29 dicembre 2011

- Eresia Pura

L’eresia dei Catari, o “puri”, fu l’incubo del papato agli albori del secondo millennio. Risoluta a diventare il primo potere del mondo occidentale, la Chiesa Cattolica decise con
fredda determinazione di occultare il Sapere – religioso, filosofico, scientifico – e di sterminare chiunque si opponesse al suo progetto. In questo romanzo storico, sullo sfondo della tragedia dei Catari e del genocidio occitano tra il XII e il XIII secolo, si svolge la lotta di un uomo per la libertà di pensiero. La tragica vicenda di Giordano Nemorario (il predecessore di Leonardo da Vinci), la cui vera identità fu volutamente occultata anche dalla storia ufficiale della Scienza, viene ricostruita percorrendone le tracce e inseguendone il mistero. Il gigantesco rogo che il 16 marzo 1244 arse vivi gli ultimi martiri catari, non riuscì a bruciare tutte le “chiavi del sapere”: e ora finalmente, è possibile ricucire un percorso che conduce alle radici stesse della cultura occidentale.

Adriano Petta
romanzo storico pubblicato da «STAMPA ALTERNATIVA – Nuovi Equilibri»
nel dicembre 2005

È la calda notte del 24 luglio dell’anno 1207. Siamo a Nemi, in una capanna attaccata al castello (residenza estiva dei monaci cistercensi del monastero di Sant’Anastasio alle Tre Fontane in Roma). Spossati dall’afa e dalla fatica, due conversi – addetti alla cura delle terre e del castello durante l’intero anno – si attardano a chiacchierare. Il vecchio Girolamo detesta e maledice preti, monaci, abati, vescovi e papi. Il giovanissimo Giordano, invece, è tutto preso da studi di meccanica e matematica. Entrambi – durante l’inverno – hanno libero accesso alla grande biblioteca del piano terra del castello, ma i libri più rari sono probabilmente nascosti in un grosso armadio tenuto sempre chiuso a chiave e sito al secondo piano della torre saracena. È da un libro di quell’armadio che Girolamo copiò parecchie pagine in greco passandole poi al giovane Giordano che – grazie alla sua naturale predisposizione per i numeri – le aveva elaborate componendo il suo primo libro, Il mio piccolo abaco, nel quale illustrava il sorprendente e sconosciuto uso della nuova numerazione indo-arabica. Il testo era stato poi venduto a un giovane mercante pisano (amico dell’abate di Sant’Anastasio e di Nemi Raniero Capocci), Leonardo figlio di Bonaccio, che a sua volta lo aveva rielaborato dando vita al primo grande trattato sui nuovi numeri indiani, il Liber abaci che avrebbe segnato una svolta nella storia della scienza.
Ma come erano andate a finire le pagine greche in quel libro? E qual era il testo in questione? E perché Giordano già alcune volte si era inspiegabilmente recato nella basilica di S. Pietro in Vincoli a Roma affascinato dal mosaico di S. Sebastiano? E cosa venivano a fare a Nemi il Generale dell’Ordine Cistercense Arnauld-Amaury e papa Innocenzo III il giorno dopo? Durante la notte Giordano rivive in sogno una terrifica storia accaduta il 22 luglio di oltre cinque secoli prima. Il grande astronomo e matematico armeno Anania di Shirak – perseguitato dalla chiesa e dalla legge per le sue idee rivoluzionarie – ha affidato a tre suoi allievi (David, Eznik ed Aser) le chiavi del sapere affinché le portino in Occidente. È l’anno 662: gli Arabi s’impadroniscono di tutto e bruciano ogni libro che trovano sulla loro strada. Le chiavi del sapere sono scoperte scientifiche rivoluzionarie che possono mutare il cammino dell’uomo e della storia, frutto degli Indiani e dei Cinesi: ma ormai l’Oriente non è riuscito ad imprimere una svolta alla storia. Tocca all’Occidente. I tre allievi seguono strade diverse. Aser lascia la sua comunità cristiana dei pauliciani di Kibossa e raggiunge Roma assieme all’imperatore di Bisanzio Costante II: in una borsa di pelle che non abbandona mai, conserva due manoscritti apparentemente senza valore, le epistole di uno sconosciuto scrittore bizantino – Teofilatto Simocatta – e un palinsesto con commedie di Plauto abrase per far posto all’antico Testamento. Inserite nei due manoscritti, molte pagine in greco con le chiavi del sapere. Dopo aver fatto sistemare l’icona musiva di S. Sebastiano nella basilica di S. Pietro in Vincoli, Aser si reca al lago di Nemi assieme a un dotto prelato romano – proprio dove una volta sorgeva il tempio di Diana – per osservare uno strano fenomeno nel terreno. Ma viene stordito, legato e bruciato vivo dal suo accompagnatore, che gli ruba i due manoscritti nascosti nella borsa di pelle chiusa con la fibbietta di bronzo dai disegni dorati. Giordano si sveglia e racconta – in preda all’angoscia – l’incubo appena vissuto. Il vecchio Girolamo dopo un’iniziale incredulità, intuisce che qualcosa di strano sta realmente accadendo. Il libro da cui aveva copiato le pagine in greco con le rivoluzionarie cifre indiane era proprio un testo contenente commedie di Plauto. Il presagio di sventura è certamente legato all’incontro di Nemi tra il papa e il Generale dell’Ordine e legato papale in Provenza Arnauld-Amaury. Giordano si nasconde nella torre saracena, in un incavo del secondo piano, dietro scaffali colmi di libri. È proprio là – dove c’è la piccola e misteriosa biblioteca – che si svolge l’incontro. Parlano della falsa Donazione di Costantino. Poi Innocenzo III sentenzia lo sterminio degli eretici catari e del popolo occitano. Quindi toglie dall’armadio chiuso a chiave tre manoscritti contenenti “il succo della scienza profana e rivoluzionaria, il sapere che potrebbe mettere in pericolo il futuro del regno della Chiesa” e li consegna al legato Arnauld-Amaury affinché li porti con sé in Francia e li faccia custodire da frate Elia. Quegli straordinari codici – le epistole di Teofilatto Simocatta e due libri con commedie di Plauto – non sono più al sicuro nella torre saracena perché già una parte del loro contenuto è stata divulgata. Chiama il suo consigliere-confessore abate Raniero Capocci e gli mostra Il mio piccolo abaco di Jordanus de Nemore… che era stato venduto proprio al suo amico pisano Leonardo sette anni prima da un giovinetto “di corporatura agile, piccolo di statura e con folta capigliatura nera e riccia…” Giordano viene scoperto, ma riesce a fuggire e – attraverso l’emissario che
collega il lago di Nemi alla valle Aricina – raggiunge Ostia, s’imbarca e approda a Marsiglia; s’incammina, quindi, verso la prima città menzionata da Arnauld Amaury: Béziers, il covo del Diavolo, la Sinagoga di Satana. Da questo momento in poi la vita del giovane studioso Giordano Nemorario (che d’ora in avanti si farà chiamare Palis Jordanus), cambia: la sua perenne dedizione allo studio si appanna. Cerca di seguire le tracce dei tre preziosi manoscritti, ma ciò che la Chiesa sta per attuare con l’aiuto interessato di alleati quali i re di Francia – ovvero lo sterminio di un intero popolo libero e ribelle – lo coinvolge sempre più. Viene accolto dalla tollerante gente di Béziers, il cui senso dell’ospitalità, gusto della vita e amore per la giustizia lo convincono a restare, a dividere con essa il proprio destino. Giordano conosce e s’innamora di Jolanda, da lei ricambiato. Lavorano presso Shimon, mercante ebreo padre di Sara e David che si legano affettivamente ai due giovani. Poi si trasferiscono nel quartiere della libertà, quello della Maddalena, nella casa dei catari dove Giordano apre una scuola per insegnare, ai fanciulli della città, lettere e numeri. Il 14 gennaio del 1208 il legato papale Pierre de Castelnau viene assassinato da uno scudiero del conte Raymond VI di Tolosa, padrone delle terre occitane. Il grave fatto di sangue permette al papa di suonare subito le trombe della guerra. Giordano – nel frattempo – a Béziers assiste alla predica di Guilhabert de Castres, il futuro vescovo cataro che tanta importanza avrà nella sua vita. Assieme a Shimon riesce a rintracciare – a Beaucaire – l’uccisore del legato papale: è Jacopo, costretto ad usare il pugnale da un uomo dai capelli rossi, voce cavernosa e cicatrice a forma di croce sul lato sinistro della bocca, Arnauld-Amaury. L’abate bianco aveva infatti rapito e consegnato a Daniel (capo di una banda di briganti-lebbrosi nascosti sopra le montagne) la giovanissima figlia Beatrice e la moglie Elena. Jacopo e Giordano si recano sulle montagne con la speranza di far breccia nell’animo ormai indurito di Daniel per la restituzione di Elena ancora prigioniera, ma tutto risulta vano. Jacopo non accompagnerà Giordano a Roma per raccontare l’accaduto e tentare di scagionare il conte Raymond VI di Tolosa. La guerra non sarà rinviata. Giordano spera almeno di trovare i manoscritti fra quelli affidati a Daniel dal ferove abate bianco, ma anche di questi nessuna traccia. Mentre hanno inizio i preparativi della guerra, Giordano non abbandona la speranza di trovare i manoscritti, ma all’abbazia madre dei cistercensi – Cîteaux – non si può nemmeno avvicinare. Continua così i suoi studi di matematica e di meccanica. Ama Jolanda e da lei attende un figlio: ella è certa che sarà una bambina dai lunghi capelli biondi. La chiameranno Esclarmonde. Il comando della possente armata di Cristo (forte di oltre cinquecentomila uomini) viene assegnato ad Arnauld-Amaury. Il 21 luglio del 1209 l’esercito crociato assedia Béziers. La cittadinanza, compatta, respinge la richiesta avanzata dall’«abate bianco» di consegnare le 223 persone (e, fra essi l’astronomo e matematico Palis Jordanus del borgo della Maddalena) e si prepara a difendere la sua libertà. Ma durante la notte una parte dei briganti assassini al soldo dei crociati, si nasconde nelle cisterne d’acqua a ridosso delle mura, attraversando cunicoli costruiti da alcuni traditori. Il giorno dopo, festa di S. Maria Maddalena e della libertà di Béziers, mentre i traditori danno spettacolo sotto le mura della cattedrale di Saint-Nazaire distraendo l’attenzione di tutti, all’altra parte della città i briganti-assassini penetrano all’interno delle mura proprio dalla porta di S. Guglielmo aprendo varchi e porte: in poche ore l’intera popolazione viene sterminata. Le possenti armi da guerra costruite da Palis Jordanus non sono servite a nulla. Fra migliaia di cadaveri che coprono il pavimento della chiesa di S. Maria Maddalena, Giordano (vestito da crociato da Shimon prima che questi morisse) scorge David, la piccola Sara e la sua Jolanda con il ventre squarciato. La sua piccola Esclarmonde, cavata dal seno materno, è stata massacrata prima di vedere la luce del sole. Giordano – in preda alla disperazione – mantiene comunque la promessa fatta al suo amico e capo della guarnigione Bernard de Servian, a Shimon e Jolanda, e abbandona la città attraverso un cunicolo che dal castello lo porta sino al di là delle mura, in un piccolo bosco. Raccoglie i suoi libri nascosti da Jolanda nel vecchio mulino e si dirige verso il rifugio del vescovo cataro Guilhabert de Castres, sui Pirenei: l’imprendibile castello pentagonale di Montségur. Mentre la crociata contro il ribelle popolo occitano continua e l’«armata di Cristo» distrugge campagne, città, raccolti e popoli interi, Giordano viene esortato da Guilhabert ad abbandonare l’Occitania, a continuare i suoi studi altrove, a non rinunciare mai alla speranza di poter strappare – un giorno – le chiavi del sapere al feroce abate bianco. Giordano lascia Montségur e punta al nord, verso una nuova vita. Mentre la tragica epopea occitana e catara – rogo dopo rogo – continua, il 9 aprile del 1229 nell’Aula Magna dell’Università di Parigi si riuniscono tutti i maestri dell’Università. Sono stati massacrati – dalla polizia – molti studenti. Mancano soltanto i teologi. Si lotta per la libertà d’insegnamento, per la libertà di pensiero. L’ultimo a parlare è il matematico e astronomo Giovanni de Sacrobosco, la più eminente personalità. Con un discorso avvincente anch’egli si dichiara a favore dell’abbandono dell’università. Quando lascia l’aula, stringe con forza la cintura con la fibbietta di bronzo e i disegni dorati. Giordano Nemorario, infatti, fuggito in Scozia ha assunto il nome di Giovanni de Sacrobosco. Entrato nell’ordine dei Trinitari e compiuti gli studi ad Oxford, è giunto infine a Parigi entrando nel convento dei Maturini, a pochi passi dall’università. Come Giovanni de Sacrobosco scrive appena tre opere: Algorismus, De anni ratione, e un’opera di astronomia che resterà per secoli la più usata nelle università dell’intera Europa, Il trattato della sfera. Come Giordano Nemorario scrive invece moltissime opere di matematica e di meccanica che sembrano scaturire dal nulla, quali Aritmetica, De numeris datis, Algorithmus demonstratus, De triangulis ed Elementa Jordani de ponderibus. Abbandona l’università di Parigi, parte per un lungo viaggio alla ricerca dei tre preziosi manoscritti, ma a Cîteaux non li trova. Visita tutte le abbazie e le biblioteche cistercensi compresa Fontfroide, dove Arnauld-Amaury aveva lasciato in donazione dei libri prima di morire. Ma tutto è vano. Torna quindi a Montségur dove incontra la terza figlia del signore del castello, Esclarmonde de Perella, una bellissima creatura di dodici anni dai lunghi capelli biondi. È cieca e vive quasi sempre al castello assieme alla nonna. In Giordano sgorga un affetto profondo per la fanciulla che per lui rappresenta la sua piccola Esclarmonde, uccisa a Béziers. Si trattiene alcuni mesi facendosi avvincere dalla pace del castello, ma collaborando anche con Guilhabert de Castres a migliorare la biblioteca di Montségur che ospita i libri più importati di religione, filosofia e scienza. Un gruppo di perfetti trascrive continuamente testi che vengono poi portati in mezzo alla gente. Da Aristotele al Vangelo vengono fatte migliaia di copie e quindi diffuse per tutta l’Occitania in guerra: i vescovi catari sanno che non basta la diffusione della parola di Cristo per far ribellare il popolo, ma anche quella del sapere, quella della forza della ragione. Poi Guilhabert lo esorta a tornare all’università di Parigi, a proseguire la sua lotta come scienziato, a continuare a cercare le chiavi del sapere. A non tralasciare la sua missione per l’affetto della piccola Esclarmonde. Giordano torna a Parigi dove continua ad insegnare sempre sotto mentite spoglie e così il monaco maturino – nonché
astronomo e matematico Giovanni de Sacrobosco – segue da lontano la guerra in Occitania che si sta ormai per concludere. È quasi l’estate del 1243. L’Occitania è vinta, lacerata, sottomessa, rasa al suolo. Resta solamente un nugolo di ribelli arroccato nel piccolo castello di Montségur, assieme agli ultimi predicatori catari scampati ai roghi. È l’ultima fiammella di speranza e di libertà per la cristianità intera. Nel castello è prigioniera anche Esclarmonde. Giordano corre in Inghilterra dal suo amico scienziato Ruggero Bacone. Lo incontra nella piana di Salisbury, fra le rovine del tempio preistorico di Stonehenge perché sta per aver inizio il solstizio d’estate. È la mattina del 21 giugno. Quando studiava a Parigi, Ruggero Bacone gli aveva confidato che stava facendo degli esperimenti sulla polvere nera la quale forse poteva essere usata anche nelle battaglie. Purtroppo ancora non ha fatto alcun progresso. Ma proprio al sorgere del sole nella mente di Giordano torna dapprima il ricordo dei raggi che attraversano le feritoie del castello di Montségur posandosi sugli occhi senza luce di Esclarmonde, poi sente la loro forza spingerlo verso un altro ricordo, un’altra torre quella saracena di Nemi, alcune parole dimenticate, una frase di Arnauld-Amaury a Innocenzo III. Frate Elia perfetto custode di libri preziosi, anno1207… quale abbazia può essere? E Ruggero Bacone gli fa capire l’errore commesso in tutti quegli anni: non si trattava di un’abbazia cistercense bensì benedettina! E frate Elia era stato appunto abate dell’abbazia benedettina di Santa Colomba a Sens, a poche ore di cammino da Parigi! Le chiavi del sapere potevano trovarsi
veramente lì. Giordano lascia Ruggero Bacone, che ormai ha intuito la doppia identità dell’amico. Giordano torna in Francia e corre a Sens e finalmente nell’abbazia di Santa Colomba riesce ad impossessarsi delle epistole di Teofilatto Simocatta e soltanto di uno dei due libri con le commedie di Plauto: non può cercare l’altro in quanto viene scoperto e deve fuggire precipitosamente. Torna al convento dei maturini, ma già alcuni inquisitori lo attendono. Lascia a frate Tommaso due lettere e fugge per sempre da Parigi. Ma ormai viene braccato senza tregua. Tenta il tutto per tutto. Cerca di giocare d’astuzia. Si dirige verso Montségur. Nella grotta vicino Tarascon copia le pagine greche contenute nei due manoscritti e nasconde gli originali in una fessura della roccia. Poi giunge ai piedi dell’erto poggio assediato da un esercito di oltre diecimila uomini, ma scopre che nel vallone del Porteil – dove la parete sembra impossibile da scalare – ogni tanto qualcuno entra ed esce dal castello. Riesce a raggiungere la sommità con l’aiuto di Guilhem Montanhagol (poeta e patriota occitano) e finalmente riabbraccia Esclarmonde. Vuole però fare molte copie delle chiavi del sapere e quindi abbandonare il castello per sempre assieme alla fanciulla, per rifugiarsi oltre i Pirenei, all’ospitale cittadina di Berga. Ma Esclarmonde è malata – oltre che cieca – e non può più camminare. Giordano prepara ugualmente molte copie de La via del Sole che contengono le rivoluzionarie scoperte scientifiche partite dall’Armenia nell’Anno 662 ed inizia l’evacuazione della preziosissima biblioteca di Montségur. Ma non fugge più, chiamato a grandi destini come la sua Esclarmonde e gli ultimi catari. Durante i mesi d’assedio all’imprendibile rocca, incomincia una lotta fra la feroce astuzia dell’inquisitore frate Ferrier che comanda l’esercito crociato, e Giordano. Frate Ferrier non vuole soltanto il castello ed i catari: vuole anche Giordano e le chiavi del sapere. La sera prima di capitolare quattro uomini con una copia ognuno de La via del Sole si calano dalla terribile parete e fuggono. Il mattino del 16 marzo 1244, ai piedi di Montségur viene eretto un gigantesco rogo e vengono bruciati vivi oltre 210 catari. Abbracciati allo stesso palo, la nonna di Esclarmonde – Marquesia –, la madre Corba, Esclarmonde e Giordano. Prima di gettarlo sulle fiamme frate Ferrier comunica a Giordano che i quattro fuggitivi sono stati presi, e così tutti i libri e tutte le copie de La via del Sole con le chiavi del sapere. Non ci sarà alcuna rivoluzione scientifica. Il mondo proseguirà il suo docile cammino. E la storia ignorerà chi è stato Giordano Nemorario: sarà confuso col primo grande inquisitore della storia, Giordano di Sassonia. Giordano muore bruciato vivo assieme alla gente con cui ha lottato, e alla fanciulla che ha amato come la sua vera figlia. Ma frate Ferrier non ha vinto. Giordano gli ha dato il suo corpo in pasto per placarlo, mentre Guilhem Montanhagol – con una copia delle chiavi del sapere nascosta nella sella del cavallo e vestito da crosciato – abbandona l’Occitania e si dirige verso Oxford, alla ricerca di Ruggero Bacone. Ma viene catturato poco prima di compiere la missione e di lui non resterà più traccia. Giordano aveva aperto un altro varco ancora, forse l’ultima speranza. La notte prima della capitolazione ha istruito la piccola Perella, serva del castellano di Montségur e amica di Esclarmonde. La coraggiosa fanciulla si nasconde in una fessura della roccia fuori dal castello. Poi, quando lo spaventoso rogo è ormai spento e l’esercito crociato ha tolto le tende, Perella esce e – facendosi passare per lebbrosa – raggiunge le grotte vicino Tarascon. Lì raccoglie i due preziosi manoscritti originali e si mette in cammino verso una nuova terra, un altro paese ove poter gettare le basi per consegnare – un giorno – le chiavi del sapere a qualcuno che possa finalmente far vedere loro la luce del sole.

