29 settembre 2011

- Bruno filosofo ermetico




Per collocare Giordano Bruno nella storia dell’ermetismo e della magia rinascimentale occorre riferirsi in primo luogo alle sue opere mnemoniche, il De umbris idearum, il Cantus Circaeus e il Sigillo dei Sigilli che contengono i suoi primi scritti sulla memoria. Quest’arte classica, considerata per lo piu mnemotecnica, ha avuto una lunga storia nel corso del Medio Evo. Nel rinascimento si rivifica tra neoplatonici ed ermetici come metodo per imprimere nella memoria immagini fondamentali ed archetipe presupponendo lo stesso ordine cosmico e consentendo cosi’ anche una profonda conoscenza dell’universo. Le ‘’ombre delle idee ’’ di Bruno sono immagini magiche, immagini archetipe celesti, che sono più vicine alle idee della mente divina di quanto non siano le cose inferiori; e non e’ da escludere che lo stesso Ficino, nel suo frequente uso della parola ‘’ombre’’, abbia voluto anch’egli intenderla in questa accezione. Chi era in possesso di un tale sistema si innalzava al di sopra del tempo e rifletteva nella propria mente l’intero universo della natura e dell’uomo come riflesso gnostico dell’universo nella mente. Imprimendo nella memoria immagini celesti, immagini archetipe del cielo che sono ombre vicine alla idea della mente divina dalla quale dipendono tutte le cose inferiori e imprimendo nella fantasia figure zodiacali ‘’si può ottenere il possesso di un’arte figurativa che assiste meravigliosamente, non solo la memoria, ma tutti i poteri dell’anima’’. Il sistema bruniano della memoria è perciò rappresentativo della memoria di un mago, che conosce la realtà oltre la molteplicità delle apparenze, avendo conformato la propria immaginazione ad immagini archetipe, e che, grazie alla sua penetrazione nella realtà, ha conseguito anche poteri operativi. L’operazione di Bruno appare assai semplice. Egli ha ricondotto la magia rinascimentale alle sue fonti pagane, abbandonando i tentativi del Ficino di elaborare una magia innocua dissimulandone la fonte principale, l’Asclepius, e schernendo violentemente gli ermetici religiosi che hanno creduto di fondare un ermetismo cristiano facendo a meno dell’Asclepius, e proclamandosi un Egiziano convinto che ha deplorato la distruzione fatta dai cristiani del culto degli dei naturali della Grecia e della religione attraverso cui gli egiziani avevano raggiunto le idee divine, il sole intelligibile, l’Uno del neoplatonismo; ed ha auspicato il ritorno della religione magica egizia e le loro leggi morali che sostituiranno il caos. Al contempo si rese conto che tali operazioni non potevano essere ne' comprese, ne' attuate da tutti, ma che era necessaria una selezione degli animi ed un graduale avvicinamento sia ai temi specifici che all'operatività che ne conseguiva. Lo disse e scrisse chiaramente sia nel preambolo della sua prima opera mnemonica, il “De Umbris Idearum”che inizia con l'incipit:
Ombra profonda siamo, e voi non tormentateci, o inetti : un’opera tanto importante non si rivolge a voi, ma ai dotti.
Sia poi nel discorso introduttivo di Hermes che, come manifesto programmatico dell'Arte della memoria dice:
Quest'arte non serve soltanto ad acquisire una semplice tecnica mnemonica, ma avvia e introduce anche alla scoperta di numerose facoltà. Di conseguenza, coloro ai quali sarà concesso di apprendere i più profondi principi dell’Arte, conformemente alla sua maestà, ricordino: di non divulgarla senza distinzione a chiunque, senza una selezione, ed elargiscano i suoi canoni esplicitamente ai singoli, in modo più intenso o più dilazionato a seconda dei meriti e delle facoltà ricettive di coloro ai quali deve essere comunicata. Inoltre, sappiano coloro cui è giunta questa arte: il nostro ingegno non è tale né da essere legato a una determinata corrente di filosofia altrui né da disprezzare universalmente qualunque altro indirizzo filosofico. Davvero non c'è nessuno che non teniamo in gran conto tra coloro che si sono appoggiati al proprio ingegno per giungere alla contemplazione delle cose e che hanno costruito qualcosa con arte e metodo. Non trascuriamo i misteri dei Pitagorici, né sminuiamo la fede dei Platonici e non disprezziamo neppure i ragionamenti dei Peripatetici, quando si fondano su una premessa reale.

L'operazione iniziatica appare chiara: un percorso non per tutti, ma accessibile a tutti. Una iniziazione progressiva dove conformemente a stati interiori di consapevolezza e di percezione, corrispondono capacità ricettive di insegnamenti arcaici, sempre più vicini alla Sorgente iniziale di gnosi.
“Quando l'orecchio del discepolo è pronto a ricevere la parole, giungono le labbra del Maestro a pronunciarle”
Con la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492 e con la rivoluzione
copernicana del 1530, il mondo occidentale si trovò a fare i conti con una nuova realtà. Erano crollati muri e barriere che si credevano invalicabili e definiti per sempre; tutto tornò in discussione, il predominio del papato subiva la riforma luterana dopo quella anglicana, il mondo diventava più ampio e si preparava una nuova era, quella della modernità. Bruno comprese ed accettò il sistema copernicano, ma alzò la testa verso le stelle, verso l'universo infinito e nella “Cena de le Ceneri” portò la sua critica a Copernico. La Cena de le Ceneri è il primo dei sei dialoghi italiani seguito dal “De la causa, principio et uno” e il “De l’infinito universo et mondi”, come primo trittico sul concetto di infinito universo e lo “Spaccio de la bestia trionfante”, la “Cabala del cavallo pegaseo” e “De gli eroici furori” per indicarne la riforma etico, morale e sociale che tale percezione comporta passando attraverso la tecnica cabalistica come chiave di lettura dell’intellegibile, per la liberazione dell’animo umano nei furori. Bruno li scrisse e pubblicò tutti a Londra, nell’arco di due soli anni dal 1584 al 1585, e in italiano, come il precedente “Il Candelaio”, commedia anch’essa in volgare per rivolgersi ad un pubblico più vasto e lanciando semi da fare attecchire e germogliare negli animi più predisposti, capaci poi di seguirlo nelle opere latine dove affina e da metodologie operative al suo pensiero. Ne ”La cena delle ceneri”, Bruno getta le basi della sua “nova filosofia”e racconta di come si scontrò coi dottori di Oxonia per la sua critica all’eppur nuova e straordinaria teoria copernicana. Ma la sua non era critica, era solo un completarla, intuiva l’Universo infinito senza centro…. o con infiniti centri. Copernico s’era limitato a sostituire il geocentrismo con l’eliocentrismo, aveva intuito, ma non fino in fondo, aveva calcolato, ma nei limiti dei calcoli, non aveva immaginato equazioni più profonde. Bruno intuì l’universo, infinito, senza limiti e con innumerevoli mondi: da questa intuizione inizia il suo percorso, come nuova condizione umana ad una nuova concezione del mondo. Il presupposto fondamentale di tutta la filosofia bruniana è che: una volta ammesso che Dio è infinito, e questo lo ammettevano anche prima di Bruno, e una volta ammesso, soprattutto con Bruno e proprio nella Cena, che anche la natura è infinita, due infiniti non possono concettualmente coesistere rimanendo separati e distinti, ma due infiniti non sono che un medesimo infinito. E il sapiente, il filosofo, il mago, colui che cerca, cerca la natura, ma nel cercare nella natura, cerca anche Dio, Dio che è fatto natura. (Emblema Atalanta Fugiens) Bruno parla di “profonda magia”, cioè di quella magia che è un sapere tanto forte da essere in grado di penetrare nelle segrete singolarità della realtà naturale e nella Cena delle ceneri fa precisazioni importanti, ispirato da un punto di vista speculativo dal pensiero di Plotino, in termini di filosofia religiosa, il problema del rapporto tra Dio e Natura: Dio è trascendente, rispetto alla natura, che agostinianamente ha creato rimanendo al di la di essa, oppure: Dio è immanente nella natura, cioè è l’attività produttrice che è come il motore interno della natura, ma non se ne distacca. E nella Cena delle Ceneri, per trovare una via d’uscita dallo scontro con la filosofia trascendentistica dominante, Bruno adopera l’idea plotiniana del duplice atto. Infatti parla delle due Sofie: una, la sapienza di Dio, trascendente, e la sapienza, viceversa terrena, immanente nella natura; e dice che all’uomo è dato di conseguire soltanto la seconda, la sofia terrena, in cui la verità è immanentizzata nella natura; quell’altra Bruno non la nega ma riconosce che è preclusa alla capacità dell’uomo. Ma in quella che Bruno chiama sofia terrena, cioè la conoscenza della natura, è una conoscenza in cui, che cosa si conosce? Che cos’è che costituisce il vero e proprio contenuto di questo conoscere? La verità è l’idea, ma l’idea noi non la vediamo e tocchiamo; piuttosto noi vediamo e tocchiamo le cose sensibili che sono, platonicamente “ombre delle idee”, come Bruno titola appunto la prima delle sue opere. Ad una nuova visione del cosmo deve necessariamente corrispondere una nuova visione dell’uomo. Con queste parole poste all’inizio della cena delle ceneri, Bruno annuncia la nuova era, che apre lui stesso, lui che
“ha disciolto l'animo umano e la cognizione,
e……. ch'ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre, che vi s'avesser potuto aggiungere, sfere, per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari; cossì al cospetto d'ogni senso e ragione, co' la chiave di solertissima inquisizione aperti que' chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi e ……. Far quel progresso col spirto che non può far l’ignobile e dissolubile composto, “
ignobile e dissolubile composto che è il corpo umano appesantito dalla materia. Bruno s’erge come uomo cerniera fra il vecchio e nuovo mondo che s’apriva col ‘600, ultimo della tradizione rinascimentale che con immagine plotiniana, traboccava, aprendo la via al secolo dei lumi. La sua nuova visione dell’universo dentro il quale l’uomo si inserisce e si ritaglia un proprio spazio, fatto a misura di ciò che realmente è, per quello che vale e per come può incidere nella realtà che lo circonda, che è a sua perfetta somiglianza: ciò che è percepisce, come se si specchiasse in se stesso. Vedeva il rapporto uomo – natura come immagine riflessa da uno specchio: quello che esiste oltre lo specchio non è altro che ciò che gli mostra. La natura si riflette in noi come noi in lei, in una vicissitudine dove l’uomo diviene sempre centro di quell’universo che da lui si propaga. Dal macro al micro cosmo, l’uomo si pone quindi in modo nuovo, come uno degli infiniti punti e quindi sempre centro per suo volere, potere ed azione: “Se l’universo è infinito, ogni punto è centro dell’universo” La dimensione della visione del reale si sposta quindi dall’orizzontale al verticale. Posto che la percezione sensoriale non rappresenta che uno degli infiniti modi con cui si può percepire la realtà e posto che il nostro “punto di osservazione” dipende esclusivamente da come siamo “NOI” e da come osserviamo il mondo e che da questo punto d’osservazione noi agiamo, interveniamo sul divenire, interagiamo con esso, con l’intensità della nostra energia data dal modo e dal mondo in cui viviamo e da cui percepiamo la realtà, quel che di essa assorbiamo e di cui ci alimentiamo, e come con essa interagiamo. Passare dall’orizzontale al verticale, significa quindi “porsi” ad un determinato livello o piano geografico, geometrico o geodetico di vibrazione, assorbendo l’energia che poi il reale ci restituisce.
“La costruzione d’una natura padroneggiabile dalla mente perché la mente possa ricevere
a sua volta ritmo e proporzione dalla natura”
Con la sua sfolgorante visione, Bruno apre le porte al mondo moderno, mondo della ragione, della scienza, della ricerca e della conoscenza che vede nell’uomo non tanto il centro dell’universo come scopo del creato per intervento divino, ma la centralità dell’uomo nell’universo, come una delle tante manifestazioni della natura, capace di percorrere la strada che lo porta sempre più ad una dimensione finanche “divina” del tutto. Proprio come Pico aveva magnificamente espresso sul finire del XV° sec.
" Non ti diedi, Adamo, una stabile dimora, ne un’immagine propria, né alcuna peculiare
prerogativa, perché tu devi avere e possedere secondo il tuo voto e la tua volontà, quella dimora, quell’immagine, quella prerogativa che avrai scelto sicuramente. Una volta definita la natura alle restanti cose, sarà pure contenuta entro prescritte leggi. Ma tu senz'essere costretto da nessuna limitazione, potrai determinarla da te medesimo, secondo quell'arbitrio che ho posto nelle tue mani. Ti ho collocato al centro del mondo perché potessi così contemplare più comodamente tutto quanto è nel mondo. Non ti ho fatto del tutto né celeste né terreno, né mortale, né immortale perché tu possa plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore. Potrai degenerare sino alle cose inferiori, i bruti, e potrai rigenerarti, se vuoi, sino alle creature superne, alle divine."
Roberto Momi

