30 aprile 2011

- Opus Minimum





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26 aprile 2011

- L’ARMONIA NASCOSTA



Ormai agli atti gl’influssi teosofici su Mondrian e Kandisky, "rosacrociani" su Yves Klein, dell’antroposofia su Beuys, per fare alcuni esempî, non è più questione di dimostrare che segmenti dell’arte di questo secolo si sono intrecciati con l’esoterismo o lo siano tuttora. L’ubriacatura alchemica degli ultimi lustri basterebbe ad attestare come le opere, le dichiarazioni di poetica, le interpretazioni critiche abbiano sovente e volentieri attinto al mare magnum delle dottrine ‘segrete’. Sicché ricerche inedite costituirebbero ulteriori esempî e aumenterebbero la casistica senza tuttavia affrontare ciò che è da ritenere la questione nodale. Che non sta nel documentare la quantità d’influenze esoteriche nell’arte visiva ma, semmai, nell’individuare la natura e la qualità di tali rapporti, nello stabilire o quanto meno indicare se si tratta di una duratura, connaturata e non strumentale relazione o di convergenze temporanee tra idiomi autonomi, dovute magari a influenze epocali ed esterne. Credo che la proposta di valutare la qualità dei rapporti tra arte ed esoterismo apra nuovi territori d’indagine. In primo luogo, se e quale valore euristico scaturisca: se ne vengano nuovi risultati, se la conoscenza si amplî. In secondo luogo, se l’iconologia, che è inevitabilmente la metodologia critica più utilizzata, sia l’ermeneutica più appropriata. Voglio dire che lo sguardo iconologico, teso alla ricerca del significato occulto nell’immagine, ovvero alla ricerca di un eventuale codice esoterico nell’arte, può comportare che si ponga in secondo piano, si trascuri o si dimentichi la questione dell’esoterismo dell’arte, cioè il significato intrinseco della forma. Individuare natura e qualità dei rapporti tra arti visive e codici esoterici implica, secondo i limiti metodologici dell’iconologia fissati da Gombrich, la restrizione del campo ai casi in cui l’uso del codice sia intenzionale. È evidente, infatti, che una interpretazione "esoterica" dei fenomeni artistici e dei fenomeni in genere è sempre possibile. Anche dei coniglietti di Jeff Koons.
Ma allora, implicito e frainteso il motto di Goethe "tutto l’effimero non è che un simbolo", l’universo intero si offre alla medesima lettura confusa et distributiva, sottraendoci a priori la possibilità di qualunque caratterizzazione. Che è quanto invece ci interessa. Già più pertinente sarebbe applicarla ai coniglietti di Vettor Pisani, ma il problema si sposterebbe di poco: la pertinenza, nell’esaminare la qualità, cioè il valore euristico, è condizione necessaria ma non sufficiente, come vedremo in seguito. Si consideri come caso il noto autoritratto di De Chirico. La figura di Hermes alle sue spalle autorizza una lettura iconologica secondo un codice esoterico? Ovvero: posto che il messaggero degli dei sia inequivocabile sineddoche dell’ermetismo, per fare un esempio, è possibile essere certi che la sua immagine implichi necessariamente la conoscenza del sistema linguistico e magari anche la pratica di questo filone esoterico, trascurando per ora il valore euristico, se cioè l’opera veicoli o amplî o trasmetta conoscenza "ermetica"?
L’uso di un vocabolo non implica necessariamente la conoscenza del vocabolario da cui è tratto e nemmeno della sintassi che lo organizza. Un bimbo, esclamando ‘papà’, non intende manifestare conoscenza dei rapporti parentali e sociali. La parte non è il tutto: Melotti invitava a diffidare "di chi, gettando un pugno di sabbia sul tavolo, ti dice: «È il deserto»". E nel caso Hermes venga interpretato non come vocabolo ma come tutto, cioè come il sistema stesso, si tornerebbe di fatto ad un’interpretazione confusa et distributiva.
La figura di Hermes, quindi, non appare sufficiente a garantire che l’uso del codice ermetico sia intenzionale. Come posso essere certo che non si tratti solo di una citazione, o di una rapina? E qualora una serie di testi di De Chirico corroborasse l’ipotesi, e dimostrasse la conoscenza sintattica del codice, resterebbe comunque dubbio se l’opera trasmetta il messaggio esoterico a un destinatario o viceversa lo divulghi, rendendolo "essoterico". Se il messaggio non ha, non può o non vuole avere destinatarî, è ininfluente che vi appaia il messaggero: uno dei caratteri precipui dell’esoterismo è nel sistema di trasmissione. E l’esoterismo, in quanto linguaggio, è in primo luogo comunicazione, è trasmissione. Vi sarebbero inoltre i problemi interni all’interpretazione: la posizione di Hermes dà adito a diverse letture. Ispira il pittore ritratto che diviene suo protetto e strumento, o viceversa il pittore gli volge le spalle, intenzionalmente o per caso? E se considero invece De Chirico come colui che sta dinanzi al suo ritratto, e quindi può vedere Hermes, non dovrò concluderne che invece è il dio strumento del pittore, come veicolo di messaggi o principe delle rapine o simbolo della Grecia o altro ancora?
Prendiamo un altro caso. Tempo fa Vettor Pisani ha esposto a New York un frigo aperto con una bottiglia di J & B nel freezer. L’etichetta con l’acrostico dei produttori Justerini & Brooks probabilmente rinvia alle due colonne contrassegnate una dalla J, l’altra dalla B, che marcano l’ingresso del tempio massonico a memoria di quello salomonico, dove due colonne bronzee chiamate Jachin (stabilità) e Boaz (forza) s’ergevano davanti al vestibolo. Anche la bottiglia, come stylos cilindrico, rinvia alla colonna e all’immagine femminile (una coniglietta?) posta nello scomparto per le bottiglie. In questo caso l’interpretazione secondo il codice massonico è legittima e pertinente anzi, quasi obbligatoria poiché più volte l’artista, esplicitamente e ostentatamente utilizzandolo, l’ha caldeggiata. Direi persino desiderata. Ora, a parte le possibili connotazioni ironiche (l’esoterismo massonico è freddo o addirittura surgelato? O si scalda vigorosamente e "spiritualmente" dinanzi alla possibilità della conjunctio?), risulta evidente che chi conosce il codice e il significato potrà decrittare l’opera, e chi l’ignora no. Chi sa si potrà interrogare se Justerini & Brooks e Vettor Pisani hanno scelto intenzionalmente l’acrostico, ma non accrescerà il proprio sapere. Chi lo ignora non potrà nemmeno congetturare le connotazioni ironiche. Il valore euristico dell’operazione è pressoché nullo, mentre l’esoterismo si prefigge di accrescere e qualificare la conoscenza. Ciò significa che un artista, usando un codice esoterico, non necessariamente condivide le finalità che il codice si prefigge o addirittura le può rovesciare. In questo caso è difficile essere certi che la relazione non sia strumentale; non si può nascondere il sospetto che l’uso possa scaturire da motivazioni essoteriche: suggerire all’osservatore che conosce il codice di far parte di una sorta di élite. Nella quale, ovviamente, figura l’artista. Sui rischi e le difficoltà d’interpretazione, sia pure solo nei casi d’uso intenzionale d’un codice esoterico, gli esempî si potrebbero moltiplicare. Ma credo che questi siano sufficienti a proporre di distinguere l’esoterismo come philosophía, ovvero come possibilità