27 dicembre 2011

ROMA PRIMA DI ROMA

PAOLO GALIANO “ROMA PRIMA DI ROMA”
pagg. 205, 52 illustrazioni nel testo in b/n

Ed. Simmetria, Roma dicembre 2011 (www.simmetria.org)– prezzo 25 €

Negli ultimi tre secoli una poco conosciuta schiera di Autori italiani, che ha in Giambattista Vico il suo illustre predecessore, ha affrontato il tema della precedenza storica della civiltà degli antichi popoli italici rispetto a quelle del bacino del Mediterraneo, civiltà a cui questi scrittori dettero il nome di Saturnia Tellus o Terra di Saturno, rifacendosi alla mitica Età dell’Oro di Saturno, di cui gli scrittori classici, sia latini che greci, avevano parlato nelle loro opere.
Anche se essi ci possono far sorridere per la loro ingenuità, per le idee talora difficili da comprendere e per certe false etimologie che creano per giustificare la loro opera, ciò non toglie che si avverta la presenza di “ambienti” che li hanno sicuramente ispirati, “ambienti” che si possono far risalire a Centri esoterici più o meno ben individuabili, quale quello legato al Principe Raimondo De Sangro o ad alcune società segrete patriottiche delle guerre del Risorgimento.
La loro opera è la testimonianza di un mondo arcaico: la Tirrenide scomparsa con i grandi cataclismi che seguirono la fine dell’ultima Era Glaciale e la fase vulcanica che ne fu la conseguenza.
E dalla Tirrenide giungono, tramite questi Autori, le tracce di una sapienza antica, a volte presenti nei miti e a volte fissate nella pietra dei più arcaici monumenti di Roma, la cui lettura consente, secondo la loro interpretazione, di risalire ad un’antichità ben maggiore rispetto a quella attribuita alla civiltà romana dalla scienza moderna.