27 settembre 2011

- Dalla Breccia nelle Mura ai Bunker sventrati





Quest’anno la ricorrenza della Breccia di Porta Pia nell’anno in cui si celebra il 150* dell’Unità d’Italia mi genera una strana emozione. Inizialmente, allineare le prospettive di questi due eventi mi è parso quasi una logica consequenzialità, ma riflettendo sul conflitto tra Italiani e più in generale sui conflitti tra simili, ovvero i conflitti di una Umana Umanità, sono affiorate alla mia mente un fitto gruppo di immagini, tante e tali da farmi reclinare il capo. Immagini dei camminamenti scavati nel 1915-18 sui nostri monti, come quelli sui monti della penisola del Sinai, immagini delle Steli che nei nostri Paesi ricordano, nella Piazza Centrale, i Caduti di sempre. Ed ancora le immagini delle Fosse Comuni e dei Bunker, che nazione dopo nazione, vengono, nella loro dura resistenza, sventrati. Immagini grevi, tinte di rosso e di nero. Fin troppo spesso ricordiamo la Storia dei Fatti. Fin troppo spesso ricorriamo a rappresentazioni di corsi e ricorsi. Fin troppo spesso ascoltiamo i revisori della Storia, che, puntualmente, ogni qualche decennio reinterpretano valorizzando o svalorizzando Fatti, ed ancor peggio, Persone, come se fossero moneta, non di scambio di merci, bensì di Valori. Fin troppo spesso dimentichiamo che la Storia, la Storia vera, anche quando è non buona e non bella, ma come sempre è la Realtà dei Fatti, è fatta da Persone, Genti, o addirittura da Popoli, ma comunque e sempre, è fatta da Vite, Vite umane. Vite messesi in gioco. In gioco, sempre e comunque, con la Morte . In un quadro, sempre e comunque, i cui colori: rosso sangue e nero morte, disciolti nelle lacrime amare di dolore e dolci di passione, sono ovunque sparsi. Uomini, Sangue, e Morte. Nell’Epoche passate, Ieri, Oggi e, purtroppo o per fortuna, temo, anche Domani.
Fin troppo spesso dimentico, e forse dimentichiamo, che esiste quella che mi viene da definire l’Essenza Umana: quell’essenza composta da biochimica disciolta nella coscienza. Questa fornisce quell’energia affinché l’esperienza di tutti i giorni, la misura del quotidiano, nostro e di altri, continui a contribuire alla nostra personalità. E’ nella nostra personalità il generatore capace di senso. Ovvero del senso che diamo al nostro modo di partecipare all’umanità ed all’Umanità, assumendoci la responsabilità degli atti: come la libertà delle scelte e la trasmissione dei Valori. E ciò avveniva regolarmente e ritualmente nel passato remoto soprattutto attraverso l’esercizio del’Esempio e dell’Educazione. La Preistoria e la Storia traboccano di metodo educativo. Duemila anni di Storia, ancora davanti agli occhi, nei suoi atti e nei suoi monumenti, sono straricchi di esempi. Eppure esistono ancora, e temo per molto tempo esisteranno ancora Uomini, Donne ed ahimè Bambini che abbandoneranno lo spirito della vita familiare, non saranno più paghi dell’armonia del piccolo gruppo, né dei gesti affettuosi dell’amata o del fratello. Pare che questi esempi di cui la Storia, dicevo, è ricca e che hanno ormai esaurito tutte le forme possibili di diversità, non bastino mai… Ecco che la personalità di questi Uomini apparentemente depauperata, o colma solo di rivalsa, si appesantisce di metallo e polvere da sparo.
Ma chi sono questi Combattenti? Chi sono questi Uomini in armi? Chi sono queste Comparse nel Teatro dello storico scontro? Che rapporto esiste tra questi Uomini, i loro Valori e la Morte? E queste Donne, e questi Bambini? Comparse alcuni, ed ancor peggio, Spettatori altri. Spettatori paganti il prezzo più caro. Spettatori attoniti di una proiezione spesso distorta, quasi mai ben chiara, o talvolta, incomprensibile, e pertanto paganti un prezzo non accettabile.
Come definiremmo quei Mille, e quelle Migliaia e Migliaia, Morti di Unità, non solo 150 anni fa in Italia come in qualsiasi terra e su qualsiasi mare, non solo da allora ad oggi, ma che, anche domani, temo, moriranno. Lungo la declinazione che da Coraggiosi, passando per Ardimentosi, Valorosi, Eroi, Martiri, giunge a Kamikaze, appare chiara la provocazione della domanda iniziale “Ma chi sono questi Combattenti?” La scelta dell’attributo identificativo, compreso tra Coraggiosi e Kamikaze, rimane al Lettore. In fondo troverà un breviario: la possibilità di apprezzare le caratteristiche di ognuno di questi attributi, la prospettiva di ognuno rispetto alla società, rispetto a se stessi e rispetto alla Vita ed alla Morte propria e degli altri. Esercitando un allineamento semantico si offre al Lettore una mappa interpretativa se non della Storia, perlomeno della Realtà dei Fatti. La mappa dei passi della sua scelta è sicuramente dettata dal peso e dal posizionamento che hanno in lui, nel Lettore appunto, Valori Primari come: Unità, Bene Comune, Spirito di Servizio. Valori capaci attraverso la loro condivisione di generare ulteriori Valori Secondari. Secondari non per importanza, ma perché susseguenti temporalmente ai primi: Patria, Libertà, Fratellanza. Ciò che appare evidente è che alcuni aspetti della considerazione della Socialità impattino fortemente sul senso della Morte che tutti questi Uomini in armi hanno. Impatto, non solo nei loro confronti, ma anche nei confronti di quelli che partecipano alle loro azioni, e peggio ancor, le subiscono. Ancor più drammatico è lo scollamento che esiste tra la loro visione e quella di tante Donne e Bambini inermi, non perché disarmati, bensì perché più fragili. Donne e Bambini che pagano l’usuraio tasso di un debito di sopravvivenza con il destino. Pagano in natura. Una natura rossa e nera, madida di pianto.
La maggior parte di noi ritiene che siano le pagine della Storia dei Fatti a narrare di uomini in armi. Ciò che mi domando è: come è possibile che per affermare Unità e Patria, Bene Comune e Libertà come anche Spirito di Servizio e Fratellanza, occorrano ancora oggi, e sperando nel Dio di ogni Uomo, mai più domani, occorrano uomini in armi? Come è possibile che Esempio ed Educazione non bastino a sostenere la Memoria?
