed irrazionale, limitato ed illimitato, presente e futuro, è espressione di una libera scelta di una mente non sottoposta che rispettando un Ideale segue i dettami della ragione, è il grido liberatorio di chi emerge dalle tenebre, è la voce di una “Istituzione che ha il suo principio nella ragione...che ...lasciando a ciascuno la libertà di credenza, è libera da qualsiasi dogma religioso, ...è progressiva, non impone alcun limite alla ricerca della verità”. Come possiamo sgretolare la forza, annientare la saggezza, deturpare la bellezza di un impegno così profondamente umano da cogliere in poche parole tutta l'essenza dell'umanità? A chi facciamo del male se non a noi stessi sostituendo alla solennità di una promessa la pompa della falsità? Perché tradire un'idea, un modo di pensare e vivere che dovremmo aver abbracciato per amore della virtù e ripugnanza del vizio? Stiamo facendo a noi stessi ed agli altri quello che non vorremmo ci fosse fatto ed allora, tutti noi, qualsiasi grado rivestiamo, qualsiasi ufficio ricopriamo proviamo a ritornare con la mente, anche e soprattutto dopo anni, alla Riflessione iniziale, ai suoi messaggi ed ai suoi insegnamenti, a cosa significhi essere “libero e di buoni costumi”.
Franco Franchi

- Kamea di Saturno.


8 marzo 2010

- Lo Zodiaco e la musica delle sfere.