20 dicembre 2011



12 dicembre 2011

- Opus Minimum - Volume 2011



























Per informazioni e abbonamenti contattare:
lab.ermetico.filosofico@gmail.com












11 dicembre 2011

- Sintesi della Cena de le Ceneri



L'opera, pubblicata a Londra nel 1584, si apre con un breve carme dedicato "Al mal contento", cioè al lettore eccessivamente critico e insoddisfatto del contenuto: a lui Bruno consiglia di non attaccare un argomento evidentemente non alla sua portata e perciò non adeguatamente compreso, ma di seguire l'indicazione evangelica che impone di non spargere zizzania nel campo altrui.
Segue una lettera dedicatoria a Michel de Castelnau, signore di Mauvissière, l’ambasciatore francese presso la corte di Elisabetta I nella cui casa Bruno aveva soggiornato nel corso dei due anni passati in Inghilterra. Con il tono cerimonioso ed enfatico d'uso in queste occasioni, il Nolano invita il suo protettore ad un banchetto particolare, quello tenuto alla sera del primo giorno di quaresima del 1583 (appunto detto "delle ceneri" perché vi si celebra un apposito rito penitenziale dopo le festività del carnevale) nella casa londinese del nobiluomo Fulke Greville. Segue una breve ma vivace ed ironica esposizione del contenuto dei cinque dialoghi di cui si compone l’opera, nonché la contestuale presentazione dei personaggi partecipanti alla discussione. Bruno avverte che il dialogo è "istoriale", e che quindi vi si intrecciano vari motivi oltre quello scientifico: poesia, commedia, insegnamento, lode, dimostrazione, matematica, fisica, morale. Tutti però sono ugualmente importanti, in particolare le polemiche perché consentono d’imparar a l’altrui spese". E qui naturalmente Bruno ha modo di lanciare una frecciata contro i professori di Oxford che, chiamati ad ascoltare e a discutere le idee di Bruno si sono mostrati tanto presuntuosi quanto ignoranti: dunque una cornice questa indegna delle dottrine ivi sostenute e certo non all’altezza del livello speculativo che Bruno avrebbe voluto tenere. La lettera si conclude con l’elogio di Enrico III, che Bruno aveva conosciuto nel precedente soggiorno a Parigi e a cui aveva dedicato il "De umbris idearum".
Dialogo primo
I personaggi di questo primo dialogo sono, oltre a Teofilo, il discepolo testimone degli avvenimenti che espone la teoria bruniana, Smitho, un personaggio certamente reale ma di difficile identificazione, certo un amico inglese (forse John Smith o il poeta William Smith) uomo di buon senso e privo di pregiudizi, Prudenzio, che rappresenta il tipo del pedante, e Frulla, anch'esso un personaggio di fantasia che, come suggerisce il nome, incarna la figura comica dell’uomo da poco ma dotato di ironia e di spirito che prende in giro il padrone per la sua noiosa cavillosità. Il dialogo si apre con Smitho che interroga Teofilo sull’incontro del Nolano con due professori dell’università di Oxford sulla nuova filosofia cosmologica cui egli ha assistito. Nel suo racconto Teofilo traccia un ritratto alquanto mediocre dei suoi interlocutori, che risultano ignoranti e di modi poco raffinati, dilungandosi anche in una lunga disquisizione con Frulla sul significato del numero due e con Prudenzio su quello del termine "tetralogo" (dialogo a quattro) e sul valore degli studi grammaticali. Dopo una rituale invocazione alle muse, Teofilo racconta come alcuni giorni prima fossero giunti presso il Nolano i messi di un nobile inglese che era desideroso di apprendere la sua interpretazione della teoria di Copernico e la nuova filosofia. Il Nolano rispose rivendicando la propria autonomia di pensiero rispetto a Copernico come a qualsiasi altro. Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza del contributo matematico dell’astronomo polacco, egli paragona il suo lavoro a quello dei traduttori che traducono le parole da una lingua all’altra senza capire il senso complessivo del testo; o a quello dei contadini che fanno rapporto ad un ufficiale sulle manovre degli eserciti durante una battaglia, senza conoscere i principi dell’arte militare e quindi senza spiegarsi i motivi della vittoria dell’uno sull’altro. Così le apparenze dei fenomeni fisici e astronomici non possono essere intese se non dalla ragione. Nella risposta ad una precisa domanda di Smitho, Teofilo dichiara di ritenere Copernico meritevole per aver dissolto gli errori dell’antica concezione aristotelico-tolemaica (e come astronomo è stato perciò superiore a qualsiasi altro del passato e del presente), pur non essendosene molto allontanato in quanto si è mostrato più matematico che fisico e quindi non ha investigato i principi "costanti e certi" su cui edificare la nuova teoria del cosmo. Malgrado ciò gli deve essere riconosciuto il merito di essere andato contro corrente e di essersi opposto all’opinione generale, benché fosse privo di "vive raggioni" e possedesse solo alcuni frammenti delle antiche idee eliocentriche. Ad ogni modo la lode massima va al Nolano che ha liberato l’animo umano dall’ignoranza e dal vizio, egli "ch'ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli argini del mondo fatte svanir le fantastiche muraglie de le ..sfere". A lui "che al cospetto di ogni senso e raggione, co' la chiave di solertissima inquisizione aperti que' chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura", viene dedicato un lungo e accorato elogio. Lui ha rinnovato infatti l’immagine della natura, mostrando la somiglianza degli altri corpi celesti con la nostra terra, aprendo i nostri occhi "a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo, al qual di nuovo sempre ne raccoglie, e non pensar oltre lei essere un corpo senza alma e vita, ad anche feccia tra le sustanze corporali". Egli ci insegna come non vi sia che un unico cielo e "un' eterea raggione immensa" che regola il movimento degli astri; e così siamo indotti "a scuoprir l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore; ed abbiamo dottrina a non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesimi siamo dentro a noi". La celebrazione di Bruno culmina con una lunga citazione da un poema di L. Tansillo che si conclude con l’esortazione "lasciate l’ombre e abbracciate il vero; / non cangiate il presente col futuro". Dunque in tal modo prosegue Teofilo "uno solo, benché solo, può e potrà vincere, ed al fine avrà vinto, e trionferà contra l’ignoranza generale ... co' la forza del regolato sentimento, il qual bisogna che conchiuda al fine". Quanto alla moltitudine, non solo non bisogna tenerne in conto né l’approvazione né il biasimo, ma non bisogna neppure ritenerla degna, lei che è sciocca, ignorante e presuntuosa, di comunicarle la verità per non incorrere nell’inconveniente già denunciato dal Vangelo di offrire perle ai porci. Del resto l’esperienza insegna che coloro che si ritengono "dotti e dottori" si adirano se qualcuno scopre la loro ignoranza e intende istruirli, mentre vogliono ostinatamente perseverare nell’errore di quello che una volta hanno pur malamente appreso. Solo a coloro che hanno "libero l’intelletto, terso il vedere e son prodotti dal cielo" è destinato il messaggio del Nolano. All’ostinazione ottusa di Prudenzio che dichiara di volersi attenere comunque all’autorità degli antichi perché "nell’antiquità è la sapienza", Teofilo ribatte "che noi siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori", come peraltro dimostra lo stesso Copernico nei confronti degli astronomi antichi. Del resto ogni opinione, ancorché falsa, prima di essere antica era nuova all’epoca in cui fu espressa. Quanto all’ignoranza presuntuosa degli avversari, l’unico modo di combatterli è quello di confutare con opportune argomentazioni le loro false dottrine demolendo in tal modo la loro autostima e rendendoli semplici uditori della verità e, secondo l’uso della scuola pitagorica, senza il dirittto di interrogare. Gli ingegni più liberi e dotati potranno sì interrogare ma non esprimere giudizi sulla nuova filosofia prima di aver percorso tutti i gradi di essa, persuasi che le difficoltà cesseranno una volta che essa sia stata appresa nella sua interezza. Smitho non può trattenere a questo punto una perplessità: dato il grande numero di ignoranti che riempiono le accademie e le università, come sarà possibile a lui, che non sa nulla ed è indotto, distinguere il vero sapere dall’impostura, ciò che è degno da ciò che è indegno? La risposta di Teofilo è tutt'altro che rassicurante: "questo è dono degli dei, se ti guidano e dispensano la sorte da farte venir a l’incontro un uomo, che non tanto abbia l’estimazion di vera guida, quanto in verità sia tale, ed illuminano l’interno tuo spirto al far elezione de quel ch'è migliore". Smitho osserva che per lo più si segue il giudizio comune in modo che, in caso di errore, si sarà in compagnia e si godrà del favore generale. Perciò, ribatte Teofilo, i saggi sono pochi e ciò che è comune e generale è di scarso pregio, per cui "è più sicuro cercar il vero e conveniente fuor de la moltitudine". Persuaso, Smitho chiede di udire finalmente la filosofia del Nolano.
Dialogo secondo
Teofilo racconta come il Nolano fosse interpellato un giorno da Fulke Greville circa la ragioni da lui sostenute in favore del movimento della terra. Il Nolano rifiuta di rispondere perché non conosce il grado di preparazione del suo interlocutore, cui propone piuttosto di farlo incontrare con esponenti della concezione opposta alla sua per potersi confrontare con loro. "Con questo modo si potesse veder la virtù de' fondamenti di questa sua filosofia contra la volgare tanto megliormente, quanto maggior occasione gli verrebbe presentata di rispondere e dichiarare". Il Grivelle accetta di buon grado e fissa l’appuntamento "per mercoledì ad otto giorni, che sarà delle ceneri" (quindi per il 14 febbraio 1584). Il Nolano, mentre dichiara la sua disponibilità, si raccomanda al suo ospite, che gli fornisce ampie assicurazioni in proposito, di non farlo dialogare con "persone ignobili, mal create e poco intendenti in simili speculazioni". In giorno convenuto, il Nolano attende fin dopo pranzo l’invito, ma non essendo giunto si reca a visitare alcuni amici italiani residenti a Londra per affari; tornato verso sera, trova davanti alla porta di casa messer Florio (cioè Giovanni Florio, oriundo senese, nato a Londra da famiglia valdese rifugiatasi in Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni religiose, insegnante di italiano e letterato) e maestro Guin (cioè Matteo Gwinne, medico e filosofo inglese) che lo stanno aspettando per accompagnarlo al luogo dell’incontro dove è atteso da "tanti cavalieri, gentilomini e dottori". "Orsù, disse il Nolano, andiamo e preghiamo Dio, che ne faccia accompagnare in questa sera oscura, a sì lungo camino, per sì poco sicure strade". In effetti il tragitto fino alla casa del Greville si rivela denso di peripezie: per fare prima, i tre cercano innanzitutto un battello per scendere lungo il Tamigi, ma "passammo tanto tempo, quanto avrebbe bastato a bell’agio di condurne per terra al loco determinato, ed aver spedito ancora qualche piccolo negozio"; trovatolo, si imbattono in un barcaiolo che sembra Caronte con una barca le cui parti "ti rispondevano ovonque la toccassi, e per ogni minimo moto risuonavano per tutto". Invece di affrettare la corsa, i tre vengono fatti approdare per forza presso il Tempio (cioè la sede dei Templari), quindi in un punto ancora lontano dalla meta: non c'è modo naturalmente di fare intendere ragioni al barcaiolo, che per di più pretende di essere pagato per intero. Avviatisi a piedi, si trovano in mezzo al fango e al buio e in queste condizioni devono procedere per un bel pezzo sbuffando, sospirando e bestemmiando. Finalmente giungono ad una strada ma fatti pochi passi si accorgono di essere vicini al punto in cui erano sbarcati. Stanchi, pensano di rinunciare e di tornare a casa, ma li trattiene il pensiero di essere attesi da una così nobile compagnia e di aver assicurato la loro presenza. "Venca dunque la perseveranza, perché, se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte le cose preziose son poste nel difficile. Stretta e spinosa è la via de la beatitudine". Segue un lungo intermezzo in cui Teofilo tesse l’elogio di Elisabetta e del suo regno illuminato, nonché degli uomini più in vista della sua corte (dal conte di Leicester, cancelliere dell’Università di Oxford, a suo nipote Sir Philip Sidney, al potente Sir Francis Wolsingham) e dei circoli culturali ruotanti attorno ad essa; ad essi si contrappone il resto della società inglese, inospitale, rozza, sordida, ai limiti della bestialità. Il racconto riprende con il Nolano che, dopo le ultime peripezie del tragitto, giunge finalmente alla porta della casa di Greville, malamente accolto dalla servitù. I tre entrano nella sala dove gli altri si erano già seduti a tavola e prendono posto. Della disposizione dei commensali Teofilo fornisce una precisa descrizione: il Nolano siede avendo a destra lo stesso Teofilo, a sinistra il dottor Torquato, e di fronte il dottor Nundinio, che rappresentano il corpo docente oxoniense. Anche il comportamento dei commensali durante il pasto si rivela in linea con il profilo generale dei costumi evidenziati dagli inglesi in altre occasioni: tutt' altro che educato e del tutto privo di raffinatezze.