Anche all’interno di questi 150 anni dopo quell’Unità, Uomini in armi, Uomini e No, hanno ancora tinteggiato di rosso e nero le prospettive di tanti altri. Ancor oggi nel Mare Nostrum c’è chi ripete affinché non sia dimenticato nella rivolta: “…se domani morirò, ci sarà mio fratello, e se lui morirà, ci saranno i nostri vicini…” . Al ritmo dei percussori, ci saranno mai dolci ed amare parole, dal sapore di polvere da sparo, a tentare di giustificare ciò? Ingiusto è lottare, combattere e morire per questi Valori! Attenzione!!! Non perché non ne siano degni! Ma perché questi sono, così, elevati Valori che, dì per se, nella loro più intima essenza e significato non chiedono sangue e morte di nessuno! Nessuno ne ha mai rappresentato lo spirito colorandoli di rosso e nero. Rosso e nero sono i colori usati per rappresentare il costo affrontato da tanti. Troppi ritengo. Oggi, all’interno di quella sovranazionale e/o globalizzata Società detta Civile, ma che ha perso il concetto di Civis, ovvero di Colui che vive nella Civitas, inteso come Valore di Centralità dell’Uomo all’interno del lemma civitas, dove sono questi Valori? Giorno dopo giorno siamo sovrastati dalla marea di spazzatura mediatica che galleggia su un mare di falsi bisogni, portati e sostenuti da un fiume di pubblicità. Fiume che strangola i nostri spazi pubblici, e determina nelle nostre case solchi che separano i componenti delle famiglie. Siamo sempre più spesso sviliti, in una battaglia sempre più impari. Senza Forza Morale, senza Forza d’Animo. Sempre più spesso, siamo portati ad identificare questi falsi bisogni con Fatti della nostra Vita. Ma in un Mondo di Fatti, veri e falsi, anche e seppur questi, qual è il posto dei Valori? Valori. E’ ingiusto svilirli e sperperali, negarli con l’indifferenza, svendendoli a falsi idoli. Troppo sangue e morte sono costati! Si costati! Morte su morte! Uomo su Uomo! Donna su Donna! Bambino su Bambino! Fossa comune su fossa comune! Tante mazzette di cadaveri, gli uni su gli altri accanto agli altri, ancora, foscamente rossi e neri. Senza Sepolcri. Lì, persi, dispersi e dimenticati, tra i monti del nostro Continente, come nelle Terre di fronte, ove sotto la neve o la sabbia, tutto tace, come anche nelle profondità del Mare Nostrum, lungo quell’orizzonte ahimè ingrigito dal fumaiolo di una nave da crociera.
Ecco che quei Mille, e quelle Migliaia e Migliaia, Morti di Unità non solo 150 anni fa, e tutti quelli da allora ad oggi, sono, ai nostri occhi, alla nostra mente, al nostro cuore, l’opportunità di riflettere, di riconsiderare, di riappropriarsi di consapevolezza. Sono l’opportunità di ambire ad una Civiltà, anch’essa con il concetto di Civis e Valore di Centralità dell’Uomo, per cui non si debba, in nome del proprio Dio, comunque Grande Architetto dell’Universo, combattere in armi. Che i Valori frutto dell’Intelletto come dell’Essenza Umana foriera della Responsabilità, non debbano, mai più, essere né difesi né avversati con il pesante piombo del conflitto! Per il Bene dell’Italia, per il Bene dell’Umanità!
Coraggiosi
Si ritiene che siano Coraggiosi coloro che sono connaturati da una particolare forza d’animo, che permetta di affrontare, dominare, subire situazioni scandalose, difficili e avvilenti, senza rinunciare alla dimostrazione dei più nobili attributi della natura umana. Costoro esortano a non perdersi d’animo a resistere a perseverare. Sono i primi a mostrare capacità di affrontare rischi e pericoli, addirittura l’impopolarità, per il bene pubblico, o per amore della verità e della giustizia. Sono di esempio, con ciò che insorge nel loro animo, di fronte a situazioni disperate, per se ed altri, per le quali, non sembri esistere alcuna via d’uscita. Sono coraggiosi coloro capaci di esprimere un valore oppositivo mantenendo una posizione ferma e rigorosa, anche a proprio rischio individuale nei confronti di eventi a forte impatto emotivo, come anche, di portata storica. La difesa del bene pubblico, della verità e della giustizia li fa esporre a rischi e pericoli, che pongono ad esempio, ma non cercano la Morte.
Ardimentosi
Sono Uomini Ardimentosi coloro che sono disposti a dar prova di coraggio. Sono capaci di slanci confidenti nell’affrontare imprese rischiose e di opporsi di persona al pericolo. Capaci di inaspettata originalità, agiscono intrepidi con audacia, ardore fisico e psichico, denotando fierezza oltre i limiti. Gli Ardimentosi pongono a rischio se stessi, sanno di decidere ed accettare azioni che possono contemplare la loro fine, e con sé, la loro Morte.
Valorosi
Sono considerati Valorosi, Uomini, connotati da una misura non comune di doti morali e intellettuali, espresse e rappresentative di nobiltà di animo. Non indispensabilmente dotati di vigore fisico, ma comunque di vigore psichico, qualità questa pari ad un bene, intesa come virtù grandemente riconosciuta. Sono caratterizzati da pronta ed immediata capacità, solerzia e rettitudine. I Valorosi sono dotati di qualità morali e spirituali la cui misura è di tale importanza che queste, e loro stessi, oscillano tra la sfera oggettiva e quella soggettiva. Quando la sfera è quella soggettiva, comunque la si possa intendere, non è mai intesa come arbitrio individuale, bensì come impegno assoluto e totalizzante. Questo impegno assoluto spesso si connota dell’affermazione dell’esistenza di Valori contro l’accettazione passiva delle Norme. Questo vigore psichico li pone in una considerazione talmente oggettiva da annullare qualsiasi angoscia nei confronti della Morte.
Eroi
Sono definiti Eroi Persone che, anche eccezionalmente o non prevedibilmente, mostrano e si distinguono per eccezionali virtù di coraggio o abnegazione. Costoro si impongono all’ammirazione di tutti, protagonisti e spettatori. Talvolta, la narratività della loro vicenda, grazie alla presenza, rappresentatività ed insegnamento dei valori positivi, in questa contenuti, rende gli Eroi degli esseri semidivini. Eroi come figli mortali, e spesso, già morti, di un genitore e di un valore, bene o idea, che grazie a questa narrazione non morirà mai. Eroe è colui o colei che compie un gesto così eccezionale, o imprevedibile, e di così alta levatura, che nega la possibilità di valutare, per se, la Morte, in senso assoluto o incipiente, al fine di sconfiggerla per tutti gli altri, quanti, coinvolti nella vicenda.
Martiri
Sono considerati Martiri quelle persone che in nome della propria fede, politica o religiosa, o dei propri ideali accettano pene e tormenti collocabili come di eccezionale gravità per il senso dell’umanità in generale. Per costoro l’adesione al proprio credo è caratterizzante il proprio essere. Ciò è spinto fino all’estremo punto di vista soggettivo, fino a giungere ad un completo annullamento del proprio Se, del proprio Ego. Per tali ragioni vivono il sacrificio senza alcuna angoscia di morte. Questa è già compresa nella loro sofferenza. Per alcuni, la morte è addirittura invocata, come liberazione per il passaggio ad una, da loro attesa, eternità migliore.
Kamikaze
E’ noto che il termine è mediato dagli aviatori giapponesi che si lanciavano con il proprio aereo contro le navi avversarie morendo al tempo stesso. Oggi definiamo, così, persone, componenti un gruppo militare o terroristico, o spinte da visioni fanaticamente estreme del gruppo o della religione di appartenenza, che compiono azioni in cui sanno già che perderanno la vita. E sanno che la perderanno nel momento in cui lo decideranno. Costoro hanno un pieno senso della Morte del tutto privo di angoscia. Sia nei confronti dei risultati delle loro azioni rivolte più spesso contro persone che cose, che nei loro stessi confronti. Si ritiene che alcuni considerino la Morte stessa solo determinandola.
www.testatadangolo.it
Alfredo Marinelli