interpretativa o introduzione di significati in un sistema formale qual è l’opera dall’esoterismo come sophía, che si ponga come principio ordinatore di un sistema conoscitivo quale può essere l’opera. La distinzione, per altro, rinvia alle origini storiche del termine. Esoterico’, infatti, viene impiegato da Aristotele per indicare i testi ‘interni’ alla sua scuola. Curiosamente, sono gli unici testi dello Stagirita che conosciamo. I testi ‘essoterici’, o ‘esterni’, sono stati divorati dal tempo. In questo caso la "parola perduta" è essoterica. Nel pensiero aristotelico la sophía è conoscenza di cause e principî primi. Con esoterismo, per evitare l’indeterminatezza concettuale che deriva dall’utilizzarlo per qualsiasi dottrina segreta, conviene indicare una dottrina ’interna’ a un sistema conoscitivo di cui costituisce evidentemente il nucleo e che può essere, in rapporto al sistema, di volta in volta o anche simultaneamente la premessa sottaciuta o l’approdo finale da raggiungere per gradi ma non solamente una lettura in profondità, una philosophía. In altri termini, con una metafora architettonica, l’esoterismo corrisponderebbe al principio organizzatore del progetto, non più visibile nell’edificio ultimato, o al sancta sanctorum, fisicamente esistente ma non accessibile ai profani. Aristotele stesso definisce "architettonica" la sophía che organizza le altre in vista di un fine. Quale fine dunque si pongono arte ed esoterismo, qual è la loro sophía architettonica?
Realizzare l’opera: questo il loro fine comune. La stessa arte regale è così detta in quanto realizza chi la pratica. La traiettoria della vita, non più parabola cieca, ma ordita e composta mediante l’individuo, diviene opus. E ciò spiega la singolare tangenza tra alchimia e arte di questo secolo. Qualora si sposti l’attenzione dall’oggetto artistico al gesto che lo genera o lo si sostituisca con il comportamento o l’intenzione dell’operatore, com’è avvenuto nel Novecento e ancor più dal secondo dopoguerra, gesto, comportamento o intenzione verranno comunque proposti e interpretati come opere. L’intento implicito o esplicito dell’operatore è di affermare la propria vita come opera, di sostituirla all’opera oggetto, che diviene solo un mezzo, o una traccia del processo. O svanisce, definitivamente. Ma in questo caso l’arte abdica alla propria regalità, o se si preferisce alla propria sophía poietica, cioè fattrice: il suo fine è sempre e comunque l’opera oggetto da realizzare. Duchamp non si è definito "anartista" per vezzo o provocazione, ma nella profonda coscienza che l’arte è fare e comporta una metamorfosi sostanziale della materia, come sottolinea nel ’57 ne Il processo creativo: "con il cambiamento della materia inerte in opera d’arte una vera transustanziazione ha luogo". Ma l’uomo moderno, constatava Eliade proprio in quegli anni, è incapace di sperimentare il sacro nelle sue relazioni con la materia, se non nella sfera onirica o estetica. L’esoterismo, in realtà, può limitarsi alla speculazione o all’azione, ovvero alla sua sophía etica, alla sua disciplina del comportamento: nel fare ha semmai un mezzo, non un fine. L’episodio di Parmigianino che rinuncia alla pittura per l’alchimia, e ne muore, ci ricorda che l’esoterismo può fare a meno dell’arte, cioè della poietica. E questo sebbene l’alchimia, proprio e in quanto codice esoterico operativo e non solamente activo, sia particolarmente prossima all’arte. Un ulteriore segnale di rinuncia alla regalità poietica si può cogliere nel vocabolario critico. Il termine ‘operatore’, che ha invaso i testi critici, indica infatti chi agisce, non chi fa perciò sono costretto a usarlo. ‘Autore’, ovvero ‘colui che fa accrescere’, è viceversa scomparso dal lessico di questi anni. In altre parole: se il fine può apparire per alcuni aspetti comune, l’esoterismo si propone tuttavia il perfezionamento etico dell’individuo, la sua realizzazione, e dunque la sfera dell’agire come proprio campo elettivo, mentre l’arte si propone la realizzazione dell’oggetto e il fare che esso comporta. Su questo equivoco si è sviluppato il paradosso di un’arte contemporanea indifferente alla propria finalità e quanto mai restia a riconoscere che l’opera supera l’operaio od operatore. Nella durata, in primo luogo, e nella proliferazione di senso. Una volta compiuta, l’opera manifesta la sua indiscutibile ‘autonomia’. Quindi ‘realizzare l’opera’ nel codice esoterico ha accezione metaforica e significato cosmogonico: "porta oltre". Nell’arte va intesa anzitutto alla lettera. A ciò è connesso che la conoscenza nell’esoterismo costituisce il fine; nell’arte, invece, il principio. Pertanto, se il sistema conoscitivo è uno e comune, ne risulta che l’arte s’avvia dove l’esoterismo giunge al termine, come in una staffetta. Qual è dunque il punto in cui l’esoterismo consegna all’arte il "testimone"?
L’esoterismo scaturisce dalla dialettica tra l’attività simbolica della psyché umana e le intimazioni culturali e sociali delle epoche. Ma l’attività simbolica, di per sé, non è esoterica. Infatti è connaturata in tutti gli uomini; l’esoterismo no. Nemmeno un sistema simbolico, cioè un percorso conoscitivo fondato sull’intellezione, l’intuizione e l’esperienza, è di per sé esoterico. Può essere il frutto straordinario dell’elaborazione d’un singolo: per certi versi il caso di Blake. L’esoterismo s’avvale d’uno o più sistemi simbolici, ma la sua caratteristica è d’organizzarli e soprattutto trasmetterli entro un codice linguistico che viene quindi conosciuto e condiviso da più individui. L’iniziazione, comune a moltissimi se non a tutti i sistemi esoterici, costituisce il modo rituale per creare la condivisione del codice: per trasmetterlo. In mancanza d’iniziazione la condivisione si raggiunge per mezzo di pratiche attive od operative. L’esoterismo traduce il mondo in cifra. Lo rende cifrato. Come il linguaggio. Ma mentre il linguaggio ordinario è logico, posizionale e differenziale, l’esoterismo è linguaggio immaginativo, basato sull’analogia e l’anagogia. Le immagini non sono illustrazione del linguaggio esoterico, sono il linguaggio stesso, mediante le quali si attua ciò che potrebbe essere chiamato trasferimento perpetuo: la cosa, pur restando se stessa, trasformata in immagine, diviene continuamente altro. O, ancor meglio, catalizza simpateticamente le proprietà d’altri oggetti immagine. Perciò il linguaggio esoterico è apparentemente ambiguo e interiormente sintetico: sul profilo semantico, esso procede per concentrazione, e non per astrazione concettuale. Attraverso l’immagine, l’esoterismo compie la reductio ad Unum dell’universo. In questo compimento, dinanzi all’arrheton, l’indicibile, l’esoterismo approda al silenzio. Ma l’immagine catalizzatrice e traboccante di senso, che l’esoterismo infine sacrifica dinanzi all’arrheton, all’indicibile, è precisamente il testimone che consegna all’arte.
Le immagini non sono opere di per sé. Possono però divenirlo. In questa metamorfosi, in questa transustanziazione, si sprigiona l’esoterismo dell’arte, in ciò che un tempo si chiamava mestiere, ovvero il mistero del farsi cosa dell’immagine, il mistero del farsi cosa del possibile.
Maurizio Nicosia