Dialogo terzo
Il dialogo si apre con Nundinio che domanda al Nolano se comprende l’inglese: un'occasione ulteriore per lanciare una bordata polemica contro l’ignoranza dei professori oxoniensi che non conoscono se non il loro idioma e un po' di latino. Dunque si converserà in quest'ultima lingua. Nundinio interroga il Nolano sulla teoria eliocentrica di Copernico, ma già dalla formulazione della domanda si capisce che non ne possiede una conoscenza di prima mano. In ogni caso ciò offre lo spunto a Teofilo per citare un lungo brano della lettera premessa da A. Osiander al "De revolutionibus", quale esempio di fraintendimento palese e di ignoranza scientifica, che induce il teologo luterano a ridurre la teoria copernicana a "suppositione" (ipotesi) buona "solamente per la facilità mirabile e artificiosa del computo", ma certo non a considerarla una oggettiva descrizione della struttura del cosmo. Quanto al Nolano, egli è stato certamente preceduto da molti altri nella sua concezione dell’universo (in particolare "il divino Cusano"), ma "lui lo tiene per altri proprii e più saldi principii, per i quali, non per autoritate ma per vivo senso e raggione, ha cossì certo questo come altra cosa che possa aver per certa". In ogni caso poichè Osiander ha creduto di individuare in Copernico un errore riguardante la distanza di Venere dal sole in dipendenza "dal movimento suo ne l’epiciclo", Teofilo gli oppone l’argomento secondo il quale "da l’apparenza de la quantità del corpo luminoso non possiamo inferire la verità de la sua grandezza né di sua distanza; perché, sì come non è medesima raggione d'un corpo men luminoso ed altro più luminoso e altro luminosissimo, acciò possiamo giudicare la grandezza o ver la distanza loro." Infatti una testa d'uomo non è visibile a due miglia di distanza mentre lo è una lucerna, che è più piccola, a sessanta miglia, " come da Otranto in Puglia si veggono al spesso le candele d' Avellona (Valona), tra quai paesi tramezza gran tratto del mare Jonio". Dunque, sostiene Teofilo, vi è un rapporto direttamente proporzionale tra l’intensità della luce e la distanza da cui è percepita "perché più presto da la qualità e intensa virtù de la luce, che da la quantità del corpo acceso, suole mantenersi la raggione del medesimo diametro e mole del corpo; (..) [per cui non è possibile] concludere, che a tanta distanza, quanta è il diametro de l’epiciclo di Venere, si possa inferir raggione di tanto diametro del corpo del pianeta, ed altre cose simili". Peraltro lo stesso accade quando noi osserviamo la terra da una certa altezza e lo guardo abbraccia un determinato orizzonte: quest' ultimo aumenta in proporzione dell’aumento del punto di osservazione, per cui "è da credere che, discostandosi più l’orizzonte, sempre si diminuisca" il modo con cui ci apparirà la terra. "E cossì oltre, attenuandosi l’orizzonte, sempre crescerà la comprensione de l’arco, insino alla linea emisferica ed oltre. Alla quale distanza, o circa quale posti, vedreimo la terra con quelli medesimi accidenti coi quali veggiamo la luna aver le parti lucide ed oscure, secondo che la superficie è acquea e terrestre. Tanto che, quanto più se stringe l’angolo visuale, tanto la base maggiore si comprende de l’arco emisferico, e tanto ancora in minor quantità appare l’orizzonte (..). Allontanandoci dunque, cresce sempre la comprensione de l’emisfero e il lume; il quale, quanto più il diametro si diminuisce, tanto d'avantaggio si viene a riunire; di sorte che, se noi fussemo più discosti da la luna, le sue macchie sarebbero sempre minori, sin alla vista d' un corpo piccolo e lucido solamente". Smitho trae facilmente le logiche conclusioni di questo discorso di Teofilo: un corpo luminoso più grande, irradiando con la sua luce un corpo opaco più piccolo, "de l’ombra conoidale produce la base in esso corpo opaco, ed il cono, oltre quello, ne la parte opposita: (..) la conclusione di questa raggione è, che il sole è corpo più grande che la terra, perché manda il cono de l’ombra di quella sin appresso alla sfera di Mercurio, e non passa oltre". Nello stesso modo, incalza Teofilo, "un corpo luminoso minore può illuminare più della mittà d'un corpo opaco più grande".
Il dialogo prosegue riportando un'ulteriore obiezione di Nundinio: il movimento della terra è impossibile perché si trova al centro dell’universo e quindi è "fisso e costante fundamento d' ogni moto". La risposta del Nolano è semplice: "questo medesimo può dir colui che tiene il sole essere nel mezzo de l’universo, e per tanto immobile e fisso, come intese il Copernico ed altri molti, che hanno donato termine circonferenziale a l’universo"; ma questo argomento non è valido per chi concepisce l’universo come infinito, e dunque senza che vi sia alcun corpo che occupi il centro o la periferia. Ne consegue che, per quanto riguarda i moti, "non è alcuno, che di gran lunga non differisca dal semplicemente circulare e regolare circa qualche centro". Per cui "noi che veggiamo un corpo aereo, etereo, spirituale, liquido, capace loco di moto e di quiete, sino immenso e infinito, (..) sappiamo certo che, essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve, secondo la capacità sua corporale e modo suo, essere infinitamente infinito". Di fronte a questo argomento Nundinio resta attonito e stupito, come se gli fosse apparso un fantasma. Incomincia allora a "dimandar fuor di proposito" sulla materia dei vari pianeti che ora sono creduti formati di etere (o quinta essenza), materia incorruttibile di cui le stelle costituiscono la parte più densa. Il Nolano risponde che "li altri globi, che son terre, non sono in punto alcuno differenti da questo in specie; solo in esser più grandi e piccioli (..); ma quelle sfere, che son foco come è il sole, per ora, crede che differiscono in specie, come il caldo e freddo, lucido per sé e lucido per altro". Rivolgendosi a Smitho che si meraviglia della prudenza del Nolano, Teofilo gli spiega che "dal svanimento delle parti oscure ed opache del globo e dalla unione delle parti cristalline e lucide si viene sempre alle reggioni più e più distante a diffondersi più e più lume. Or se il lume è causa del calore, (..) avverrà che la terra co' gli raggi, che ella manda alle lontane parti de l’eterea reggione, secondo la virtù della luce venghi a comunicar altrettanto di virtù di calore. Ma a noi non costa che una cosa per tanto che è lucida sii calda, perché veggiamo appresso a noi molte cose lucide, ma non calde". A queste affermazioni Nundinio si mette a ridere e cita Luciano che nella "Storia vera" immagina e racconta di altre terre con le stesse proprietà della nostra. Al che il Nolano spiega che lo scrittore antico stava polemizzando con quei filosofi che affermano appunto che vi siano molte terre; in realtà "se ben consideriamo, trovarremo la terra e tanti altri corpi, che son chiamati astri, membri principali de l’universo, come danno la vita e nutrimento alle cose che da quelli toglieno la materia, e a' medesimi la restituiscano, cossì e maggiormente hanno la vita in sé; per la quale, con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno alle cose e per gli spacii convenienti ad essi." Non vi sono altri tipi di movimento ed ogni essere "si muove al suo principio vitale, come al sole e altri astri; (..) e finalmente va a trovar il simile e fugge il contrario". Tutto avviene secondo un principio interno alla natura stessa che agisce in modo differente sui diversi corpi in relazione alle specifiche qualità di ognuno. Questo principio intero è detto "anima", ed è sensitiva e intellettiva come la nostra, e "forse anco più". La terra è dunque come "un grande animale" che possiede sensibilità, membra, carne, sangue, nervi, ossa, vene, cuore ma certo non simili alle nostre; e come negli animali, anche in lei le varie parti sono " in continua alterazione e moto, ed hanno un certo flusso e reflusso, dentro accogliendo sempre qualche cosa dall’estrinseco e mandando fuori qualche cosa da l’intrinseco". Per cui "essendo che ogni cosa participa de vita, molti ed innumerevoli individui vivono non solamente in noi, ma in tutte le cose composte; e quando veggiamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto credere quella morire, quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione e concordia, rimanendono le cose che quella incorreno, sempre immortali".