- Opus Minimum - Equinozio d'Autunno 2011

PENELOPE NEL MITO E NELLA FAVOLA

R.: L.: Quatuor Coronati Emulation 931 Goi, Firenze



PARLIAMO DEL LABIRINTO

Stelio Calabresi



ORFEO

Aleksander Rojc, R.: L.: Nazario Sauro 527 Goi, Trieste



IL PRINCIPIO FEMMINILE

Fabio Bidussi, R.: L.: Ars Regia 1032 Goi, Trieste



L'AMORE COME "CURA"

Claudio Spinelli, R.: L.: Nicola Guerrazzi 665 Goi, Follonica


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26 settembre 2011

- ORFEO

Simbolo della potenza e delle meraviglie della musica simbolo del mistero religioso e dell'arte, della poesia e della filosofia. Qualsiasi enciclopedia sa raccontare del mitico poeta greco, ORFEO, a cui, per ragioni religiose (orfismo), si attribuiva una grande quantità di poemi di varia epoca e di vari autori. Il Mito narra che Orfeo fosse un cantore tracio, figlio di Apollo e di una Musa, Calliope. Accompagnandosi sulla lira cantava così dolcemente che non solo gli animali più selvaggi, ma anche gli alberi e le pietre lo seguivano incantati. Dopo aver partecipato alla spedizione degli Argonauti, sposò Euridice e, quando ella morì, morsa da un serpente, scese nell'Oltretomba, per riottenerla. Riuscì, infatti, a commuovere col suo canto Ade e Persefone, che gli concessero di ricondurre con sé la sposa, a patto che non si volgesse a guardarla prima di essere tornato sulla terra. Secondo la tradizione più nota, non seppe resistere al desiderio, e, voltatosi, perdette Euridice per sempre. Morì dilaniato da uno stuolo di donne tracie da lui respinte. Tradizioni posteriori ne fecero il profeta dell'orfismo e gli attribuirono gli Inni orfici, canti mistici del IV Secolo a.C.
Il mito di Orfeo ispirò Ovidio, Virgilio e poi Poliziano, Rilke e Cocteau; tra i musicisti, Monteverdi, Gluck e Offenbach (Orfeo all'inferno). Noi, però, sottolineeremo che fra l'Ottocento e il Novecento ORFEO diviene l'emblematica personificazione del poeta lirico, come ha dimostrato lo studioso letterario W.Strauss con una penetrante analisi delle opere di Novalis, Nerval, Mallarmé e Rilke. Questo mito del mondo greco arcaico non ha mai dunque cessato di stimolare la fantasia e la riflessione di autori successivi. La sua temporanea vittoria sulla morte, quando riuscì a strappare dagli Inferi l'amata Euridice, ha ingenerato una tragica circolarità: Virgilio nelle Georgiche, ma soprattutto Ovidio nel suo geniale labirinto poetico delle Metamorfosi, hanno consegnato questa seconda storia alla rielaborazione di poeti e scrittori di ogni età.
Questo il racconto:
Euridice, come già accennato, viene punta da un serpente e muore. Un Orfeo un po' sofista e impareggiabile cantore riesce a convincere il re dell'Ade che, dopotutto, la morte si terrà stretti lui e l'amata per un tempo infinitamente superiore alla vita che ora sta chiedendo. Costui allora gli consente di riprendersi Euridice, a patto che nel loro tragitto verso il mondo dei vivi non le rivolga lo sguardo. Spinto dal desiderio, Orfeo trasgredisce l'ordine e l'amata viene riacciuffata dagli Inferi. La disperazione del poeta è tale che si prende una vendetta nei confronti della vita, rifiutando l'amore delle Baccanti, emblema dell'irrazionalità e delle potenza femminile, e convincendo il genere maschile a praticare solo l'eros omosessuale, sterile per definizione. Le Menadi allora lo fanno a pezzi durante i loro riti bacchici. Solo Ovidio, raccogliendo il motivo circolare di questo mito, ha saputo svelarne il significato più naturale e al contempo più terrificante: la realtà irreversibile della morte. In virtù a questa Euridice non riesce a tornare da Orfeo e costui, per riunirsi a lei, deve morire. Dopo l'edizione rinascimentale del Poliziano, non molto diversa da quella ovidiana, si assiste invece nel corso del Novecento a una rielaborazione in chiave esistenziale della storia. Rilke, ma soprattutto Cocteau, Pavese insistono infatti sul motivo dell'ispirazione poetica e del significato del „respicere“, del voltarsi indietro di Orfeo. Non un errore, non un gesto di improvvisa follia, ma un atto consapevolmente voluto. Liberarsi di Euridice per rinnovare la propria ispirazione poetica; o meglio, disfarsi dell'amata per ritrovare se stessi nel cammino della vita, che è necessariamente solitario. I morti non sono più nulla, e solo nella poesia e nel canto si possono ritrovare le perdute stagioni della vita.
“ Da mortale sei diventato un dio: capretto verso il latte ti lanciasti.
Rallegrati, rallegrati tu
che procedi a destra
verso i prati sacri e i boschi di Persefone.”
Questi sono dei versi incisi con la punta di uno stilo sulla foglia d'oro di una lamella orfica.
Sottili e duttili come carta stagnola, lunghe come un biglietto dell'autobus, disseminate tra Tessalia, Creta, Magna Graecia, Roma, datate dal V – IV Secolo prima di Cristo, fino al Duecento della nostra era, contengono „istruzoni per il viaggio oltremondano degli iniziati greci“; perché il percorso verso l'eternità non sia doloroso, ma diventi un'esperienza di beatitudine.
“ Di sete sono arsa e vengo meno: ma datemi presto l'acqua fredda che scorre nel lago di Mnemosyne“; quando i custodi dell'Ade ascolteranno questa invocazione del viandante, allora “ ti daranno da bere// dalla fonte divina e dopo con gli altri eroi sarai sovrana.“ Le immagini che descrivono quel “ territorio“ sono precise e si ripetono simili in tutte le ventuno lamelle orfiche dorate finora scoperte. Frequente è anche il riferimento a un “cipresso bianco“, luminosa rappresentazione dell'Alidilà. Queste lamine, custodite in musei greci, inglesi, statunitensi e italiani, sono oggetto di studio per archeologi e grecisti, intenti a rintracciare percorsi di affinità tra diverse religioni e concezioni della vita oltre la morte in area mediterranea. Il libro Le lamine d'oro orfiche, curato da Pugliese Caratelli non si limita a ricostruire, tradurre e commentare il testo di ognuna delle lamine: suo primo obiettivo è sottolineare l'idea fondante di questa fede. Gli uomini muoiono perchè non possono ricongiungere il principio con la fine“, come racconta un frammento di Ippocrate; perché “ dimenticano l'unità e l'eternità del cosmo“ e non hanno sufficiente fiducia nella speranza di superare i limiti dell'esperienza terrena.L'aveva, invece, Pitagora, sicuramente un personaggio storico, venerato come un vate, come un profeta, e fondatore di una religione. Una religione della memoria:“ Il ricordo dell'origine urania prima che terrena degli uomini e quindi della presenza, destinata a prevalere, di un elemento divino, è la condizione per ottenere la liberazione dal peso dell'esperienza mondana“, dice Caratelli.
Mnemosine, la memoria, è divinizzata e venerata; le Muse, sue figlie, presiedono alle esperienze intellettuali e artistiche. Ma una questione importante si apre sul come tradurre mousikè: musica o filosofia? Quale, tra le due, rappresenta la decisiva esperienza di conoscenza? Aristosseno di Taranto e Platone nel Fedone propendono per la seconda:
l'acqua, ristoratrice della Memoria, e l'acutezza della Filosofia consentiranno all'iniziato di diventare un uomo “ puro e disposto a salire sulle stelle“.
Quest'uomo, sembra invece sostenere Pitagora, è Orfeo, il mitico cantore della Tracia, sceso nell'Ade e da lì ritornato grazie alla magica sapienza della sua voce e del suono, immagine viva della continuità possibile tra finitezza e eternità dell'esistere; Pitagora attribuisce a Orfeo dei testi che lui stesso scrive e che probabilmente dovevano essere cantati, in un'evocazione accompagnata anche dall'uso rituale di profumi e essenze. I filosofi e gli artisti del Rinascimento non conoscevano le “ lamelle orfiche“; avevano però consuetudine con il mito di Orfeo e con l'aspetto “magico“ del canto, con quella sua natura aerea che Marsilio Ficino descrive come perfetta mediazione tra la materialità e l'immaterialità, tra ciò che finisce e quanto invece persiste nella nostra esistenza.
“ La magia del canto abbozza un'armonia invisibile del cosmo che guida i protagonisti anche se non la capiscono“ e “spiritus“ è il complesso degli organi, dei sensi, delle intenzioni che rendono possibile il canto, “imitatore potentissimo di tutte le cose“, scrive Ficino.