La regione della volta celeste che si estende per circa 8° di latitudine Nord ed altrettanti a Sud rispetto all’eclittica fu chiamata dagli antichi osservatori del cielo Zodiaco.
Questi divisero tale fascia celeste in dodici zone , in ciascuna delle quali ricercarono come punti di riferimento alcune stelle – in genere le più brillanti – ed alla configurazione geometrica loro propria dettero, per lo più, il nome di animali. Non conosciamo la ragione di ciò; forse una semplice analogia di facile memorizzazione o magari, ipotesi più interessante, il richiamo ad un ancestrale bestiario simbolico i cui nessi semantici ormai, come avviene in genere per i simboli, restano sepolti dalla spessa coltre del tempo.
La necessità di individuare nel cielo la regione zodiacale, fu dovuta al fatto che i due grandi luminari, Sole, Luna ed i 5 Pianeti allora conosciuti, si muovono in questa fascia senza travalicarne i limiti.
Il Sole infatti, oltre al moto apparente intorno alla Terra, sembra anche scorrere lungo la volta celeste percorrendo una linea detta eclittica e poiché il moto dei Pianeti si discosta di pochi gradi da questa, la maggiore inclinazione (7°circa) spettando anticamente a Mercurio, è comprensibile che una fascia di 8° di latitudine celeste a Nord e a Sud fosse sufficiente come utile zona di riferimento per studiare la posizione dei Pianeti nel cielo. Ciò risulta più evidente se ci riportiamo al sistema eliocentrico; la vera eclittica, allora, è l’orbita di rivoluzione terrestre che individua un piano orbitale passante per il Sole. I piani orbitali poi dei Pianeti intorno al Sole e della Luna intorno alla Terra, non sono complanari all’orbita terrestre ma variamente inclinati. Il primato oggi spetta a Plutone, poco più di 17°. Lo Zodiaco è stata quindi la prima tavola sperimentale dell’umanità per effettuare osservazioni sistematiche di un fenomeno grandioso: il moto dei Pianeti intorno al Sole. Tale schema aveva anche un significato astrologico. E’ bene intendere che in quei tempi lontani non esisteva la dicotomia odierna fra astrologia ed astronomia anzi, vi era solo un’astrologia intesa come logos degli astri. Il logos, nel suo significato primitivo, era l’argomentazione di un discorso. E fu solo dopo che, da tali argomentazioni, nacquero i nòmoi cioè quelle leggi che il moto delle Stelle e dei Pianeti erranti parevano assumere come modelli di comportamento, quindi un’astronomia modernamente intesa. Infine la tendenza istintiva dell’uomo di divinare il futuro unita all’impulso, sempre presente, di ricercare un legame fra Microcosmo vitale e fenomeni che investono ben altri ordini di grandezza in modo che questi ultimi potessero dare un senso alla trascurabile presenza dei primi, fece sperare che la nascita di un uomo si legasse in qualche modo ad un evento cosmico. La posizione degli astri dava, per così dire, un’impronta all’evento vitale, in modo da segnarne il destino. Nasceva l’oroscopo che ancor oggi, checché se ne dica, gode di buona salute in quanto le motivazioni di fondo restano le stesse.
Un problema in apparenza del tutto secondario, è la ragione che ispirò la divisione dello Zodiaco in dodici parti, i celebri 12 segni astrologici. Si può pensare in prima istanza ad un motivo di semplicità geometrica; è facile infatti dividere una circonferenza in sei parti uguali, inscrivendovi un esagono regolare e quindi un dodecagono. Il 12 potrebbe anche riportare ad un antico sistema numerico con base duodecimale. Tale base è infatti particolarmente utile essendo il 12, nella serie naturale dei numeri, divisibile per 2, 3, 4, 6. Divisioni e calcolo delle frazioni, allora, potevano risultare più semplici rispetto al sistema decimale divisibile solo per 2 e per 5. Vi è infine una tradizione che dà al 12 un valore del tutto particolare in quanto è il primo numero naturale che moltiplicato per 3/4, 2/3, 1/2, dà valori interi: 9, 8, 6. Che importanza ha questo fatto? Immaginiamo di avere due corde, di uno strumento musicale, dello stesso materiale e spessore e sottoposte alla medesima tensione, le cui lunghezze stanno fra loro come 2 sta a 1, ad esempio la prima lunga un metro e la seconda mezzo metro. Queste, messe in vibrazione contemporaneamente (accordo) o in successione (melodia), daranno suoni di consonanza gradevole per unanime consenso e molto somiglianti tra di loro, più di qualsiasi altra consonanza. E’ l’intervallo di ottava, quello cioè tra due Do successivi. Se prendiamo altre due corde, l’una di lunghezza pari alla media aritmetica delle prime due (0.75m) e l’altra uguale alla loro media armonica (2/3 di metro) otterremo, anche in questo caso, delle consonanze gradevoli, avendo realizzato una nota di Fa e una di Sol (le cosiddette “quarta” e “quinta”). L’accordo di Sol appare essere particolarmente piacevole. Complessivamente abbiamo quattro note musicali, è l’antico Tetracordo od Elicona. Scelta quindi arbitrariamente la prima nota (la “tonica”) che, nell’esempio fatto, corrisponde alla corda di lunghezza unitaria (1), allora anche le lunghezze delle altre corde saranno automaticamente definite (3/4 per il Fa, 2/3 per il Sol, ½ per il Do successivo). L’altezza delle quattro note sale partendo dalla tonica (la più grave) diventando il suono via via più acuto, perché aumenta la frequenza di vibrazione; una nota infatti è detta più alta allorché aumenta la sua frequenza. E’ da notare che nelle scale musicali, ad esempio la scala diatonica maggiore di Zarlino (detta anche di Aristosseno) che è stata così importante per la musica europea, la nota dell’unisono (Do di partenza) viene data pari a 1, il Fa pari a 4/3, il Sol a 3/2 e il Do dell’ottava superiore uguale a 2. In tal caso i numeri esprimono non la lunghezza delle cordema il rapporto “delle loro rispettive frequenze” rispetto alla frequenza dell’unisono.
Tale rapporto è detto “intervallo”. Essendo la frequenza pari al reciproco della lunghezza della corda avremo, ad esempio per il Sol, 2/3 di lunghezza e 3/2 di frequenza, per l’unisono o tonica 1 di lunghezza e 1 di frequenza, da cui 3/2 : 1 = 3/2. Così per le altre note. A queste note primitive ne furono aggiunte altre realizzando una scala a 7 note o scala pitagorica, come ci tramanda Filolao. Poiché gli astri erranti nello Zodiaco erano sette per gli Antichi, questi pensarono che vi fosse una qualche musica delle sfere.
Ma i tempi di rivoluzione dei Pianeti od anche la loro distanza dal Sole che oggi, grazie a Keplero conosciamo perfettamente, non permettono di ritrovare un algoritmo matematico/musicale che giustifichi tale modo di vedere. Forse una qualche verità, come avviene in genere per le tradizioni, c’è. Il grande astronomo Giovanni Keplero nel cammino percorso per arrivare alle tre mirabili leggi che regolano il moto dei Pianeti intorno al Sole, si trovò nella necessità di calcolare con precisione i tempi di rivoluzione e di congiunzione degli stessi. Riprendo dall’ Armellini il suo modus operandi. Keplero chiamò “rivoluzione siderea” di un Pianeta il tempo (t) che il Pianeta, visto dal Sole, impiega a compiere una rivoluzione sulla sfera celeste e quindi il tempo, affinché la sua longitudine celeste quale apparirebbe ad un osservatore “collocato” nel Sole, aumenti di 360°. Due anni terrestri, sono media armonica fra il tempo di rivoluzione siderale e sinodico di un Pianeta che ruota intorno al Sole e un anno terrestre è metà di tale media armonica.
Il tutto si può riportare in un quadrato dove a e b rappresentano i valori delle aree dei due rettangoli in cui questo viene diviso – come abbiamo visto sopra – e l’anno terrestre pari all’area del complemento dello gnomone. Secondo la regola dettata dallo gnomone. Si potrebbe obiettare che per i Pianeti inferiori la formula (2) dà, per analoga trasformazione, ab/(a-b)=1, quindi il divisore viene dato come differenza e non come somma delle due grandezze, ma basta prendere come unità di riferimento del tempo l’anno di Mercurio, il veloce messaggero degli dei, ed allora tutti i Pianeti saranno superiori e la formula della media armonica resterà valida. Possiamo quindi considerare lo Zodiaco come la grande sala del concerto celeste; vi è un bravo direttore d’orchestra, il Sole, ed un primo violino sulla cui nota gli altri Pianeti musici accordano, in una prova generale di congiunzione, le corde del tempo dei loro strumenti. Allora congiunzioni, opposizioni, trigoni, quadrature... altro non sono che momenti di una sinfonia celeste: la musica delle sfere.
Luigi Moreschini