Infine Nundinio, irritato e ormai sconfitto, propone un'ultima questione: se fosse vero che la terra gira verso oriente, le nuvole dovrebbero scorrere verso il lato opposto "per raggione del velocissimo e rapidissimo moto di questo globo, che in spacio di ventiquattro ore deve aver compito sì gran giro." Il Nolano gli risponde che nuvole e venti fanno parte della terra, la quale comprende "tutta la machina e l’animale intero, che consta di sue parti dissimilari", dai mari ai monti ai sassi ai fiumi; dunque le nuvole si muovono in sintonia con la terra e insieme con "tutti gli accidenti, che son nel corpo de la terra." A questo punto Smitho interrompe il racconto di Teofilo per porre lui stesso una domanda: "onde avviene, che noi veggiamo l’emisfero intiero, essendo che abitiamo ne le viscere della terra?" Pacatamente Teofilo risponde che essendo la terra un globo in tutte le sue parti, "accade che alla vista de l’orizonte cossì una convessitudine doni loco all’altra"; si tratta dunque di una situazione del tutto diversa da quella in cui tra i nostri occhi e una parte del cielo si interpone un monte a impedire la vista del circolo dell’orizzonte. "La distanza dunque di cotai monti, i quali siegueno la convessitudine de la terra, la quale non è piana ma orbicolare, fa che non ne sii sensibile l’essere entro le viscere de la terra." Incalza ancora Smitho domandando se questo impedimento tocca anche coloro che sono vicino alle alte montagne. Risponde Teofilo che tocca solo coloro che sono vicino ai monti più piccoli, "perché non sono altissimi gli monti, se non sono medesimamente grandissimi in tanto, che la loro grandezza è insensibile alla nostra vista", precisando però che per altissimi non si deve intendere la dimensione delle Alpi o dei Pirenei, ma quella ad es. dell’intera Francia posta tra l’Oceano e il Mediterraneo. Del resto Alpi e Pirenei sono state in passato "la testa d'un monte altissimo. La qual, venendo tutta via fracassata dal tempo (..) forma tante montagne particolari, le quale noi chiamiamo monti." In conclusione, afferma Teofilo, "con la terra dunque si muoveno tutte le cose che si trovano in terra. Se dunque dal loco extra la terra qualche cosa fusse gittata in terra, per il moto di quella perderebbe la rettitudine." Si può provare quanto detto con qualche semplice esperienza: se uno da una riva vorrà lanciare un sasso verso una nave in corsa lungo un fiume, fallirà il bersaglio; se quello stesso sasso varrà lanciato da un marinaio posto sulla cima dell’albero maestro, lo si vedrà cadere in linea retta alla base dello stesso albero. Se dunque vi saranno due persone, una dentro la nave in corsa e l’altra fuori, ed entrambi " abbia la mano circa il medesimo punto de l’aria", lanciando contemporaneamente una pietra, "senza che gli donino spinta alcuna, quella del primo, senza perdere punto né deviar da la sua linea, verrà al prefisso loco, e quella del secondo si trovarrà tralasciata a dietro." La ragione di questo sta nel fatto che "le cose, che hanno fissione o simili appartinenze nella nave, si muoveno con quella; e la una pietra porta seco la virtù del motore il quale si muove con la nave, l’altra di quello che non ha detta participazione." Da questa esperienza si può dunque concludere che il moto rettilineo non dipende né dal punto di partenza, né da quello d'arrivo, né dall’aria, "ma da l’efficacia de la virtù primieramente impressa, dalla quale depende la differenza tutta." E con ciò il dialogo si chiude.
Dialogo quarto
Però "la divina scrittura (..) in molti luoghi accenna e suppone il contrario": questa la domanda di Smitho che apre il dialogo. Teofilo risponde che "nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia"; il fine della Scrittura è pratico, e concerne il senso morale delle nostre azioni. Dunque il divino legislatore quando tratta quelle questioni non parla sacondo verità "ma di questo lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo in maniera che, secondo il suo modo di intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale". Smitho acconsente e a conferma di questa tesi cita la posizione di Al-Gazali secondo il quale "il fine delle leggi non è tanto di cercar la verità delle cose e speculazioni, quanto la bontà de' costumi, profitto della civiltà, convitto di popoli e prattica per la commodità della umana conversazione, mantenimento di pace e aumento di republiche." Anzi il sapiente non giudica cosa opportuna divulgare la verità presso il volgo ignorante che non ne capirebbe il valore e ne equivocherebbe il senso. "Parlar con i termini de la verità dove non bisogna, è voler che il volgo e la sciocca moltitudine, dalla quale si richiede la prattica, abbia il particular intendimento; sarebbe come voler che la mano abbia l’occhio, la quale non è stata fatta dalla natura per vedere, ma per oprare e consentire alla vista." Dunque la Scrittura usa un linguaggio consono alle "paroli e sentimenti comoni". Dunque nelle questioni naturali che hanno come oggetto la verità, le parole della Scrittura non devono essere usate come autorità "e prender per vero quel che è stato detto per similitudine". In ogni caso Teofilo precisa che questa distinzione tra verità e metafora (come si dimostra in seguito con un lungo esempio tratto dal libro di Giobbe) "non tocca a tutti di volerla comprendere, come non è dato a ogniuno di posserla capire". Del resto si può giudicare della rilevanza e del significato della metafora nel linguaggio religioso, osservando come la Scrittura venga usata in questo senso da ebrei, cristiani e musulmani con risultati tanto diversi e persino contrari. Piuttosto, osserva Smitho, questo valore metaforico e pratico della Scrittura fa sì che essa ben si possa conciliare con la filosofia del Nolano. Teofilo risponde che non si devono temere le obiezioni degli "onorati spirti, veri religiosi e, ed anco naturalmente uomini da bene, amici della civile conversazione e buone dottrine"; costoro infatti non tarderanno a rendersi conto che questa filosofia non solo contiene la verità, ma favorisce la religione più di qualsiasi altra che ponendo il mondo finito limita l’efficacia della potenza divina o che fissando la provvidenza sopra le azioni umane ne svilisce l’effetto rimuovendola dalle cause prime e universali.
Dopo queste considerazioni Smitho chiede a Teofilo di tornare al racconto della conversazione del Nolano, riferendo dell’intervento del dottor Torquato, presentato come molto più ignorante e arrogante di Nundinio. Costui in verità non porta argomenti ma apostrofa il Nolano accusandolo di pretendere di arrogarsi il titolo di maestro dei filosofi al posto di Aristotele. Il Nolano si volge agli astanti ridendo per queste sciocchezze e lo invita ad entrare più propriamente in argomento. Al che Torquato pone la seguente questione: se la terra si muove, come mai la stella di Marte appare talvolta più grande e talvolta più piccola? Il Nolano gli risponde che "una delle cause principali (..) è il moto della terra e di Marte ancora per gli proprii circoli, onde aviene che ora siino più prossimi ora più lontani." Alla richiesta di Torquato di descrivere la proporzione dei moti della terra e dei pianeti, il Nolano risponde di essere venuto per rispondere e non per insegnare, che questa è nozione conosciuta dagli antichi e dai moderni, "e che lui non disputa circa questo, e non è per litigare contra gli matematici, per toglier le loro misure e teorie, alle quali sottoscrive e crede; ma il suo scopo versa circa la natura e verificazione del soggetto di questi moti." In ogni caso, sollecitato dai presenti, il Nolano in una pagina densissima presenta un quadro completo della sua filosofia ribadendo l’infinità dell’universo, che consta di un immenso e unico spazio o cielo in cui sono collocati la terra e gli altri astri in quantità innumerevole, dei quali alcuni sono caldi e altri sono freddi; "questi, per comunicar l’uno all’altro, e partecipar l’un da l’altro il principio vitale, a certi spacii, con certe distanze, gli uni compiscono gli lor giri circa gli altri, come è manifesto in questi sette, che versano circa il sole." La terra è uno di questi, e il suo moto, che procede in 24 ore "dal lato chiamato occidente verso l’oriente, caggiona l’apparenza di questo moto de l’universo circa quella, che è detto mundano o diurno." Dopo questa esposizione del Nolano, seguono momenti di grande confusione con Torquato che si scalda e inveisce contro il filosofo dandogli del pazzo. Anche il Nolano alza il tono di voce e ribalta l’accusa apostrofando il professore oxoniense che non valeva più dei suoi abiti accademici i quali avrebbero dovute essere spolverati a suon di bastonate data l’asinità che aveva dimostrato nella discussione. Questo esito fornisce l’occasione a Frulla per lamentare la decadenza degli studi filosofici in Inghilterra a favore di quelli umanistici e grammaticali con la conseguente diffusione di quella pedanteria di cui fece le spese il Nolano "nato e allevato sotto più benigno cielo" durante le pubbliche dispute con i teologi di Oxford, come quella tenuta alla presenza del principe polacco A. de Lask e di altri membri della nobiltà. Riprendendo il racconto Teofilo riferisce come il Nolano si fosse ricomposto presto dal precedente scatto d' ira, rivolgendo parole amichevoli a Torquato e ricordando di aver sostenuto le stesse posizioni aristoteliche in gioventù, quando era più ignorante. Perciò augura a Torquato che Dio gli conceda di accorgersi della propria cecità per poter diventare più civile e cortese, meno ignorante e temerario. Questo naturalmente non riesce a smuovere i dottori inglesi che dichiarano di fondare la loro certezza sull’autorità di Aristotele e di altri grandi filosofi. Al che "il Nolano soggionse, che sono innumerabili sciocchi, insensati, stupidi ed ignorantissimi, che in ciò sono compagni non solo d'Aristotele e Tolomeo, ma di essi loro ancora; i quali non possono capire quel che il Nolano intende, con cui non sono, né possono essere consenzienti, ma solo uomini divini e sapientissimi, come Pitagora, Platone e altri.". Quanto ad Aristotele, essi possono essergli vicino solo nell’ignoranza, ma non certo nel sapere, perché "dove quel galantuomo fu dotto e giudicioso, credo e son certissimo, che tutti insieme ne sete troppo discosti." E a riprova di ciò milita il fatto che non sono riusciti a portare un solo argomento valido contro Copernico e contro di lui, che invece ne ha fornito molti e persuasivi. Torquato allora torna alla carica domandando la posizione dell’auge del sole. "Il Nolano rispose che lo imaginasse dove gli piace, e concludesse qualche cosa, perché l’auge si muta e non sta sempre nel medesimo grado de l’eclittica. (..) Questa interrogazione de l’auge del sole conchiuse in tutto e per tutto, che costui era ignorantissimmo di disputare." Infatti "la prima lezione, che si dà ad uno che vuole imparar di argumentare, è di non cercare e dimandar secondo i propri principi, ma quelli che sono concessi da l’avversario", la cui validità si deve cercare di demolire e confutare con apposite prove. Ovviamente gli oxoniensi non si danno per vinti: Torquato stende sulla tavola carta e calamaio, vi disegna il sistema planatario secondo i due sistemi, tolemaico e copernicano, in tal modo pretendendo di dare una lezione al Nolano. Ma sbaglia tutto, dimostrando di aver frainteso Copernico, affermando come suo "quel che il Copernico non intese, e più tosto s'arrebbe fatto tagliar il collo, che dirlo o scriverlo." Infatti portato il libro di Copernico il Nolano smaschera la loro ignoranza. Allora Torquato e Nundinio, vistisi sconfitti, se ne vanno. Anche gli altri cavalieri lasciano la sala, dopo aver pregato il Nolano di scurase la scortesia dei due e di aver compassione dell’ignoranza inglese in materia di filosofia e matematica. Così la serata era finita e anche il Nolano e i suoi amici lasciano la casa di Greville facendo ritorno alle rispettive dimore senza incontrare le difficoltà del viaggio d'andata. Così termina il racconto di Teofilo, ma Smitho lo prega di concedergli ancora del tempo per capire meglio la dottrina del Nolano.
Dialogo quinto