Da Pitagora a Gluck, nel segno della voce e del suono. Come dunque meglio tradurre mousikè?
Nel 1856 Franz Liszt associò al proprio poema sinfonico ORPHEUS il seguente “programma“:
“ ...una volta ebbi a dirigere l' Orfeo di Gluck. Durante le prove mi fu impossibile staccarmi dal punto di vista, toccante e sublime nella sua semplicità, da cui questo grande maestro ha considerato il suo soggetto, per riportami alla mente quell'Orfeo, il cui nome plana così maestosamente e armoniosamente sui più poetici miti della Grecia. Ho rivisto nel pensiero un vaso etrusco della collezione del Louvre che rappresenta il primo poeta-musicista in una veste stellata, la fronte cinta dalla benda misteriosamente regale, le labbra, da cui escono parole e canti divini, aperte e in atto di far risuonare energicamente le corde della sua lira con le belle dita lunghe e affusolate. Mi è sembrato di vedere attorno a lui, come se lo stessi contemplando dal vero, le bestie del bosco ascoltarlo rapite: gli istinti brutali dell'uomo tacere, vinti; le pietre diventare molli e i cuori più duri bagnati da una lacrima amara e bruciante; gli uccelli canori e le cascate mormoranti sospendere le loro melodie; il riso e il piacere raccogliersi con rispetto davanti a quegli accenti che rivelavano all'umanità la potenza benefica dell'arte, la sua illuminazione gloriosa, la sua armonia civilizzatrice...
musica L'umanità, benché guidata dalla più pura delle morali, istruita dai dogmi più sublimi, illuminata dai fari più brillanti della scienza, messa in guardia dai filosofici ragionamenti dell'intelligenza, circondata dalla più raffinata delle civiltà, ancor oggi come allora come sempre conserva dentro di sé istinti di ferocia, di brutalità e di sensualità, che l'arte deve intenerire, addolcire, nobilitare. Oggi come allora e come sempre, Orfeo, cioè l'Arte, deve spargere le sue onde melodiose, i suoi accordi vibranti come una luce dolce e irresistibile sugli elementi contrari che feriscono e fanno sanguinare l'anima di ogni individuo e il cuore stesso di tutta la società. Orfeo piange Euridice, simbolo dell'Ideale inghiottito dal male e dal dolore, che egli ha il permesso di strappare ai morti dell'Erebo, di fare uscire dalle tenebre cimmeriche ma che, ahimé, non saprà conservare su questa terra. Possano mai più tornare quei tempi di barbarie quando le passioni furiose come Menadi ebbre e sfrenate, vendicandosi del disprezzo dell'arte per il loro piaceri grossolani, lo fanno perire con i loro tirsi portatori di morte e le loro stupide furie. Se avessi potuto formulare fino in fondo il mio pensiero avrei desiderato rendere il carattere serenamente civilizzatore dei canti e di tutte le opere d'arte, la loro soave energia, il loro augusto impero, la sonorità che nobilmente alletta l'anima, il loro ondeggiare dolce come la brezza dell'Eliso, il loro graduale alzarsi come vapori di incenso, l'atmosfera diafana e azzurrata in cui avvolgono il mondo e l'intero universo come in una veste trasparente di ineffabile e misteriosa armonia...“ Nelle splendide parole di Ernst Bloch (Il principio speranza), che riassumono l'utopistica speranza riposta dalla coscienza romantica nella musica, la perenne vitalità del mito ci viene così descritta: “Il suono non ha bisogno di una luce esterna; sopporta l'oscurità, anzi ne cerca il silenzio. In silenzio, di notte, vengono scavati tesori; la musica non disturba questo silenzio, essa si intende di cripte, essendo luce nella cripta. Da qui la sua vicinanza non soltanto alla felicità dei ciechi ma alla morte, anzi alla profondità dei desideri che cercano di rischiararla. Se la morte, pensata come mannaia del nulla, è la più acerba non-utopia, la musica si misura allora su di lei come la più utopica di tutte le arti. Essa vi si misura tanto più turbata, in quanto la non-terra della morte è riempita dalla notte che, in quanto partoriente, sembra così profondamente famigliare alla entro questo mondo. Quanto decisamente diversa da ogni altra può apparire la notte della morte, altrettanto - a torto o a ragione – la musica si sente come un fuoco greco che arde nello Stige. E se contro la morte Orfeo suona l'arpa, e con successo, tanto successo ce l'ha, però, solo nella morte, cioè nell'Ade. Può essere una leggenda che i morenti, nel loro stato di sprofondamento, odano musica... Anche se va lasciato in sospeso se i morenti odano musica, i viventi però odono nella musica, con altissima affinità elettiva, una morte; lo spazio della morte confina mediatamente con la musica.
Confina con la sua frequente espressione introversa e soprattutto con il suo invisibile materiale, con la sua costante tendenza a indicare nell'invisibile, in cui inizia e verso cui seguita a tendere, un universo finalmente senza più esteriorità...“
Forse la storia dell'Opera è la storia di un dramma in musica recepito in termini pressoché interamente vocali...
recita il risvolto di copertina dello stimolante volume scritto a più mani e curato da Stefano Leoni, Orfeo, il mito, la musica. Ragionare di Orfeo e della musica può voler dire anche partire da qui, senz'altro allargare la prospettiva di indagine a campi formalmente esterni alla musicologia come correntemente intesa. Eccoci impegnati a tirare la rete sotto la sigla di Orfeo, simbolo - quant'unque ambiguo - in tutti i tempi della potenza e delle meraviglie della musica, ma pure simbolo del mistero religioso e dell'arte, della poesia e della filosofia. Nella speranza di offrire, pur nella limitatezza dei tempi e delle nostre forze, un'immagine ricca, viva, interessante, stimolante del binomio Orfeo//Arti a partire dalle progressive mitizzazioni e demitizzazioni del poeta cantore. Nulla di definitivo: solo un approfondimento di questi argomenti e un modo per mettersi in cammino...
Poche cose affascinano i filosofi più del mito, forse perché questo si presenta a prima vista come l'opposto della filosofia, o perché il filosofo ritiene di essere l'unico autorizzato a parlarne, non tanto per spiegarne l'esistenza, il che può spettare all'antropologo, quanto per chiarirne le ragioni.
In fatto di miti nessun filosofo può competere con Platone, che ne fece largo uso, con scopi diversi, tutti ugualmente interessanti. In questo atteggiamento, annota Martino Menghi, vi è un grande paradosso. Perché, se da un lato il nostro identifica il mito con la menzogna, tanto da prospettare l'allontanamento dalla sua “ città ideale“ degli autori e trasmettitori di miti, i poeti, dall'altro dissemina la sua opera, che ha come obiettivo ultimo il sapere eidetico (conoscitivo, attinente alla conoscenza) di questi bellissimi racconti. Ma vi è anche un equivoco alla base delle due posizioni intepretative moderne sul mito. Vi sono infatti quanti, positivisticamente, identificano l'affermazione del logos , della razionalità, con il trionfo della ragione sull'immaginazione mitica, e quanti, d'altra parte, valorizzano l'epoca del mito - prerazionale e prescientifica – per la sua prossimità alle origini, e dunque per la sua maggiore “autenticità“ rispetto all'era opacizzante della razionalità, della scienza e della tecnica. Ma entrambe queste posizioni sembrano dimenticare che le nostre fonti mitografiche, come i poemi omerici, la tragedia del V Secolo a.C., o ancora l'opera dei mitografi alessandrini, sono tutte coeve allo sviluppo della razionalità scientifico-filosofica greca.
Quello di Platone e del mito rimane, dunque, un affascinante problema.