18 aprile 2011

- IL MITO DELLA CAVERNA


Platone dice poi di voler descrivere la nostra situazione di uomini,di come siamo e di come il nostro destino può cambiare. Si serve qui del celeberrimo mito della caverna,forse il più famoso mito platonico,dove emerge tutta la sua filosofia: Descrive una caverna profonda stretta ed in pendenza,simile ad un vicolo cieco. Sul fondo ci sono gli uomini,che sono nati e hanno sempre vissuto lì; essi sono seduti ed incatenati, rivolti verso la parete della caverna: non possono liberarsi nè uscire nè vedere quel che succede all'esterno. Fuori dalla caverna vi è un mondo normalissimo: piante,alberi,laghi,il sole,le stelle... Però prima di tutto questo, proprio all'entrata della caverna, c'è un muro dietro il quale ci sono persone che portano oggetti sulla testa: da dietro il muro spuntano solo gli oggetti che trasportano e non le persone: è un pò come il teatro dei burattini, come afferma Platone stesso. Poi c'è un gran fuoco, che fornisce un'illuminazione differente rispetto a quella del sole. Questa è l'immagine di cui si serve Platone per descrivere la nostra situazione e per comprendere occorre osservare una proporzione di tipo A : B = B : C La caverna sta al mondo esterno (i fiori, gli alberi...) così come nella realtà il mondo esterno sta al mondo delle idee: nell'immagine il mondo esterno rappresenta però quello ideale tant'è che le cose riflesse nel lago rappresentano i numeri e non le immagini empiriche riflesse. Si vuole illustrare la differenza di vita nel mondo sensibile rispetto a quella nel mondo intellegibile. Noi siamo come questi uomini nella caverna, costretti a fissare lo sguardo sul fondo, che svolge la funzioni di schermo: su di esso si proiettano le immagini degli oggetti portati dietro il muro. La luce del fuoco, meno potente di quella solare, illumina e proietta questo mondo semi-vero. Gli uomini della caverna scambieranno le ombre proiettate sul fondo per verità, così come le voci degli uomini dietro il muro: in realtà è solo l'eco delle voci reali. Gli uomini della caverna avranno un sapere basato su immagini e passeranno il tempo a misurarsi a chi è più bravo nel cogliere le ombre riflesse, nell'indovinare quale sarà la sequenza: è l'unica forma di sapere a loro disposizione ed il più bravo sarà colui il quale riuscirà a riconoscere tutte le ombre. Supponiamo che uno degli uomini incatenati riesca a liberarsi: subito si volterebbe e comincerebbe a vedere fuori gli oggetti portati da dietro il muro non più riflessi sul fondo della caverna. Poi comincerà ad uscire ma sarà piuttosto riluttante perchè infastidito dalla luce alla quale era desueto: quando finalmente uscirà si sentirà completamente smarrito e disorientato. Comincerà a guardare indirettamente la luce solare: ad esempio la osserverà riflessa su uno specchio d'acqua. Man mano che la vista si abitua guarda gli oggetti veri: gli alberi, i fiori... In un secondo tempo le stelle e poi riuscirà perfino a vedere il sole. Chiaramente vi sono chiare allusioni a varie dottrine platoniche: evidente risulta l'allusione ai 5 livelli di conoscenza; le immagini proiettate sul fondo della caverna sono l'eikasia la capacità di cogliere le realtà empiriche riflesse,grazie al fuoco che rende visibili questi oggetti "artificiali". Gli oggetti artificiali che portano dietro il muro sono la pistis, il mondo sensibile vero e proprio. Curioso è che l'atto di voltarsi da parte degli uomini nella caverna venga espresso con la parola "convertirsi": è l'atto fondamentale per il cambiamento della propria prospettiva esistenziale. Le cose dietro il muro riflesse nello specchio d'acqua rappresentano la dianoia, gli enti matematici; gli alberi ed i fiori sono invece le idee vere e proprie, la noesis. Il sole, invece, è il bene in sè. Le stelle sono le idee più elevate (i numeri ideali...). L'uomo che è fuggito dalla caverna e ha visto tutto si trova in una situazione piuttosto ambigua: da un lato vorrebbe rimanere all'aperto, dall'altro sente il bisogno di far uscire anche i suoi amici incatenati; alla fine decide di calarsi nella caverna e quando arriva in fondo non vede più niente, è come se accecato. Sostiene di essere tornato per condurli in un'altra realtà, ma essi lo deridono perchè non riesce più neppure a vedere le ombre riflesse sul fondo. Lui però continua a parlar loro del mondo esterno ma i suoi "amici" lo deridono e si arrabbiano e lo picchiano perfino. In realtà Platone vuole qui descrivere la storia di Socrate, un uomo che ha visto realtà superiori e ha cercato di farle conoscere agli altri che non hanno però accettato. Per quel che riguarda il fatto che l'uomo tornato nella caverna non riesca più a cogliere le realtà sensibili, possiamo portare ad esempio la vicenda del filosofo Talete, che guardando le stelle cadeva nei pozzi e veniva deriso per il fatto che voleva vedere le stelle lui che non vedeva neppure cosa c'era per terra. La liberazione dalle catene avviene (come la reminescenza) o per caso o grazie all'intervento di qualcuno. Comunque il mito rievoca pure il compito dei governanti, che una volta raggiunto il sapere devono per forza tornare nel mondo sensibile per governare La fuoriuscita dalla caverna può anche essere metafora del lungo percorso educativo dei filosofi-re. Si può quindi definire correttamente il mito della caverna come una sorta di riassunto della filosofia platonica. Diego Fusaro