Il dialogo si apre subito con un lungo discorso di Teofilo che espone la cosmologia bruniana: le stelle e la terra sono tutte fisse nello stesso firmamento "che è l’aria". Si devono quindi eliminare le sfere della teoria tolemaica, "perché in una medesima eterea reggione, come in un medesimo gran spacio o campo, son questi corpi distinti e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni dagli altri". Quanto al fatto per cui si è a lungo creduto che i cieli fossero sette per i pianeti e uno per le stelle fisse, il motivo consiste nel "vario moto, che si vedeva in sette, ed uno regolato in tutte l’altre stelle, che serbano perpetuamente la medesima equidistanza e regola", per cui a queste ultime sembra "convenir un moto, una fissione ed un orbe". Ma se noi consideriamo il movimento della terra e rapportiamo a questo movimento quello degli altri corpi nell’aria, "potremo prima credere, e poi demostrativamente concludere il contrario di quel sogno e quella fantasia". Lo stesso accade a noi che guardando le cose entro un certo giro di orizzonte ci parranno nella loro proporzione, ma oltre una determinata distanza sembreranno tutte ugualmente lontane; "cossì, alle stelle del firmamento guardando, apprendiamo la differenza de' moti e distanze d'alcuni astri più vicini, ma gli più lontani e lontanissimi ne appaiono immobili, ed equalmente distanti e lontani, quanto alla longitudine". Se dunque noi non vediamo i moti di quelle stelle, non è perché non vi siano, poiché non c'è ragione che non si verifichino negli astri gli stessi fenomeni presenti nelle altre porti del cosmo. "E però non denno esser chiamate fisse perché veramente serbino la medesima equidistanza da noi e tra loro; ma perché il loro moto non è sensibile a noi." Lo stesso accade quando una nave che procede molto distante da noi ci sembra ferma. Lo stesso si deve pensare di quei corpi grandissimi e luminisissimi come il sole, di cui è possibile ipotizzare l’esistenza in gran numero. Altri filosofi nell’antichità (Pitagora, Melisso, Eraclito, Democrito, Epicuro, Parmenide) nutrirono la stessa concezione in proposito, "onde si vede, che conobbero un spacio infinito, regione infinita, capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo, i quali cossì compiscono i loro circoli, come la terra il suo." In questo universo sono eliminate "la virtù trattiva o impulsiva ed altre simili", così come non ha senso la distinzione tra moti naturali e violenti, ma è necessario ammettere che " questo moto sii naturale da principio interno e proprio appulso senza resistenza. Questo conviene a tutti i corpi, che senza contatto sensibile di altro impellente o attraente si muoveno." Se questo è vero se ne deve dedurre che è impossibile che la luna muova il mare, fecondi i pesci e altre cose simili: essa non è causa ma "segno ed indizio..[di un certo] ordine e corispondenza de le cose, e le leggi d'una mutazione che son conformi e corrispondenti alle leggi de l’altra." Molte filosofie cadono in questo tipo di errori, scambiando le cause con gli effetti: questo accede perché si cercano le cause dei fenomeni in modo estrinseco, mentre "il vero non repugnante è il naturale; e il naturale, o vogli o non, è principio intrinseco, il quale da per sé porta la cosa dove conviene." Quanto a coloro che non riescono a pensare che un corpo cosi grande e pesante come la terra possa muoversi, non si comprende perché poi ammettano questo moto per il sole, la luna e gli altri pianeti intorno alla terra. Ora nessun corpo è pesante o leggero nella posizione occupata, ma queste qualità e differenze "convegnono alle parti, che son divise dal tutto, e che se ritrovano fuor dal proprio continente, e come peregrine: queste non meno naturalmente si forzano verso il loco della conservazione, che il ferro verso la calamita". Perciò pezzi di terra cadono verso di noi dall’aria, "perché qua è la lor sfera"; allo stesso modo l’acqua non è pesante nel suo luogo naturale, e anzi consente ai corpi il galleggiamento; così le braccia non sono pesanti se collocate in posizione corretta nel busto. Dunque pesantezza e leggerezza non sono qualità intrinseche e assolute delle cose, ma dipendono dalla loro posizione nel cosmo in relazione estrinseca con gli altri elementi. "Ogni cosa dunque, che è naturale, è facilissima; ogni loco e moto naturale è convenientissimo. Con quella facilità, con la quale le cose che naturalmente non si muoveno persistono fisse nel suo loco, le altre cose che naturalmente si muoveno, marciano per gli lor spacii." Dunque la terra non è più pesante del sole, purché ciascuno resti nel suo spazio, e lo stesso dicasi per gli altri elementi che possiedono ciascuno una propria sfera d'appartenenza, fuor dalla quale si muovono per raggiungerla e consistervi. Quanto all’aria, essa è "generalissimo continente", è il firmamento dei corpi celesti, "da tutte parti esce, in tutte parti entra, per tutto penetra, a tutto si diffonde".
Smitho resta meravigliato dopo questo discorso, ma ancora non riesce ad avere ben chiaro come possa giustificarsi la natura (quale corpo infuocato e fonte di calore) e, date le apparenze offerte dai nostri sensi, la posizione fissa del sole mentre gli altri pianeti, compresa la terra, sono erranti attorno a lui. Infatti stando al ragionamento di prima "le parti del foco, quando non hanno facultà di montare in alto [come nelle fornaci], si svolgeno e ruotano in tondo": dunque il moto conviene più al sole che alla terra. Teofilo risponde che si potrebbe concedere che il sole si muova attorno al proprio centro e non attorno ad altro, ma bisogna considerare che esso è assai caldo, denso ed eterogeneo a proprio interno: dunque quello che noi vediamo muoversi è "aria accaso, che si chiama fiamma, come il medesimo aria alterato dal freddo della terra si chiama vapore." Tuttavia Smitho non si ritiene ancora soddisfatto poiché considera quanto detto finora piuttosto un argomento a favore della sua tesi, dato che il vapore è più simile al fuoco, che è elemento mobile, mentre l’aria è più simile alla terra. Teofilo risponde che "la caggione è, che il fuoco più si forza di fuggire da questa reggione, la quale è più connaturale al corpo di contraria qualità"; in ogni caso assicura che il Nolano non ha "determinazione alcuna circa il moto o quiete del sole", e dunque quel movimento della fiamma "ch'è ritenuta e contenuta nelle fornaci, procede da quel, che la virtù del foco perseguita, accende, altera e trasmuta l’aria vaporoso, del quale vuole aumentarsi e nodrirsi, e quell’altro si ritira e fugge il nemico del suo essere e la sua correzione." Alla successiva domanda di Smitho circa il moto locale della terra, Teofilo risponde che la sua causa è il rinnovamento e la rinascita continua di questo corpo, "il quale, secondo la medesima disposizione, non può essere perpetuo". Perciò come le cose che essendo caduche si perpetuano nella specie, così "le sustanze che non possono perpetuarsi sotto il medesimo volto, si vanno tutta via cangiando di faccia." Infatti la materia è certamente eterna e incorruttibile e deve accogliere e produrre in tutte le sue parti tutte le forma, affinché ovunque "si fia tutto, sia tutto", ovviamente non nel medesimo istante ma in tempi diversi, "in varii istanti d'eternità successiva e vicissitudinalmente". Dunque questa massa, di cui è costituito il nostro globo, non si dissolve e non si annichila, ma muta e si rinnova continuamente, "cangiando le sue parti tutte" secondo una precisa successione "ognuna prendendo il loco de l’altre tutte." Poichè la massa è omogenea, questo dinamismo tocca tutte le sue parti indistintamente, sia all’interno che alla superficie "chè nel grembo e viscere della terra altre cose s'accoglieno, ed altre cose da quelle ne si mandan fuori." In tutto ciò l’uomo non ha alcuna condizione privilegiata: noi stessi andiamo e veniamo, passiamo e ritorniamo, "e non è cosa nostra che non si faccia aliena e non è cosa aliena che non si faccia nostra". Le componenti del nostro essere andranno a formare altri esseri, così come il nostro essere è composto di elementi derivati da generi diversi. In questo processo evolutivo spirito e materia si mescolano e si trasfondono l’uno nell’altra e viceversa tanto che non si può dire se sono due generi diversi o due componenti dello stesso genere. "Cossì tutte le cose nel suo geno [genere] hanno tutte vicessitudine di dominio e servitù, felicità e infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male". Nulla è eterno, tranne la materia che però è in continua evoluzione. Ne consegue che "la causa del moto locale (..) è il fine della vicessitudine, non solo perché tutto si ritrove in tutti luoghi, ma ancora perché con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme". Il moto locale è dunque il solo esistente e costituisce il principio di ogni mutamento e ogni forma. Di questa processualità dinamica si possono fornire molti esempi tratti dall’esperienza della natura (il mare non è sempre stato tale, molti luoghi della terra hanno mutato forma, ciò che è terra non lo è stato e non lo sarà sempre, le fonti si seccano, i fiumi ingrossano e si assottigliano, un tempo Micene era fertile e Argo secca mentre oggi è il contrario, le pietre sparse nei campi in Provenza mostrano che un tempo erano battute dalle onde, la località chiamata Porto vicino a Nola testimonia che il mare un tempo arrivava fino alle porte della città, ai tempi di Cesare la terra di Francia non era adatta alla coltivazione della vite come invece lo è oggi - il che significa che il Mediterraneo si è ritirato verso la Libia lasciando la terra più secca e calda- ecc.), che in alcuni casi lo stesso Aristotele conobbe e tenne presente, anche se poi non ne seppe trarre le debite conclusioni, rimanendo invischiato nei suoi schemi fallaci. Richiesto ancora da Smitho di precisare "i moti, che convengono a questo globo", Teofilo prosegue specificando che il movimento della terra esige la compresenza degli opposti "a fin che ogni parte venghi a partecipar ogni vita, ogni generazione, ogni felicità". Di conseguenza i moti della terra sono di quattro tipi: a) il primo, al fine di fornire la vita a sé e alle cose in essa contenute, e dare "come una respirazione ed inspirazione col diurno caldo e freddo, luce e tenebra", consiste nel girare attorno al proprio asse in ventiquattro ore per esporre al calore e alla luce de sole tutta la propria superficie; b) il secondo consiste nel girare intorno al sole nell’arco di trecentosessantacinque giorni "per la rigenerazione delle cose, che nel suo dorso vivono e si dissolveno"; c) il terzo è quello per il quale la relazione che ha questo emisfero superiore della terra rispetto all’universo, si trasmetta all’emisfero inferiore e viceversa; d) vi è infine un quarto moto per cui la tendenza del vertice della terra ad orientarsi verso l’artico si trasforma nella tendenza dell’altro vertice verso il polo antartico. Di ogni moto è naturalmente possibile fornire la misura in base a determinati e adeguati criteri. In ogni caso Teofilo precisa che: benché quatto i moti "tutti concorreno in un composto"; benché siano detti circolari, questi moti non sono effettivamente tali; che questi moti non sono regolari e perciò non rappresentabili geometricamente. Data la loro connessione (Teofilo li rappresenta tutti nel moto di una palla lanciata in aria), "uno che non sii regolato, è sufficiente a far che nessuno de gli altri sia regolato; uno ignoto fa tutti gli altri ignoti". Malgrado ciò essi hanno un certo ordine in base al quale si avvicinano o si allontanano dalla regolarità, che risulta inversamente proporzionale alla vicinanza al centro, per cui la terra "prima ha il moto del suo centro, che è annuale, più regolato che tutti, e più che gli altri simile a se stesso; secondo, men regolato, è il diurno; terzo, l’irregolato, chiamiamo l’emisferico; quarto, irregolatissimo, è il polare over colurale." Dopo questa esposizione, Teofilo ingiunge a Frulla di non divulgare la sapienza perché non cada in orecchie indegne di persone che potrebbero recare danno al Nolano e ai suoi amici; quindi, annunciata la fine della cena e del dialogo, prega Prudenzio di fare un epilogo morale alla loro riunione. Questa si risolve a) in un augurio al Nolano di trovare un uditorio consono alla sua sapienza e di conservarsi l’amicizia del signor di Mauvissier; b) in un invito agli uomini e ai cavalieri di buoni costumi di accogliere nelle loro case il Nolano e di difenderlo da cattivi incontri; c) in una preghiera a Nundinio e Torquato a farsi risarcire dai loro pessimi maestri per il tempo sprecato; d) a tutti, nel caso di un prossimo dialogo, la richiesta di dar miglior prova di sé o di tacere.
Maurizio Pancaldida Il Giardino dei Pensieri - "Studi di Storia della Filosofia"