Perché, insomma, il mito della caverna, sulla distinzione tra doxa (opinione) e episteme (conoscenza vera), o quella di Eros, sulla possibilità di trasformazione dell'amore, da passione tirannica a strumento di conoscenza del bene e della giustizia, da parte di chi, come Platone, aveva assegnato alla poesia un ruolo unicamente pedagogico, e solo a precise condizioni? In primo luogo, perché il mito può svolgere una funzione rammemorativa (si pensi a quello di Atlantide), perfettamente solidale all'idea platonica della conoscenza come reminiscenza. Ma anche perché il linguaggio figurativo, che gli è proprio, risulta assai più coinvolgente dell'argomentazione analitica. L'immagine della caverna, ad esempio, è in grado di trasformare un'imposizione – l'invito rivolto ai filosofi di occuparsi del governo delle città – in un dovere morale: l'uomo che ha visto la luce fuori dalla caverna deve farvi ritorno per riferire la sua visione agli altri, che scambiano le ombre delle cose per realtà. Tornando al nostro tema principale – ORFEO – dobbiamo sottolineare che Platone riteneva che la filosofia fosse la musica più grande; ma, nonostante questo, per dirla con Giovanni Reale, nel Fedone, a Socrate – in risposta alla domanda come mai in carcere in attesa della morte avesse composto l'Inno di Apollo in forma poetica – fa dire quanto segue:
“Nella mia vita passata, mi capitò, spesso, di sognare il medesimo sogno, ora sotto una forma ora sotto un'altra, che mi ripeteva sempre la medesima cosa: 'Socrate, componi e pratica musica.' E io per il passato ritenni che il sogno mi stimolasse e mi spronasse a fare quello che già sto facendo''.
''E come quelli che incoraggiano quelli che corrono, così io credevo che il sogno mi volesse incoraggiare in quello che facevo, cioè a fare quella musica che già facevo, in quanto la filosofia è la musica più grande. Ma, dopo che il processo ha avuto luogo, e la festa del Dio Apollo ha differito la mia morte, mi parve opportuno, nel caso che il sogno mi comandasse di fare proprio questa musica nel senso comune del termine, di non disubbidirgli e di farla, perché era più sicuro non andarmene prima di essermi liberato dallo scrupolo, facendo poesia e ubbidendo a quel sogno.''
Inoltre, Platone fa presentare a Socrate il suo grande discorso sull'immortalità dell'anima come un canto del cigno, sacro ad Apollo.
Platone, inoltre, riteneva che la cura del corpo con la ginnastica non fosse sufficiente. Ricordiamo che, a quei tempi, la ginnastica era molto più importante che ai nostri giorni, e che il maestro di ginnastica era ritenuto superiore perfino al medico. Il maestro di ginnastica aiutava a mantenere la salute e a non ammalarsi, mentre il medico doveva intervenire solo per curare malattie, che si riteneva fossero conseguenze del mancato rispetto delle regole da lui proposte. Lo Stato avrebbe dovuto dare alla cultura musicale almeno tanta importanza quanta ne dava alla cultura ginnica, in quanto la ginnastica cura il corpo, mentre la musica cura l'anima. Platone scriveva:
“ Colui che sa fondere insieme nella migliore proporzione la ginnastica e la musica, e riesce a trasferirle nella sua anima in misura equilibrata, quest'uomo lo potremmo ben chiamare musico perfetto e perfettamente accordato.“
Il filosofo manifesta il suo amore per la musica con un bellissimo mito, da lui stesso creato, ed esposto nel Fedro. Musica significa l'arte delle Muse e il musico è l'amante delle Muse e della loro arte. Ed ecco il mito: “Non conviene davvero che un uomo amico delle Muse non abbia sentito parlare di questo. Si dice che le cicale un tempo fossero uomini, di quelli che vissero prima che nascessero le Muse. Ma una volta che nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni degli uomini di quel tempo furono colpiti dal piacere a tal punto che, continuando a cantare, trascuravano cibi e bevande, e senza accorgersene, morivano. Da loro nacque, in seguito a questo, la stirpe delle cicale, che dalle Muse ricevette il dono di non avere bisogno di cibo fin dalla nascita, ma cominciare a cantare subito senza cibo e senza bevanda, e così fino alla morte, e dopo, di andare dalle Muse.“
Già Pitagora considerava la musica come rivelazione dei numeri e degli accordi musicali, e quindi dei fondamenti dell'essere delle cose. E riteneva che le sfere celesti si muovessero producendo una musica celeste. Platone, infine, presentava la struttura ontologica dell'Anima cosmica (e implicitamente quella delle anime singole) creata dal Demiurgo sulla base degli accordi musicali. In età moderna, Schopenhauer scriveva:
“Sempre la musica esprime solo la quintessenza della vita e dei suoi fatti, mai questi stessi...Proprio questa universalità ad essa esclusivamente propria, nonostante la più esatta determinatezza, le conferisce l'alto valore che essa ha come panacea di tutte le nostre sofferenze.“ Dirà Dario del Corno che soltanto a condizione di accettare la qualità assoluta del pensiero mitico, evitando di emarginarlo del ghetto della mente primitiva, sia possibile chiedersi obiettivamente quali significati abbia il vistoso favore che il nostro tempo ascrive ai miti. Lasciamo perdere l'abuso del termine nell'enfasi del linguaggio cronachistico, tanto innocuo quanto banale: ma anche a livelli culturalmente più maturi l'interesse per l'universo mitico costituisce una tendenza tanto diffusa quanto difficilmente decifrabile. Conviene scartare l'ipotesi che lo iscrive in un'apatica rinuncia alla razionalità o alla storia, all'insegna di seduzioni regressive: ma può darsi che la crisi della ragione o il deragliamento delle letture finalistiche dell'accadere storico contribuiscano alla persuasione di trovare un sistema di riferimenti nella figura simbolica e sincronica del mito, che annulla la logica del particolare nella pervasiva allusione all'universale. D'altra parte, la nativa creatività della mente mitica si è irrimediabilmente perduta, da quando la cultura occidentale ha criticamente fondato l'idea stessa di mito. Alla produzione dell'archetipo mitico appartiene l'ignoranza di essere tale: e una volta che si sia verificato il passo fatale della consapevolezza, la reviviscenza del mito non può che affidarsi all'elaborazione del modello, trasformandolo secondo nuove esperienze e esigenze. Il mito esiodeo e eschileo di Prometeo produce, alla fine di un lungo percorso, il Prometeo di Kafka: incatenato alla roccia non più per gridare la propria rivolta, ma perché il motivo della sua pena venga dimenticato da tutti e da lui stesso, e di tutta la sua storia non rimanga altro che un'inesplicabile montagna. Il mito è un sistema “aperto“, che ha tra le sue prerogative la metamorfosi: esso reinventa originalmente il proprio racconto ogni volta che viene raccontato. In tale processo riproduttivo la sopravvivenza di tutte le storie mitiche si identifica con la loro rinascita; e la ricezione del mito diventa rivelazione delle valenze simboliche in esso potenzialmente contenute. Può, infine, essere questa la spiegazione ultima dell'incapacità di creare nuove mitologie, che impone al nostro tempo di rielaborare i miti antichi. La dura legge della società produttiva, la norma del comportamento etico – o comunque la sua simulazione – impongono che ogni azione abbia un obiettivo, che a ogni individuo tocchi un ruolo. In questo ingranaggio l'assurdo è un'aberrazione che si merita ogni condanna. Ma nell'universo mitico l'assurdo è la frontiera che dischiude la rivelazione dell'assoluto. I grandi personaggi “mitici“ dell'era storica, Amleto e Don Giovanni, Faust e Don Chiscotte nascono come racconto di una tensione totale , e dunque assurda verso l'assoluto. Questo spasimo li costringe a uscire dalla convenzione sociale, e sottrae la loro azione al condizionamento della razionalità. Essi attraversano il mondo come un paradigma dell'eccezione, e in questo tragitto solitario acquistano la maestà del simbolo che ignora il significato del proprio messaggio. Sarà il tempo a rivelarlo, quando il segmento della loro esperienza si è consumato: poiché il mito inizia la sua vita vera dopo che si è sedimentato nella memoria collettiva e esso disdegna il culto dell'attualità e i suoi canali di comunicazione. Parimenti i seguaci di Aristotele dicono che parte dei loro scritti siano esoterici, parte essoterici, cioè destinati al pubblico. E i fondatori dei culti misterici, filosofi, nascosero le loro dottrine sotto i miti, sì che non a tutti fossero manifeste. Ebbene, se quelli celarono umano sapere e impedirono ai profani di accedervi, non era forse oltremodo opportuno che la contemplazione veramente santa e beata della realtà, come dice Clemente Alessandrino nei suoi Stromata, restasse occulta?
D'altro canto.
“Su queste cose non c'è un mio scritto, e non ci sarà mai“, ammonisce Platone...