14 aprile 2011

- Isaac Newton

Chi era veramente sir Isaac Newton? Molti di noi conservano l’immagine che di lui ci hanno consegnato gli studi liceali, quella del ricercatore razionale, arido e un po’ misantropo, il fondatore del modello di scienziato modernamente inteso, tutto formule matematiche ed esperimenti rigorosi. Altri lo ricordano sotto la sbrigativa formula dell’Hypothesis non fingo, che immortalava la sua propensione alla pura descrizione dei fenomeni che osservava e la sua presunta diffidenza verso ogni commistione della scienza con la cultura generale, con la filosofia o, peggio, con la religione. E se invece fosse stato, come dicono alcuni, un profondo conoscitore di culture iniziatiche, un esperto di segreti alchemici? E se fossero vere le voci che lo volevano di volta in volta socio della misteriosa Society of Gentlemen of Spalding, i cui membri includevano molti massoni, massone egli stesso, Rosa+Croce o, per i più fantasiosi, Gran Maestro di quell’improbabile Priorato di Sion? E come potrebbero conciliarsi in una stessa persona il volto del grande iniziato con quello del grande scienziato razionale? Ma stiamo ai documenti. Che il professor Newton fosse un avido divoratore di testi alchemici e iniziatici è un fatto: lesse l’antologia sugli alchimisti inglesi, scritta dal suo amico Elias Ashmole, studiò i testi rosacruciani di Michael Meier e quelli dell’alchimista francese Pierre Jean Fabre. Ma soprattutto fu membro e, per lungo tempo, presidente della prestigiosa Royal Society di Londra, un’associazione culturale che raccoglieva il fior fiore del mondo scientifico inglese e che fu la culla delle più avanzate ricerche scientifiche. Della Royal Society fecero parte molti eminenti massoni inglesi dell’epoca, come Cristopher Wren e Jean Théophile Desaguliers, entrambi succedutisi alla Gran Maestranza della Gran Loggia d’Inghilterra. Non c’è dunque da stupirsi se una Loggia prevalentemente composta da membri della Royal Society si riuniva a Londra in un locale di proprietà della stessa Società scientifica. La Gran Loggia d’Inghilterra, d’altra parte, ricambiava le attenzioni degli eminenti uomini di scienza e, spesso, i membri della Royal Society erano invitati dalle Logge a tenere conferenze presso di loro, molte delle quali accompagnate da dimostrazioni scientifiche. Non dimentichiamoci che quelli erano tempi assai difficili per gli uomini di scienza e, come ci raccontano le cronache dell’epoca, dai pulpiti dei predicatori e dalle pagine dei giornali si tuonava spesso contro i membri della Royal Society, la folla nelle strade li dileggiava, persino Oxford e Cambridge consideravano le loro teorie troppo avanzate e spesso non osavano ospitare i loro corsi. I rapporti tra Newton e Desagulier, poi, furono assai stretti: i due non erano solo intimi amici, ma il Gran Maestro divenne ben presto il principale divulgatore delle scoperte scientifiche del Professore Desaguliers era talmente entusiasta del pensiero dell’amico che, in un suo poemetto allegorico presentò il sistema newtoniano come un modello di governo ideale.
Newton era massone? Evidentemente, nulla di tutto questo prova inconfutabilmente l’appartenenza di Newton alla Massoneria. Queste notizie sono, tutt’al più, elementi indiretti a sostegno di tale ipotesi. Tuttavia altre notizie ci sono arrivate in tempi molto più recenti e dalla fonte più inaspettata: una cassa di documenti che l’insigne economista inglese John Maynard Keynes acquistò da Sotheby’s nel 1936. Dentro quella cassa egli trovò una raccolta di carte segrete, scritte di pugno da sir Isaac, tenute accuratamente nascoste per secoli ai rigori della censura religiosa e di quella, ancor peggiore, della scienza ortodossa. Questa preziosa raccolta era stata rifiutata qualche anno prima dall’Università di Cambridge perché ritenuta di nessun valore scientifico.
Dalle carte autografe del professore, che contenevano oltre un milione di parole sull’alchimia, emerge tutta la sua passione per la cultura alchemica, come del resto per lo studio della Bibbia. Grazie a questi documenti, oggi sappiamo con certezza che le ricerche di Newton nel campo dell’alchimia esercitarono un influsso fondamentale sulle sue scoperte scientifiche con cui egli cambiò il mondo. Come nella migliore tradizione alchemica, i suoi studi iniziatici e scientifici furono indistricabilmente legati. Del resto, un discorso identico può essere fatto anche per Boyle, che praticava l’alchimia tanto quanto la chimica e si servì di molti aspetti della prima per far progredire le frontiere teoriche della seconda. La cosmogonia alchemica rappresentò per Newton una potente fonte