8 dicembre 2011

- L’Universo E’ Lo Spartito di Dio

la geometria è musica solidificata” Pitagora
Il modo di concepire la realtà come basata sul suono è comune a molte visioni cosmologiche, le quali vedono la materia come un insieme di vibrazioni. Non solo, anche l’uomo è visto come tale, se pensiamo al termine per-sona , ad esempio, il cui significato è: “attraverso il suono”. Vi sono pratiche spirituali che utilizzano il suono, come i “Mandala Sonori”, che si rifanno al Nada Yoga e al Canto Armonico, inoltre la musica come strumento di guarigione è usata sin dall’antichità. Se ne trovano testimonianze tra i Greci, nella Bibbia e nei Veda indiani. Recentemente abbiamo la musicoterapia, che negli ultimi decenni ha avuto un notevole impulso grazie a studi nel campo medico, fisico e musicale, tanto da rendere la sua conoscenza necessaria anche ai musicisti che vogliono avere una qualità espressiva più consapevole. Tutte queste conoscenze, sembrano però legate al mondo spirituale, quasi esoterico, più che alla realtà di tutti i giorni, per cui sono considerate in modo superficiale da molti individui. Questi ultimi, potrebbero trovare interessanti gli studi descritti nel seguito di questo articolo. Siamo nel diciottesimo secolo quando E. Chaldini, un fisico tedesco, scoprì che la sabbia appoggiata su una lamina di metallo applicata a un violino, si dispone in figure geometriche differenti a seconda delle note prodotte, dimostrando così che il suono influisce veramente sulla materia. Nacque la Cimatica. In seguito, nel ventesimo secolo, H. Jenny continuò le ricerche sperimentando le vibrazioni sonore su vari tipi di materiali e scoprì che a determinati suoni corrispondono altrettante precise figure geometriche. Inoltre, e questo è molto affascinante a mio parere, vide che i suoni di antichi linguaggi, come il sanscrito o l’ebraico, producono la figura stessa del simbolo alfabetico che si pronuncia. Altrettanto interessante è la scoperta che alcuni disegni corrispondono a strutture cellulari di organismi viventi e che perciò ogni cellula è caratterizzata da una vibrazione specifica, cioè una nota precisa! Tutta la creazione è una sinfonia di suoni, di vibrazioni, in cui le singole parti s’inseriscono attratte dalla risonanza con i suoni simili.
Cimatica: interazione tra corpo e suono Secondo il dottor Victor Beasley – appartenente al gruppo di ricerca presso la statunitense University of the Trees, “ogni cellula ha un campo magnetico che interagisce con quelli delle cellule simili vicine, dando così origine al campo magnetico di un sistema particolare all’interno del corpo umano”. Le vibrazioni dei vari atomi creano così una risonanza e si aggregano nelle cellule con atomi simili. Può accadere che per una qualsiasi causa, queste nostre note di risonanza interiore si siano stonate, generando un malessere. Noi possiamo ridare il “LA” al nostro corpo attraverso la meditazione e la musica. In questo modo ristabiliamo l’ordine nell’organismo. Metaforicamente il corpo umano è proprio uno spartito, direi una sinfonia, tanto è perfetto, che Dio o la natura, se preferite, ha scritto. Perciò può accadere che alcune note stonate turbino la perfezione della scrittura musicale. Abbiamo quindi bisogno di un accordatore, di un direttore, di una guida, chiamatelo come volete, comunque qualcosa che riporti l’ordine nell’orchestra. Diversi studi che dimostrano che il corpo umano ha una vibrazione di base che va dai 7,8 agli otto cicli al secondo, quando è in stato di rilassamento. La terra vibra alla frequenza fondamentale di circa otto cicli al secondo (detta risonanza Schumann). Il sistema nervoso di tutte le forme di vita è sintonizzato su tale frequenza. Le onde del cervello quando sono in alfa (stato di serena vigilanza) sono intorno agli otto cicli al secondo. La frequenza di otto Hz e i suoi multipli armonici, sono quindi alla base di processi importanti per la vita e la natura. Una musica con un perfetto potere curativo, e rilassante, dovrebbe facilitare l’entrata nelle onde alfa del cervello. Non finisce qui il rapporto tra musica e uomo. Altre ricerche hanno scoperto che il corpo umano risponde alle frequenze del suono anche quando non è consapevole. Un ricercatore e professore di musica R.Murray Schafer ha scoperto che per gli studenti statunitensi e canadesi la nota più facile da ricordare è ciò che corrisponde al “si naturale”, mentre per gli europei è il “sol diesis”. Questo deriva dal fatto che in Canada la corrente alternata è a 60Hz (60 cicli al secondo), una frequenza in risonanza con il SI, mentre in Europa è a 50Hz, in risonanza con il SOL#. È appurato che i suoni hanno il potere di influire su: la respirazione, il battito cardiaco, la pressione arteriosa, la tensione muscolare, la temperatura della pelle, le secrezioni interne, le onde cerebrali. Anche i suoni che l’uomo non può avvertire (le onde ultrasonore) possono influenzare profondamente gli esseri umani. Conseguenza di ciò è che tutte le onde elettromagnetiche alle quali siamo esposte sono influenti sul corpo umano e sulle sue funzioni. Per riportare un equilibrio che magari si è incrinato, la musica può essere un buon metodo. Comunque è consigliabile difendersi dalle onde che non sono in risonanza con la vita.
by Wenz


6 dicembre 2011

- L'OCCHIO di HORUS (DIO UOMO - UOMO DIO)




Uno dei simboli più famosi e conosciuti del Mito Osirideo resta indubbiamente l’Occhio di Horus, che Osiride, una volta reintegrate le membra disperse da Seth, grazie all’opera di Iside e Neftis, dona al figlio Horus allorquando, emergendo dal mondo della luce velata, la Duat, lo abbraccia trasmettendogli il potere della conoscenza,della consapevolezza e della trasformazione. Simbolo, il cui nome significa essere sano, ebbe grande importanza e diffusione nella civiltà egizia e venne posto, di regola, all'interno dei bendaggi che avvolgevano il corpo del defunto, oltre che su amuleti, rilievi, incisioni e papiri, e in quanto simbolo di rigenerazione e di rinascita rappresentava altresì i 5 sensi più conosciuti: vista, udito, olfatto, tatto e gusto, anche se l'occhio di Ra simboleggia pure quei sensi sconosciuti che permettono di accedere a quella chiamata "energia oscura".Il simbolo dell'occhio di Ra, "colui che tutto vede", fu rinvenuto sotto il dodicesimo strato di bende della mummia di Tutankhamon, essendo considerato un amuleto di aiuto per una nuova vita, ma soprattutto per la rinascita. Graficamente è costituito da un occhio sovrastato da un sopracciglio mentre sotto le ciglie è disegnata una spirale, che scivola da destra a sinistra verso il basso. Per alcuni rappresenterbbe il tratto residuo del piumaggio del falco, animale del quale Horus prende le sembianze. Le leggende relative a questo simbolo profondamente esoterico risalgono alle prime fasi della storia egizia ed hanno subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli. La tradizione più antica lo mette in relazione con il Dio Horo, i cui occhi erano ritenuti essere il Sole e la Luna. Comprendiamo quindi chi fosse quel dio “nascosto nelle braccia del sole” evocato nella celebrazione dei Due Occhi di Horus, come riferisce Plutarco: “Negli inni sacri di Osiride viene invocato – colui che sta nascosto nelle braccia del sole – e il trenta del mese di Epifisi (27 maggio - 26 giugno, quindi al solstizio) si festeggia la nascita degli Occhi di Horus: in questo giorno, infatti, anche la luna e il sole si trovano sulla stessa retta, e per gli egiziani non solo il sole, ma anche la luna sono Occhio e luce di Horus” (Iside e Osiride 52).Che questa simbologia egizia sia rintracciabile trasversalmente nel cammino dei riti lo dimostra la sua persistenza teologica nella Stele di Metternich (IV secolo a.C.). In essa sono espresse alcune chiavi iniziatiche d’accesso alla simbologia del Dio Horus, che indirettamente danno luce al simbolo della Fenice inquadrandolo nella sua valenza cosmologica:

- La protezione di Horus è colui che è nel suo disco ( Ra), che illumina la terra con i suoi Due Occhi.

- La protezione di Horus è il Leone della Notte che viaggia nella Montagna di Manu (l’Occidente)

- La protezione di Horus è la Grande Anima Nascosta che circola nei suoi Due Occhi.

- La protezione di Horus è il Grande Falco che attraversa volando il Cielo ,la Terra, l’Aldilà.

- La protezione di Horus è lo Scarabeo Sacro, il Grande Disco Alato che è nel Cielo.

- La protezione di Horus è l’Aldilà, il paese dove i visi sono rivolti indietro, dove le cose sono invisibili.

- La protezione di Horus è la Divina Fenice che risiede nei suoi Due Occhi.

Nella Stele di Metternich il segreto di queste attribuzioni si fa infatti esplicito: una “Grande Anima Nascosta” si sottende e circola all’interno dei periodi luni-solari rappresentati dai “Due Occhi di Horus”. Essa, attraverso la palingenesi delle forze celesti nel periplo retrogrado, si manifesta prima come “Falco”, poi come “Scarabeo”, infine si codifica come “Divina Fenice”, che “risiede” nei Due Occhi di Horus.Il lascito di questa tradizione simbolica è attestato da Orapollo, che così si esprime: “La Fenice è simbolo del Sole e nulla nell’universo è più grande di esso; il Sole infatti sovrasta e scruta ogni cosa ed è per questo che viene chiamato dai molti occhi” di Horus".Da qui l’Occhio della Fenice inteso come illuminazione consapevole di Osiride che rinascendo incarna il rinnovamento dei cicli celesti. Parimenti Orapollo attesta: “Gli Egiziani quando vogliono simboleggiare il grande rinnovamento ciclico degli astri, raffigurano un Bennu” (I geroglifici II, 57), l’uccello dalle brillanti piume rosse, sacro ad Heliopolis, identificato con l’Airone, per il suo becco lungo e diritto e la testa adorna di due piume, che i Greci più tardi chiamarono Fenice.Grande uccello purpureo - Fenice in greco significa appunto rosso- con le sembianze a metà fra un’aquila e un airone. di grande fascino, messaggera della luce e incarnazione di divinità immortali. Il suo colore e le sue modalità ne fanno un’immagine solare per eccellenza, associata com’è al rosso e al fuoco. Era considerata levarsi con l’aurora sulle acque del Nilo, come un Sole. Come il Sole quindi si levava e come il Sole si spengeva nelle tenebre della notte per rinascere dalle sue stesse ceneri. Lo avevano perfettamente compreso i Faraoni della XVIII dinastia Amenophis III e IV - il famoso Akhenaton, che valorizzarono il culto del Dio Unico Solare - Lunare al contempo, identificandolo con il Dio Atun, che prese il posto del Dio Amon-Ra , che, grazie alla casta sacerdotale tebana, aveva progressivamente preso il sopravvento sulle molteplici divinità del composito Pantheon egizio. A differenza delle altre divinità egizie Aton non è rappresentato in forma antropomorfa, ma sempre come un Sole i cui raggi sono braccia terminanti con mani, alcune delle quali reggono l’Anck , il simbolo della vita Il monoteismo del culto di Aton, racchiudeva comunque in sé, senza rinnegarlo, il complesso politeismo egizio in cui ogni città era legata a diverse divinità e, spesso, la divinità della città che prendeva il sopravvento diventava la divinità principale (almeno fino a quando quella città continuava a detenere il potere). Quando la città di Heliopoli ebbe il sopravvento religioso su Menfi Horo fu assimilato a Ra e il Sole venne associato all'occhio di quest'ultimo, lasciando ad altra divinità l'occhio lunare, divinità, che alcuni egittologi ritengono sia Thot divinità egizia della Luna, della sapienza, della scrittura, della magia.Al Duplice Occhio di Horus è connessa una numerazione e una simbologia iniziatica.
In base alle antiche tecniche di misurazioni egiziane, il disegno dell’occhio è composto da differenti frazioni ognuna con un suo significato:

- ½ rappresenta l’odore ( forma di naso al lato dell'occhio)

- ¼ rappresenta la vista e la luce (pupilla)

- 1/8 rappresenta il pensiero(sopracciglio)

- 1/16 rappresenta l’udito (freccia sul lato dell’occhio che punta verso l’orecchio)

- 1/32 rappresenta il gusto, il germogliare del frumento (coda curva)

- 1/64 rappresenta il tatto (piede che tocca terra) .