Opus Minimum
Aleksander Rojc
R\L\Nazario Sauro 527 GOI, Trieste

[1] ORFISMO: movimento religioso misterico greco, che prometteva salvezza agli iniziati dopo la morte. Mirava alla purificazione mediante la castità, l'astinenza dalla carne e dal sangue. In rapporto con i misteri dionisiaci influì su Pitagora e Platone – si pensi al tema del corpo inteso come 'carcere dell'anima'. L'ORFISMO era anche un movimento artistico francese sviluppatosi negli anni 1910-1920. Il termine fu coniato da G.Apollinaire nel 1912 per definire la pittura di S.R.Delaunay, che scomponeva la forma basandosi sul dinamismo ottico e cromatico.


19 settembre 2011

- L’ermetismo



L’ermetismo, o filosofia ermetica, e’ una corrente di pensiero religioso, mistico e filosofico
diffusasi dal secondo secolo e conosciuto soprattutto per due scritti: il Corpus Hermeticum in 17 trattati, di cui il primo, il Pimandro, gli dà il titolo, e l’Asclepius . L’ermetismo si è sviluppato sotto due diverse forme: una popolare, impregnata di superstizione, ignoranza e credenze che sfocia nelle cosiddette scienze occulte, l’altra detta dell’ermetismo filosofico. Il tratto comune alle due forme e’ l’aspetto esoterico dei contenuti e si presenta nella forma di una rivelazione: quella di Ermete Trismegisto, diretta a pochi iniziati. Da un punto di vista filosofico, che è quello che interessa la nostra ricerca, lasciando ad imbonitori e impostori maghi maghetti e fattucchiere quello popolare basato sulle cosiddette scienze occulte, l’ermetismo concepisce un dualismo: Dio-mondo, elevando il primo ad una dimensione sovressenziale e inconoscibile mentre il legame tra le due realtà e’ affidato ad una gerarchie di potenze (esseri ipostatici) dando origine alla struttura:
1) al vertice c’è Dio, l’Artefice dei mondi, espresso come somma luce, seguono
2) il lògos e
3) l’intelletto demiurgico ambedue impegnati nella creazione del cosmo e poi
4) l’àntropos, modello incorporeo dell’uomo, e
5) l’intelletto umano.
L’essere umano nasce da un decadimento dell’àntropos, quando questi si lascia attrarre e sedurre dalla sfera materiale. L’ordine decrescente della creazione può essere ripercorso a ritroso dell’ uomo, l’uomo di desiderio, che cerca la “salvezza” e attraverso l’esercizio della conoscenza tende a liberarsi dalla materia. Il Corpus Hermeticum venne tradotto integralmente in latino, per la prima volta, da Marsilio Ficino nel 1463 e stampato poi solo nel 1471. Ficino, stava traducendo per Cosimo il Vecchio, tutta la sapienza greco antica, da Socrate a Platone , dai presocratici ai neoplatonici, quando si seppe di una versione integrale del Corpus Hermeticum arrivata dalla Macedonia e portata da uno dei tanti frati che Cosimo aveva inviato per il mondo alla ricerca di testi antichi. Una versione in greco antico del mitico scritto della “priscae philosophia” arrivava a ridare slancio al risveglio della cultura, della filosofia e delle arti dopo anni di oscurantismo in cui superstizione ed ignoranza avevano creato quella teocrazia, talebana diremmo oggi, che fu l’egemonia del potere temporale della chiesa cattolica. La riscoperta del pensiero classico degli antichi, fu come un lampo di luce che balenò nella mente degli uomini abituati alle tenebre cui l’aveva condotto una certa forma di pensiero religioso che vedeva si l’uomo sprofondato nella materia, ma che solo grazie alla provvidenza divina capace di salvarsi, provvidenza elargita e somministrata in esclusiva da una casta sacerdotale ad essa dedicata per elezione e designazione divina che dominò per quasi un millennio il pensiero e l’agire del mondo e della cultura occidentale. “Ficino, ferma Platone, e traducimi il Corpus Hermeticum, prima che io muoia”, pare che abbia detto l’ormai anziano Cosimo de Medici, e così fu, Ficino completò la traduzione nell’aprile del 1463, prima che Cosimo morisse, pochi mesi dopo, nel 1464. Da allora vari autori si sono cimentati con i testi ermetici e in particolare Cusano, nelle cui note all’Asclepius difende la centralità dell’uomo svelando nell’ermetismo una specie di pre-rivelazione. Ed anche il Pimandro aveva offerto non soltanto argomenti per una nuova apologia del Cristianesimo, cosa del resto necessaria per approfondire in quell'epoca tematiche altrimenti inavvicinabili, vista l'intransigenza del potere ecclesiastico verso ogni forma di studio e meditazione dei classici antichi bollati di paganesimo. In Ficino, si erano fusi temi teologici cristiani con temi magico – astrologici, mentre in Pico e in Giovanni Reuchlin (1455-1522) tutti gli apporti della cabala, anche se già il Pico si e’ sforzato di dissociare il tema dell’uomo divino, e della pia philosophia, da ogni aggancio astrologico definendo l’ambito della magia naturale al di fuori della negromanzia. L’ermetismo ha battuto sempre su alcuni motivi, che poi sono quelli che ne spiegano la fortuna nel ‘500: una religione antichissima, comune a tutta l’umanita’, anche se velata da simboli diversi (una priscae theologiae undique sibi consona secta), verso la quale ha portato lo studio del Trismegisto come della cabala, celebrando una pace universale conquistata attraverso la consapevolezza dell’accordo essenziale delle credenze: consapevolezza che si ottiene ritrovando la luce comune che illumina quanti finalmente giungono a vedere oltre la corpulenza delle forme estrinseche. E al centro di questa verità è la divinità dell’uomo, il microcosmo solidale col tutto, che dell’uno è sintesi, e che, perciò, sul tutto opera trasformandolo; macrocosmo e microcosmo in un reciproco compenetrarsi definendo la visione dell’uomo e del suo rapporto col mondo. Come sul piano religioso l’ermetismo ha operato nella direzione di una pace e di una concordia universale, sul piano filosofico e scientifico ha alimentato la concezione di una solidarietà tra uomo e mondo, per un pieno corrispondersi della razionalità delle cose con la ragione umana, che ne costituisce l’ideale punto di incontro e la fonte da cui su tutto si irradia la luce. Così che anche quando nel 1614 il filologo Casabuon ha dimostrato, mediante l’analisi del testo, che il Corpus era stato redatto nei primi secoli dopo Cristo, e che quindi non poteva trattarsi di un’opera dell’arcaica sapienza egizia, l’ermetismo ha continuato a fiorire. A ben guardare la cosa poteva restare ininfluente, l’ermetismo tramandatoci non era altro che la rielaborazione, la maturazione della cultura neoplatonica che si compì proprio a cavallo dell’era cristiana. Filone d’Alessandria, Plotino, Giamblico, Proclo e tutti i filosofi neoplatonici approfondirono tematiche sviluppatesi durante tutta la vita dell’Accademia platonica dal suo nascere nel 316 aC. e che vide in Atene, Roma ed Alessandria d’Egitto le sedi più feconde di pensiero. Pensiero che nasceva e proveniva si da quello greco, ma come analisi ed approfondimento di tematiche provenienti dall’Egitto e che nella sapienza egiziana affondava le proprie radici. I testi ermetici non erano scritti che arrivavano direttamente dalla remota antichità, ma frutto di elaborazioni e redazioni ad essa ispirate e che in essa avevano le radici. La biblioteca di Alessandria venne distrutta, i suoi libri bruciati e dispersi, i filosofi neoplatonici perseguitati, uccisi e dispersi, esemplare fu il caso di Ipazia, e proprio ad Alessandria. Non sapremo mai quali tesori della sapienza antica vennero distrutti dalla furia talebana dell’epoca. Irruppe il cristianesimo nella sua forma più deleteria e intollerante, dove l’amore per gli uomini e l’umantà del pensiero del Cristo venne sostituito dalle persecuzioni e l’imposizione di un nuovo pensiero dogmatico in cui la spiritualità venne soppressa dalla temporalità e l’amore dall’intolleranza. Nel 529 dc Giustiniano chiuse definitivamente l’Accademia di Atene ed iniziò l’oscurantismo del pensiero unico; l’umanità si avviò verso il medio evo più buio e spettrale con i fantasmi della mente che si impadronirono del pensiero. Solo barlumi di luce rimasero velati da simboli ed architetture nel passaggio dal romanico al gotico e la rinascita dell’umanesimo del XIII° sec. aprì le porte al rinascimento che ebbe il suo massimo fulgore proprio con il ritorno di Ermete Trismegisto nella cultura occidentale.
Roberto Momi