di ispirazione: è dalla configurazione del Tempio di Salomone che egli sviluppò le leggi di gravitazione (e non perché gli cadde una mela sul naso...). Newton descrive il centro del Tempio come un focolare per offrire sacrifici, perpetuamente acceso e attorno al quale i credenti si riuniscono. L’immagine di un focolare al centro e dei discepoli disposti attorno fu quella su cui si basò per sviluppare il concetto di gravitazione universale. Anche la teoria dell’attrazione a distanza nacque da ispirazioni alchemiche: per formularla, probabilmente egli mutuò il concetto di “spirito” che, secondo la dottrina degli alchimisti, è principio di attrazione. Newton annota la seguente frase tratta da Sendivogius: ”…il mercurio attrae i semi di antimonio e il magnete attrae la siderite. E la “nostra acqua” viene attratta dal piombo per forza della siderite che si trova nel ventre di Ares (il ferro)”. Ed è dall’etica alchemica che Newton attinge quella dedizione e quel rigore morale che hanno caratterizzato la sua personalità: “Io tengo l’argomento costantemente di fronte a me finché, a poco a poco, le vaghe luci dell’alba lentamente si aprono nel pieno chiarore del giorno”. La prisca sapientia Newton è anche un profondo conoscitore della scuola pitagorica e, nei suoi Principia mathematica, compie un esplicito tentativo di riscoprire l’aspetto esoterico della cosmologia pitagorica, nascosto sotto i “discorsi volgari” della musica delle sfere. In realtà, il grande philosophus naturae, come egli stesso si definiva, riteneva che la conoscenza fondamentale del mondo, la cosiddetta prisca sapientia, fosse già stata rivelata da Dio ai primi uomini e incisa su due colonne, riscoperte dopo il diluvio universale da Pitagora ed Ermete Trismegisto, che ne inglobarono la verità nelle proprie filosofie esoteriche. Trovo molto interessante l’accostamento che Newton compie tra Pitagora, Ermete e le colonne della sapienza: può essere stato solo il frutto di qualche amabile chiacchierata con l’amico Desaguliers? Sono illuminanti, per la comprensione della reale personalità di Newton, le parole che pronuncia Keynes nel 1942, in occasione di una conferenza al Royal Society Club: “Nel diciottesimo secolo, e poi da allora in avanti, Newton prese ad essere considerato come il primo e il più grande degli scienziati dell’età moderna: un razionalista, uno che ci insegnò a pensare seguendo i principi del ragionamento freddo e imparziale. Io non lo vedo in questa luce. Credo che nessuno di coloro che hanno meditato sui materiali contenuti in quella cassa, da lui stesso riempita quando lasciò Cambridge nel 1696 – materiali che, sebbene in parte dispersi, sono giunti fino a noi – possa considerarlo in quel modo. Newton non fu il primo scienziato dell’età della ragione. Piuttosto fu l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei babilonesi e dei sumeri, l’ultima grande mente soffermatasi sul mondo del pensiero e del visibile con gli stessi occhi di coloro che cominciarono a costruire il nostro patrimonio intellettuale poco meno di diecimila anni fa.” In realtà, Newton e altri grandi della scienza animano un momento storico che credo vada analizzato attentamente per comprendere quanto sia stato importante l’influsso dell’alchimia e, più in generale, delle dottrine esoteriche nella nascita della scienza moderna, la fase a cavallo fra il XVI e il XVII secolo. Questa epoca rappresenta una sorta di cerniera fra il vecchio e il nuovo, poiché in essa hanno operato uomini impregnati di una cultura scientifica proveniente dal medio evo e da prima ancora. Questi stessi uomini hanno fondato la scienza moderna e hanno aperto la porta alla prima grande irruzione del nuovo pensiero scientifico nella storia del mondo occidentale: la rivoluzione industriale. E’ questa l’epoca in cui Galileo inizia a tradurre i fenomeni scientifici in linguaggio matematico, quello che lui chiama “la lingua di Dio” e, riprendendo l’insegnamento di Leonardo, comincia a rivolgere precise domande alla natura usando gli esperimenti. E’ l’epoca in cui Francis Bacon rifonda il ragionamento induttivo aristotelico ripulendolo dalla sua impostazione dogmatica.
E’ l’epoca in cui Newton e Boyle unificano in sé le idee di Galileo e Bacone e fondano la scienza moderna. Dirà Newton di sé: “Se io ho visto più lontano è perché mi sono levato sulle spalle di Giganti”. In quest’epoca, l’influsso delle correnti iniziatiche e, in molti casi, della cultura massonica, ha esercitato un ruolo fondamentale nello sviluppo del pensiero scientifico, che non può essere ignorato ma che è ora di iniziare a studiare con grande attenzione.
Paolo Maggi