Il racconto egizio riferisce che un allievo scriba della Casa della Vita, facendo notare al suo maestro che il totale delle frazioni ottenute sommando i valori dell’Occhio di Horus si dava nell’espressione 1/2 + 1/4 + 1/8 + 1/16 + 1/32 +1/64 = 63/64 ebbe per risposta che il sessantaquattresimo mancante a completare l’unità sarebbe stato donato dal dio Thoth allo scriba che si fosse messo sotto la sua protezione. Thot le sue qualità di mago le dimostrò allontanando da Horus il veleno letale di Seth,riuscendo a farsi restituire dal Dio del male - l’occhio sinistro - di Horus strappatogli in combattimento ed ad inserirlo nuovamente nell’orbita vuota. Questa leggenda nasconde il segreto del cammino iniziatico, che Akhenaton ebbe l'ardire di "svelare" e i Suoi successori di "ri-velare", come attestano "le immagini criptate" del cammino seguito dalla Regina Nefartari, la moglie del Faraone Ramsete II, cammino inciso sui quattro pilastri, posti ai quattro lati del suo sepolcro.Ma che rapporto simbolico c'è tra l'occhio destro e quello sinistro?
OCCHIO SINISTRO - L’occhio cieco di Horus - DIO Uomo- Uomo DIO Ma cosa vediamo nel complesso degli occhi di Horus ed in particolare nell’Occhio sinistro ? Vediamo che il Suo Occhio destro, il sano, l’Occhio divino, resta suo, mentre l'altro, quello sinistro 'imperfetto, è destinato all'uomo. Occhio che, nella leggenda, Horus perde nello scontro con Seth, il Dio del male, che vive ed opera sulla terra, avendo usurpato il potere al suo legittimo Re - Osiride, ucciso e tagliato in 14 pezzi. Occhio Sinistro, che Horus, nel corso del suo passaggio terreno, deve assolutamente trovare e reimpiantare nel bulbo oculare vuoto. Infatti nel Libro dei Morti, cap.LXVI si legge: “ Io sono Horus, il figlio primogenito di Osiride, che dimora nel mio occhio destro. Giungo dal cielo e rimetto Maat ( la Dea della verità e della giustizia) nell’occhio di Ra (il Dio Sole)”,che, per gli egiziani, è appunto "il sinistro".
La riconquista della vista dell’occhio sinistro può avvenire quindi solo se l’uomo o la donna, nel loro cammino terreno, hanno praticato le 42 prescrizioni indicate dalla Dea Maat e valutate, nella cerimonia di pesatura del cuore, dal Dio Thot, che assume una veste altrettanto importante durante l’esperienza che ogni individuo compie nel Suo tragitto terreno, soprattutto quando decide di intraprendere un cammino iniziatico teso alla conquista della Vera Vista:
- apertura del Terzo occhio secondo lo schema scelto nel mondo orientale.- apertura dell’occhio sinistro secondo l’insegnamento misterico egizio, che rappresentava questo stato psicofisico con il simbolo dell'occhio destro, da cui sgorga l'energia del serpente, rappresentato da un cobra femmina, che è la manifestazione della dea che personifica l'occhio ardente di Ra - l'ureo -. L’ureo, posto sul copricapo dei Faraoni da solo o più spesso insieme ad un avvoltoio, ovvero un grifone, rapprentava, agli occhi dei sudditi,il simbolo vivente del potere divino dei Faraoni e indicava appunto il possesso della Terza Vista. Il cobra, la cui coda forma il simbolo dell'infinito, ripetuto per tre o più volte,si solleva verso il cielo oltre l’infinito. Posto sulla fronte del Faraone mostra che si è svegliato dal letargo terreno per raggiungere il mondo ultraterreno. L'ureo, posto non a caso sul copricapo della regina Nefertiti, moglie del Faraone Amenophi IV detto Akenathon, voleva indicare che anche Lei possedeva questo potere. Questo occhio appare disegnato anche sul braccio della Regina Nefartari, su uno dei quattro piloni della stanza dove era stato posto il suo sarcofago funerario, con un chiaro signicato misterico e segreto del tutto incomprensibile anche ai più esperti eggittologi.Si tratta infatti dell’occhio sinistro in comune tra Horus e l'Uomo, occhio che è stato reso cieco alla visione del mondo degli Dei e che solo con l’aiuto di un Dio, appunto Thot, potrà tornare a “vedere” “simile ad un falco d’oro dalla testa di Fenice - Dio Uomo- Uomo DIO -
E’ infatti in questa differenza di comportamento in vita che si rivela la natura dell'annunciata magia di Thot, il Sacro Ibis dalle piume purpuree, come quelle dell’Airone che aiuta l’iniziando a compiere “il miracolo” di riuscire nuovamente a vedere durante l’esistenza terrena con ambedue gli occhi il mondo terreno e quello celeste, in modo da superare brillantemente e senza difficoltà la prova della pesatura del cuore e spiccare il volo – nuovamente -verso il cielo”

Alla ricerca dell'elefante Bianco


3 dicembre 2011

- A proposito, ricordiamoci che dobbiamo morire



Cosa c’è di più spaventoso della morte? Cosa succederebbe, se s’immaginasse realmente l’orrore della propria morte? Potete immaginare il vostro spavento? È impossibile, lo ripeto, immaginare la propria morte, anche se lo si vuole, ma è possibile immaginare quella degli altri. Oltre a quella paura della morte, c’è un gran numero di paure di realtà di cui la gente non prende coscienza e che non può vedere. Se le persone ne prendessero coscienza, se le vedessero, tutti sarebbero pieni d’orrore. Ma nessuno lo vede. Perché?
Forse la nostra volontà ci difende dal vedere degli orrori? Ma allora, perché non ci difende dalle nostre piccole paure?
Immaginate di rientrare a casa; vi svestite, vi coricate nel letto. Qualcosa esce da sotto il cuscino e va a nascondersi tra le coperte. Alzate le coperte alzando le ginocchia e vedete che si tratta di un topo. Immaginando questa scena rabbrividite. Ma è solo un piccolo topo domestico! Uno degli animali più inoffensivi! Non sentite la paura per la vostra morte inevitabile e temete il topo, temete le mille piccole cose che possono capitarvi. Quelle paure per le quali non ci si ammazza, la natura le ammette come cose inoffensive per la vostra vita, poiché sono necessarie alla produzione delle emozioni, delle gioie e dei dolori, che formano la vostra vita. Da lì viene un gran numero di guai, di amarezze, di sforzi, una quantità d’amor proprio e di vanità, che obbligano un essere umano ad agire, ad andare fino in fondo; il disincantamento e l’incantamento. È questo che tesse la vita. La stessa cosa produce il sogno, l’illusione, il fenomeno immaginario e la stessa cosa risveglia i diversi desideri nell’uomo.
L’uomo è continuamente riempito da queste cose. Esse gli danno delle pulsioni e riempiono la sua vita in modo che non abbia il tempo di vivere la realtà. Molto spesso i suoi scopi sono impossibili, inaccessibili, ma l’essere umano non lo vede e fa continuamente degli sforzi. Quando un gruppo di problemi è passato, ne subentra un altro. La macchina umana deve funzionare senza fermarsi. Ma se si sente che tra un mese si morirà, e ci si pensa! Proprio tra un mese! Cosa resterà allora di ciò che costituisce la nostra giornata? Tutto ciò che si possiede perde il suo senso e tutto ciò che si fa non serve a niente. E il giornale col caffè al mattino, e i saluti gentili del vicino sulla scala, e il lavoro, e gli oggetti, e il teatro alla sera, e il riposo e il sonno, per cosa tutto questo? E anche se la morte non deve arrivare che tra un anno o due? In ogni caso, queste cose non avranno più il senso che si è sempre dato loro. Allora nasce una domanda: se è così, perché vivere?
È lì la risposta: non perché la tua vita ti appartiene, ma perché qualcuno ha bisogno della tua vita: chi la ama teneramente, chi se ne preoccupa perché sia almeno sopportabile.
Noi curiamo la vita dei nostri montoni e dei nostri maiali. Facendo così agiamo per il loro interesse? No, offriamo loro una vita felice e confortevole perché, una volta abbattuti, ci diano della buona carne bella grassa. Nello stesso modo probabilmente, qualcuno ha bisogno che si viva, che non si vedano cose orribili e che non ci si impicchi, ma anzi che si viva a lungo perché chi ha bisogno di noi ci sgozzi molto dolcemente.
Non vedere, non sentire la realtà così com’è, questa è la forma principale della nostra schiavitù. Subiamo molti tipi di schiavitù, ma questo è il primo e il più importante.
È la legge della natura. Sono i grandi che hanno bisogno dell’esistenza dell’umanità e di tutto ciò che è vivente. Esiste nella vita uno scopo importante che giustifica la sua ragione d’essere. Noi dobbiamo servire come schiavi, è il nostro destino.
Ma nello stesso tempo la natura ha permesso, ha previsto una possibilità per noi, ma non per tutti, di abolire questa schiavitù. Questa abolizione è la prima liberazione.
Se non si muore, non si risuscita”. Non si dice della morte corporea, da quella morte non c’è bisogno di resuscitare. Se l’anima esiste e se è immortale, allora può accadere che resusciti da questo corpo, la cui perdita si chiama morte. La resurrezione è indispensabile, ma non perché ci dobbiamo presentare a Dio per il Giudizio Universale, come ci insegnano i moderni Padri della Chiesa. Perfino Gesù Cristo e tutti gli altri parlano della morte che può avvenire durante la vita. Si tratta della morte del tiranno che ci ha portato alla schiavitù, della morte da cui dipende la prima e principale liberazione dell’uomo.
Ciò che sto per dire può sembrare, a prima vista, il delirio di un pazzo; e può rimanerlo per alcuni. Ma lo dirò. E tuttavia, secondo le mie convinzioni, considero un grande peccato parlarne. Se avessi commesso peccati, allora il mio maggior peccato sarebbe quello che ora sto per dire.
Tutte le guerre, tutte le discordie, tutti i malintesi, le disgrazie e i tormenti che sembrano orribili, una volta passati, si rivelano, come possiamo vedere, non valere un soldo bucato. Nel senso che, a partire da una mosca se ne è fatto un elefante e che poi da un elefante si è rifatta una mosca.
Il motivo di tutto questo è sempre la capacità umana di riflettere la realtà al contrario. Durante questo genere d’avvenimenti, tutti sono schiavi, tutti si trovano in un’ipnosi generale. Dov’è la dignità che si attribuisce all’uomo? Dov’è l’uomo col suo libero arbitrio? E’ stato così in tutti i tempi e sarà sempre così per le masse, perché se non ci fossero schiavi, non ci sarebbero Signori e non ci sarebbe vita. E nello stesso tempo per le persone isolate, la possibilità di sbarazzarsi di quell’ipnosi di massa esiste.
Le persone sono incoscienti di quell’ipnosi di massa a tal punto chi se ne è più o meno liberato è un essere inferiore.
Così, ciò che è considerato coraggio in guerra, in realtà non è che l’espressione di quell’ipnosi. Nazioni intere considerano altre nazioni vili; è così che i russi considerano gli ebrei. Ma il tamburo giudaico che, secondo l’immaginazione dei russi, si nasconde nel fossato durante la battaglia, è in realtà un uomo più normale e più libero di loro. Lui ha qualcosa di personale, mentre gli altri non hanno niente di proprio; non gli resta che l’ipnosi di massa. Lui è schiavo delle proprie particolarità, mentre loro sono doppiamente schiavi. Se si sottraessero all’uomo tutte le illusioni, cioè tutto ciò che gli impedisce di vedere la realtà com’è, tutti gli interessi, le emozioni, le attese e le speranze, scomparirebbero tutte le sue aspirazioni e tutto diventerebbe deserto; gli impulsi psichici si fermerebbero e non resterebbe che un essere vuoto, un corpo vuoto, che vive come una unità fisiologica. Quella è la morte del me e di tutto quello che ne faceva parte, l’annientamento di tutto ciò che è falso, ammassato per ignoranza e inesperienza. Tutto questo resterebbe in lui come materiale, ma non come lui stesso.
Allora è possibile, se restano ancora delle forze, cominciare a radunare nuovi materiali, ma questa volta secondo una scelta. In questo caso, l’essere umano prende lui stesso delle cose, non più come prima, quando si depositava in lui ciò che si voleva.
È difficile. Del resto, questa parola non è appropriata. E nemmeno la parola impossibile perché, come principio, è possibile. Ma è mille volte più difficile che diventare miliardario partendo dal niente e con il proprio lavoro.
G. I. Gurdjieff