10 aprile 2011

- Opus Minimum -


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3 aprile 2011

- La tradizione laica nell’unità d’Italia

Nel 150° anniversario dell’unità d’Italia vorrei richiamare l’attenzione sul significato e la rilevanza della tradizione laica nel processo unitario culminato con Roma capitale il 20 settembre 1870. Per tradizione laica intendo l’ispirazione ideale e politica fondata: a) sulla separazione tra Stato e Chiesa, b) sulla libertà di culto, c) sulla neutralità dello Stato e, d) sull’eguaglianza tra credenti e non credenti. Questa tradizione unitaria comprende - in correnti diverse, contrastanti e tuttavia convergenti nel processo nazionale - i principali movimenti risorgimentali facenti capo, per la Destra, a Camillo Benso conte di Cavour fino a Benedetto Croce, e, per la Sinistra, a Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi fino a Ernesto Nathan e Gaetano Salvemini. Entrambe queste tradizioni laiche non sono appendici del Risorgimento, bensì l’essenza stessa del processo unitario, nella conquista dell’indipendenza nazionale e delle libertà costituzionali. E’ necessario aggiungere che lo spirito laico nel processo unitario ha rappresentato il segno qualificante del rientro dell’Italia nel circuito dell’Occidente umanista, illuminista, liberale e, per alcuni aspetti, democratico. E’ grazie al liberalismo e al laicismo che l’Italia, già patria dell’Umanesimo e del Rinascimento, torna ad essere parte della moderna Europa civilizzata. E’ significativo che uno storico di vaglia come Adolfo Omodeo abbia scritto in una delle sue pagine sul Risorgimento: “E’ gloria d’Italia ciò che ha concorso a formarla, ed è elemento essenziale della sua esistenza. Ora, a creare questa nostra Italia, il cattolicesimo fu d’ostacolo: gli elementi cattolici, che vi parteciparono, furono per lo più imbevuti di semi-giansenismo e di giobertismo della cui perfetta ortodossia è lecito dubitare”. E’ del resto vero che il carattere intrinseco del laicismo all’unità d’Italia riguarda entrambi i principali movimenti risorgimentali: quello liberale nelle sue diverse tendenze, la moderata, la riformatrice e la cattolica, che ebbe come punto di riferimento il Cavour: e quello democratico che nasce con Cattaneo e Mazzini e giunge ai repubblicani, ai radicali ed ai primi socialisti. La Destra storica Gran parte dei maggiori provvedimenti d’ispirazione laica, che segnarono il processo unitario italiano fino alla presa di Roma e alla svolta della sinistra del 1876, non furono dovuti alla Sinistra e ai democratici di tendenza anticlericale, bensì ai maggiori esponenti della Destra storica liberale, molto spesso d’origine cattolica. E’ opportuno richiamarne le tappe più significative: - 1848: negli Stati sardi è proclamata l’emancipazione dei valdesi e degli ebrei all’insegna del principio che “tutti i cittadini hanno eguali diritti civili e politici”; - 1849: l’Assemblea costituente della Repubblica romana dichiara decaduto il potere temporale; - 1850: negli Stati sardi la legge Siccardi abolisce il privilegio del foro ecclesiastico, le immunità ecclesiastiche e il diritto di asilo. Il governo piemontese fa arrestare gli arcivescovi di Torino e Sassari. A Torino si erige un obelisco con la scritta “la legge è uguale per tutti”; - 1855: le leggi sulla soppressione delle corporazioni religiose e di alcuni enti minori del clero secolare sono estese alle regioni annesse (Parma, Modena, Romagne, Due Sicilie, Umbria, Marche e province napoletane); - 1861: Cavour dichiara “Senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire”; - 1864: soppressione dei canoni e delle decime ecclesiastiche nel periodo in cui Pio IX emana Il Sillabo contro tutte le libertà moderne; - 1866: nell’Italia centrale sono soppressi gli enti ecclesiastici; con l’entrata in vigore del nuovo codice viene reso obbligatorio il matrimonio civile ed abolita l’esenzione militare per i chierici; - 1867: liquidazione dell’asse ecclesiastico in tutto il Regno; - 1870: alla lettera del Re che chiede di acquisire pacificamente Roma come capitale d’Italia, Pio IX risponde “Vi assicuro che in Roma non entrerete”. La mano dura dei liberali Nel movimento unitario nazionale, la Destra storica, all’origine dei provvedimenti laici, non esitò ad usare il pugno di ferro contro i clericali che si opponevano al Risorgimento sotto le bandiere ecclesiastiche. Ecco alcuni episodi significativi. Nel Meridione, pochi mesi dopo i Mille, il governo piemontese fronteggiò la reazione della Sede apostolica con una politica di intransigenza che ancora stupisce: furono processati e arrestati sessantasei vescovi e otto cardinali (Corsi, Baluffi, De Angelis, Carafa, Riano-Sforza, Antonucci, Morichini, e il futuro Leone XIII, Pecci). A Firenze nel 1860 sul “Monitore toscano” di Bettino Ricasoli si leggeva: “I vescovi hanno scelto una mala via che è tanto contraria alla loro missione evangelica quanto nuocevole agli interessi della religione… Il governo sa che deve tutelare la dignità, la sicurezza, la tranquillità dello Stato anche contro i ministri di Dio, se i ministri di Dio diventano soldati del Papa re”. A Napoli, allorché Pasquale Stanislao Mancini assunse la direzione del dicastero degli affari ecclesiastici, furono emanati una serie di decreti che vietavano ai religiosi di comunicare con i loro superiori e i capitoli generali con sede a Roma; abolivano gli ordini religiosi; incameravano i beni ecclesiastici; abrogavano il Concordato del 1818 tra il regno di Napoli e la Santa Sede; ed escludevano ogni ingerenza clericale nelle pie fondazioni laicali. A Palermo il generale Raffaele Cadorna, nominato commissario con pieni poteri per il ristabilimento dell’ordine, il 24 settembre 1866 sottolineava nella prima relazione al presidente del Consiglio che l’opposizione dei religiosi era determinata dall’estensione alla Sicilia della legislazione per la soppressione dei privilegi ecclesiastici: “… Devo dichiarare che da parte dei frati e delle monache, s’influì grandemente a promuovere i lamentati torbidi. Risulta che il loro danaro fu la principale risorsa per organizzare e mantenere le bande armate, per apprestar loro armi e munizioni. Parecchi frati hanno preso parte ai combattimenti in mezzo alle squadre dei rivoltosi” . Diritti individuali e separazione tra Stato e Chiesa I liberali della Destra storica avevano una visione laica del processo unitario ispirata, pur con molteplici sfumature, alla filosofia separatista riassunta nella formula Libera Chiesa in libero Stato. Nel 1859 il conte di Cavour scriveva al Villamarina: “Malgrado la migliore volontà è impossibile intendersi con Roma… Roma ce l’ha con le nostre libertà, con la nostra indipendenza, molto più che con le leggi che tendono a introdurre da noi, in una misura moderata, quel che esiste da oltre mezzo secolo in tutti gli altri stati cattolici…”. Due anni più tardi, nel maggio 1861, Cavour affermava ancora alla Camera: “La storia di tutti i secoli, come di tutte le contrade, ci dimostra che ovunque la riunione tra potere civile e potere religioso ebbe luogo, la civiltà sempre cessò di progredire, anzi sempre indietreggiò; il più schifoso dispotismo si stabilì, e ciò, o signori, sia che una casta sacerdotale usurpasse il potere temporale, sia che un califfo o sultano unisse nelle sue mani il potere spirituale”. I maggiori protagonisti della politica laica furono, dunque, tutti esponenti della Destra storica che ricoprirono le massime responsabilità governative: Massimo D’Azeglio (presidente del consiglio nel 1849-1852), Luigi Carlo Farini (presidente del consiglio nel 1862), Bettino Ricasoli (presidente del consiglio nel 1861 e 1866), Emilio Visconti Venosta ( a più riprese ministro degli esteri) e Ruggero Bonghi (ministro dell’istruzione nel 1874-76) che riteneva possibile una riforma nella Chiesa. Per Quintino Sella (più volte ministro delle finanze del Regno) la formula cavourriana “Libera Chiesa in Libero Stato” rappresentava “garanzia della libertà di pensiero e di coscienza sia per i corpi costituiti che per gli individui”; per Marco Minghetti (presidente del consiglio nel 1863 e nel 1873) “lo Stato non è ateo né laico, è incompetente in materia religiosa e la Chiesa è un’associazione libera per cui i suoi diritti non sono privilegi”; e Giovanni Lanza (presidente del consiglio nel 1869) così inquadrò la legislazione scolastica: “Con decreti reali e regolamenti si impose l’obbligo dell’esame a tutti gli insegnanti perché aveva trovato in esso “il puntello di ogni dispotismo, di ogni vizio, di ogni corruzione… Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino, e potrei trovare al prete una serie di altri infami corollari…”. Quando, a fine Ottocento, le organizzazioni clericali divengono più aggressive alla ricerca di una energica rivincita su Porta Pia mentre si profila l’ingresso dei cattolici sulla scena politica, l’azione della Sinistra e dei democratici risultò determinante per la difesa del carattere laico dell’Italia unita che nei decenni precedenti era stato garantito dalla politica della Destra storica. Nel 1879, alla costituzione della Lega della democrazia, il vecchio Garibaldi si scagliò contro la legge sulle Guarentigie (approvata dal parlamento italiano nel 1871 per garantire unilateralmente le libertà al Papa e al Vaticano) che giudicava un infame compromesso con i clericali: “Il nostro programma è volere soppresse le guarentigie, tolto il culto ufficiale, e indivisa la sovranità dello Stato… arati e bonificati i due quinti del territorio italiano incolto e paludoso, fecondandolo con i 115 milioni dei beni ecclesiastici invenduti; utilizzati a pro’ dei poveri i 1500 milioni di opere pie, in gran parte godute dagli amministratori dai frati e dalle oblate…”. In questo ambito fu particolarmente significativa la manifestazione anticlericale organizzata nel 1889 a Roma per l’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno, voluto dalla massoneria e realizzato da quell’Ettore Ferrari che alla Camera, insieme ai radicali di Felice Cavallotti, si batteva contro il progressivo e larvato ricostituirsi delle proprietà ecclesiastiche, e contro il revanscismo dei clericali per delegittimare l’unità d’Italia. Giovanni Bovio, pronunziandosi contro i tentativi di riavvicinamento con il Vaticano, dichiarava: “In un altro modo s’ha da fare la conciliazione. Il prete si ha da conciliar meglio con la religione; noi dobbiamo conciliarci meglio con il nostro diritto pubblico, troncato e deviato nella sua evoluzione … conciliarci anche noi con la religione di un grande pensiero, col quale si parla da Roma, col quale si risponde al Vaticano, e senza del quale non è necessario e neppure tollerabile che l’Italia ci sia”. Fu a cavallo dei due secoli che le correnti della democrazia radicale e repubblicana tennero viva la tradizione laica, con notevoli punte di anticlericalismo che spesso non giovò alla causa in quanto offrì armi pretestuose alla reazione clericale. Anche i cattolici del variegato movimento modernista (Ernesto Bonaiuti, Tommaso Gallarati Scotti, Alessandro Casati, Stefano Jacini, Antonio Fogazzaro) condannato nel 1907 da Papa Pio X, ebbero un ruolo collaterale alla tradizione laica, se pure in maniera separata e talvolta avversata da liberali e socialisti come Croce, Filippo Turati ed Emilio Treves, tanto che uno dei loro esponenti, don Romolo Murri, animatore del movimento della democrazia cristiana osteggiato e scomunicato dalle autorità ecclesiastiche, nel 1909 fu eletto in Parlamento con l’etichetta radicale. Ernesto Nathan La personalità che tra Ottocento e Novecento espresse compiutamente la tradizione laica risorgimentale non solo in senso politico-ideale ma anche nell’impegno per la trasformazione sociale in senso democratico fu Ernesto Nathan. Nato a Londra nel 1845, ebreo, mazziniano, radicale, irredentista, gran maestro della massoneria nel 1896-1904 e nel 1917-1919, divenne nel 1906 sindaco di Roma alla testa del blocco popolare formato dai laici e dalla sinistra (repubblicani, radicali, liberali riformatori e socialisti), governando la città in maniera esemplare fino al Patto Gentiloni stipulato per le elezioni del 1913 sotto l’occhio accondiscendente di Giovanni Giolitti per ottenere i voti cattolici sui candidati liberali. Nathan, per fede ideale, per formazione politica e per ambiente familiare, fu in qualche modo l’anello di congiunzione tra la tradizione risorgimentale di Cattaneo e Mazzini e i democratico-laici del Novecento che ebbero come ispiratori il liberaldemocratico Giovanni Amendola, il socialista riformista Giacomo Matteotti e, soprattutto, i liberal-socialisti Carlo e Nello Rosselli. E’ significativo della tempra morale che negli ultimi anni di vita (morì nel 1921) l’ex sindaco di Roma continuò l’impegno civile militante come interventista democratico nella Grande Guerra. Il 20 settembre 1910, nell’anniversario di Porta Pia, Nathan argomentò apertamente “la superiorità della civiltà della Roma laica di contro l’altra Roma, quella racchiusa in Vaticano, fortilizio del dogma, ultimo disperato sforzo per eternare il regno dell’ignoranza … Sulle vecchie mura del dogma si è accumulato l’intonaco di quella infallibilità pontificia che, ereditata dalla tradizione, passata nei costumi, si manifesta purtroppo oggi nell’ignoranza popolare che dinanzi all’apparizione di una epidemia, appende voti alla Madonna e scanna i sanitari; quell’infallibilità che incita il pontefice a boicottare le legittime aspirazioni umane, le ricerche della civiltà, le manifestazioni del pensiero, lo muove ad architettare nuovi scuri per escludere la luce del giorno…Nella Roma di un tempo non bastavano mai le chiese per pregare, mentre invano si chiedevano le scuole; oggi le chiese sovrabbondano, esuberano; le scuole non bastano mai! Ecco il significato della breccia di Porta Pia…”. E quando il Vaticano protestò, Nathan replicò: “Non sono io a fondere insieme dogma, rito e religione in guisa da negare la consolazione della fede …; non io a creare l’ignoranza che abbandonandosi alla superstizione brutalmente respinge il sapere; non io a mancare di rispetto alle altrui credenze, ne tampoco venir meno ai riguardi dovuti al pontefice… No, come il sommo pontefice dall’alto della cattedra di S. Pietro ha il dovere di dire la verità quale a lui appare ai credenti, così il minuscolo sindaco di Roma dinanzi alla breccia di Porta Pia, per lui iniziatrice di una nuova auspicata era politica e civile, ha uguale dovere innanzi alla cittadinanza”. La massoneria collante laico Nel cinquantennio che segue Roma capitale d’Italia, la massoneria costituì uno dei più significativi collanti della sinistra democratica formata da radicali, repubblicani e socialisti, in difesa della laicità dello Stato. Scrive Adolfo Omodeo: “Il periodo di splendore della massoneria [che] cade negli ultimi decenni del secolo XIX… accoglie promiscuamente uomini eterogenei: De Meis, Bertrando Spaventa, De Sanctis, Villari, Crispi, Cavallotti, Depretis, Carducci, Fiorentino, ecc.; e non lo si può negare, si tratta degli uomini più significativi di quell’età”. Il ruolo della massoneria nel Risorgimento, tuttavia, è oggetto di divergenti pareri dei difformi orientamenti storici. L’archivista Alessandro Luzio pubblicò nel 1925 due ponderosi volumi di documenti in cui , poi ripreso anche da Gioacchino Volpe. Il grande storico liberale, Adolfo Omodeo, fornisce una interpretazione molto più articolata nei suoi scritti in difesa del Risorgimento: “Ciò che non ci dà il Luzio… è una spiegazione della tenace vitalità della setta, e del come in essa potessero adagiarsi spiriti superiori, quali furono indubbiamente molti massoni dal 1860 al 1900… Alla massoneria si può rimproverare non l’anticlericalismo, che fu una necessaria difesa dell’Italia risorta, ma d’averlo abbassato, specialmente negli anni avanti la guerra (mondiale), a un livello triviale, che doveva inevitabilmente provocare una reazione. Malgrado questi rapporti di forza sfavorevoli, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, i laici riuscirono a portare felicemente a termine una serie di provvedimenti modernizzanti sui diritti civili - divorzio, aborto, diritto di famiglia - fino alla crisi che avrebbe dovuto innescare la cosiddetta “seconda Repubblica”, peraltro mai nata, che ha ribaltato una volta di più gli equilibri a favore del clericalismo politico. Ernesto Rossi (1897-1967), antifascista, anticomunista e anticlericale, il XX settembre 1959 tenne a Firenze un discorso per l’anniversario di Porta Pia: “Noi non sentiamo oggi alcun bisogno di un riconoscimento ufficiale del 20 settembre…[che] è un giorno nostro: non è il giorno dei clericali e dei fascisti. Il giorno loro è l’11 febbraio, quando l’Uomo della Provvidenza, che - secondo quanto disse Pio XI – ‘non aveva le preoccupazioni della scuola liberale’, firmò quel concordato che lo stesso pontefice riconobbe ‘sarebbe stata follia sperare’ dai precedenti governi. E non siamo disposti a mettere un bel pietrone sul passato, sul nostro Risorgimento… Come potrebbero Cavour, Mazzini, Garibaldi e tutti gli altri patrioti che per l’unità italiana combatterono, soffrirono le persecuzioni poliziesche, il carcere, l’esilio, sacrificarono la vita; come potrebbero i compagni che abbiamo lasciato nelle trincee sull’Isonzo e sul Piave, nell’ultima guerra combattuta per i medesimi ideali del Risorgimento; come potrebbero Matteotti, Pilati, Amendola, Rosselli… e tutti gli altri martiri della lotta antifascista; come potrebbero tutti gli altri amici morti per la libertà nella guerra di Spagna e nella guerra partigiana, riconoscere la loro Italia in quest’Italia papalina?” Ignazio Silone (1900-1978), socialista, cristiano e laico, scrisse nel 1958 a proposito della Democrazia cristiana: “L’unità politica dei cattolici, malgrado la sua formulazione pseudo universale e le sanzioni religiose su cui si appoggia, si rivela un espediente ad uso e consumo degli italiani. Sarebbe poco male se i cattolici nel nostro paese fossero una minoranza trascurabile: ma sottoporre a regime speciale il partito di maggioranza equivale a mantenervi l’intera vita pubblica e privata degli italiani”. Guido Calogero (1904-1986), filosofo del dialogo, radicale, nel 1959 affermò nei Principi del laicismo: “Quanto veramente ci preme non è lo Stato piuttosto che la Chiesa, né la Chiesa piuttosto che lo Stato, bensì una certa libertà tanto dell’una quanto dell’altro, e anzi, più esattamente, una certa libertà tanto dei fedeli dell’uno quanto dei cittadini dell’altro. Se tale libertà è minacciata, se la prepotenza di alcuni invade indebitamente la sfera di autonomia di altri, noi sentiamo il dovere di difendere quella minacciata libertà, a chiunque essa appartenga, laico o ecclesiastico che egli sia”. Mario Pannunzio (1910-1968), intellettuale liberaldemocratico, nel marzo 1966 scrisse nell’ultimo numero de “Il Mondo”, il settimanale da lui fondato e diretto dal 1949: “Abbiamo sempre sostenuto il dovere delle minoranze. Dei partiti, dei gruppi e degli individui di rompere questo clima, di opporsi, di criticare, di protestare, di lavorare assieme. Perfino un partito politico, il Partito radicale fu fondato su questo impegno. Per anni abbiamo sollecitato socialisti e repubblicani, liberali autentici e indipendenti, a costruire alleanze democratiche, fronti laici, terze forse; abbiamo denunciato l’invadenza clericale, il sottogoverno delle maggioranze, i connubi tra mondo politico e mondo economico. Abbiamo deplorato con ostinazione la chiusura irrimediabile del mondo comunista alle sollecitazioni della libertà. Tante volte in questi lunghi anni, quando le cose sembravano più buie e aggrovigliate, ci siamo domandati: come mai correnti d’ispirazione liberale e democratica, fedeli a una tradizione di pensiero di grande nobiltà, che trae le sue origini dal sorgere dell’Italia moderna e che ha avuto maestri come Cavour, Mazzini, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, hanno trovato e trovano così poca udienza nel nostro paese e insieme una così unanime agguerrita ostilità da renderle simili a pattuglie isolate di frontiera, quasi separate dal tessuto vitale della nazione?… L’intellettuale, per noi, è una figura intera. L’uomo politico, se non vuole essere un puro faccendiere, è anch’esso un intellettuale che vive pubblicamente e che fa con naturalezza la sua parte nella società”. Massimo Teodori