18 settembre 2011

- Il vaso alchemico come simbolo dell'anima



In quanto studiosi della tradizione ermetica, tutti noi riconosciamo che l’opera alchemica si sviluppa su numerosi livelli: il lavoro fisico sulle sostanze, l’esperienza e la manipolazione delle forze eteriche, il lavoro interiore sull’anima, al pari degli aspetti cosmologico-planetari. Questi differenti aspetti dell’opera si interconnettono e si sovrappongono l’uno con l’altro. In effetti, in un certo senso, se vogliamo fare qualche progresso nel lavoro alchemico, dobbiamo necessariamente perseguire parallelamente questi differenti obiettivi, affiancando lo sviluppo interiore al lavoro esteriore. Un simbolo che si ricollega a questa molteplicità di aspetti dell’opera è quello del vaso alchemico. In questo articolo desidero sottolineare alcuni modi con cui possiamo usare questo simbolo per i nostri esercizi interiori. La tradizione dello sviluppo interiore in alchimia, si persegue trasponendo le trasformazioni ed i procedimenti alchemici sul piano interiore. Come in ogni pratica esoterica, l’interiorizzazione dell’esperienza può produrre squilibri nelle potenti energie psichiche che noi evochiamo durante il lavoro interiore, a meno che non troviamo dei mezzi per contenere queste energie. Nella tradizione dei rituali magico-cerimoniali, gli operatori usano normalmente una apertura ed una chiusura del rituale che funge da struttura di contenimento e salvaguarda dalla dissipazione le energie suscitate durante il lavoro. Similmente, in molte tradizioni meditative, un esercizio di apertura ed uno di chiusura (talvolta basati sulla ritmizzazione della respirazione) aiutano a riconnettere e riancorare il meditante con il normale stato di coscienza, così da non lasciarlo in uno stato di dissociazione ed instabilità, sospeso tra il mondo interiore e quello esteriore. Nel nostro lavoro interiore, troveremo nel simbolo del vaso un inestimabile mezzo per contenere le energie interiori e permettere loro di operare nella nostra interiorità, in modo controllato e positivo. Così, in un certo senso, il vaso alchemico può essere un simbolo interiore dalla valenza protettiva, proprio come il cerchio del cerimoniale magico o il tempio astrale di una loggia esoterica operativa, o gli esercizi di respirazione di una tradizione meditativa. Le energie evocate lavorando con i processi alchemici, come ho detto, possono essere potenti e distruttive per la psiche ed un incontro diretto con queste energie trasformative non dovrebbe avvenire in modo improvviso. Solo attraverso il lungo e ripetuto lavoro interiore possiamo arrivare alla diretta esperienza di queste energie nella loro forma più originaria e fondamentale. L’incontro iniziale è in genere effimero e soffocato da correnti emotive. Solo se avremo la pazienza degli alchimisti di ripetere instancabilmente l’esperienza spirituale, covando sul nostro alambicco interiore, riusciremo a intravedere sia pure un barlume del vero fine della trasmutazione alchemica. E’ dunque di somma importanza soffermarci sulla natura del vaso alchemico al fine di avere qualche indicazione sull’uso di questo simbolo nel nostro lavoro interiore. Prima di tutto dovremo considerare i simboli come schemi di energia. In senso exoterico le cose stanno esattamente così, essendo ovvio che ogni manifestazione simbolica prenda forma nella nostra coscienza mentale come una manifestazione di natura elettro-chimica all’interno della rete neuronica del nostro cervello. Tuttavia, su di un piano più profondo ed esoterico, un simbolo è lo schema delle energie eteriche sottese alla sua manifestazione in varie forme. Quando meditiamo su di un simbolo noi lo troveremo necessariamente mutevole nelle forme; ciò ci consentirà di intuire che la vera natura del simbolo è riposta nel suo schema energetico. Vi sono molte differenti forme di vaso descritte e disegnate nella letteratura e nella tradizione iconografica dell’alchimia. Esiste un’apparente molteplicità di forme di storte, pellicani, bagnomaria, alambicchi, cucurbite etc.. Tuttavia, nel lavoro interiore noi troveremo che tutte queste differenti forme esteriori si riducono a tre forme archetipali, che possiamo identificare nel CROGIOLO, nella STORTA e nell’ALAMBICCO.
Il crogiolo è essenzialmente un vaso aperto, una tazza, un mortaio o un calderone aperto all’esterno ma capace di contenere della materia. Le sostanze e gli schemi energetici possono essere messi nel crogiolo ed essere trattati con diversi agenti, ed alcune parti di queste sostanze possono anche essere eliminate o rimosse al fine di dare il via a un processo di purificazione. Tale procedimento è spesso descritto come ottenibile attraverso la somministrazione del calore. In altri termini, un minerale viene messo nel crogiolo, che viene poi scaldato, il metallo si separa dal minerale e varie impurità vengono disperse nell’aria, oppure le scorie solide si separano dalla superficie del metallo fuso. In questo modo la materia prima, il minerale, viene trasformato nel metallo puro. Comunque, la caratteristica essenziale di questo tipo di vaso e delle operazioni interiori ad esso correlate è la sua apertura. Una trasformazione vi può avvenire perché certe energie o impurità vengono lasciate libere di separarsi e dissiparsi. La cottura non è essenziale in questo particolare processo alchemico. L’azione di un sale coniugato ad un acido per produrre una effervescenza o per produrre un gas, è un altro esempio esteriore di questo processo, come anche la lenta precipitazione o cristallizzazione di un solido in una soluzione. Quando interiorizziamo il crogiolo nella nostra anima, immaginiamo dentro di noi un vaso aperto, che permette di filtrare le impurità e ogni altro aspetto indesiderato del lavoro, così come di accogliere sostanze e forze provenienti dall’universo spirituale. In questo senso, il crogiolo interiore è un calice, la cui parte inferiore contiene e custodisce una sostanza o una costellazione di forze, mentre la parte alta rimane aperta alle influenze spirituali universali. Le energie indesiderate possono liberamente scorrere fuori dal nostro crogiolo e dissolversi nel flusso universale, e, nella direzione opposta, le energie positive possono essere raccolte dal mondo spirituale, libere di discendere nel fondo del nostro vaso interiore. Questo processo può essere un moderato e delicato fluire oppure, in alternativa, si può scaldare il nostro crogiolo interiore grazie all’azione di potenti correnti di energie emozionali, che, all’occorrenza, forzino le trasformazioni. Infatti, quando siamo divenuti esperti nell’utilizzo di queste tecniche queste tecniche possiamo evocare rapidamente e con atto consapevole ambedue queste diverse esperienze: il flusso gentile e delicato e la fase fiera ed attiva, la precipitazione o la cristallizzazione, e, in particolari fasi del lavoro, queste diverse esperienze possono essere applicate alternativamente nel creare una polarità all’interno dell’esperienza interiore, cosa che può aiutarci nel portare a buon fine la nostra opera. Di solito, dunque affrontiamo questi esercizi ponendo alcuni schemi di energia simbolici nel nostro crogiolo interiore, aprendo poi noi stessi alle particolari trasformazioni che possono avvenire a partire da questo esercizio – calcinazione, purificazione, cristallizzazione, dissoluzione etc.. Io spero di scrivere in seguito sulla natura interiore di tutti questi processi alchemici in un numero successivo di questa rivista.
La Storta alchemica, nel suo senso archetipale, è invece un fiasco sigillato. In questo lavoro interiore noi immaginiamo la nostra anima come interamente isolata da ambedue le realtà, sia quella corporea esterna che quella spirituale. Quando noi approcciamo questo esercizio, noi abbiamo tutto quel che ci serve all’interno della sfera della nostra storta interiore, e, per tutta la durata di questo lavoro, ci troviamo in una situazione di completa autoreferenzialità e ci affidiamo per la realizzazione del cambiamento interiore alle sole forze che in quel momento abbiamo in noi. Dobbiamo lavorare per provocare una trasformazione in questi schemi energetici, senza affidarci ad alcuna forza esterna . E’ molto importante, dunque, se vogliamo intraprendere tali esercizi interiori in modo positivo e con qualche speranza di ottenere risultati soddisfacenti, prepararci e porre nella nostra storta interiore tutte le energie ed i simboli necessari per il processo. Di conseguenza, lavorare con questo particolare esercizio richiede un certo grado di preparazione. L’esercizio della storta alchimistica è utile specialmente per lavorare alla sintesi interiore delle polarità. Noi poniamo gli schemi energetici polarizzati legati a, diciamo, uno specifico insieme di simboli, nella nostra fiaschetta interiore ben sigillata, e lasciamo che agiscano indisturbati, interagendo e giungendo ad una nuova sintesi. Il simbolo più comune negli scritti alchemici è l’uomo chiuso in una fiasca con una donna, dalla cui unione viene alla luce un bambino. Di conseguenza diventa chiaro che le forze attivate da questo esercizio sono le nostre componenti maschili e femminili. Ponendo questi schemi di energia simbolica nella nostra storta interiore ed evocando la maniera in cui essi si manifestano e risuonano nel nostro essere, noi possiamo ottenere un contatto con queste componenti psichiche, un incontro positivo. Altre polarità con cui possiamo provare a lavorare sono le nostre capacità logiche e gli aspetti emozionali ed intuitivi, oppure il corpo e lo spirito, o ancora il nostro timore della luce spirituale e la nostra paura della profonda tenebra insita alla materia, oppure possiamo considerare i processi di vita e morte o crescita ed invecchiamento. Dovremo considerare la storta alchemica come un grembo, una matrice in cui il processo di gestazione della nuova nascita avvenga in noi in maniera sicura, per conquistare il suo posto in noi. Se lavoreremo con la nostra storta alchemica per un periodo sufficiente di tempo, noi incominceremo a comprendere l’importanza di questo spazio nella nostra anima, e lo considereremo come una zona creativa di lavoro interiore. I processi alchemici che avvengono in questa storta abitualmente implicano l’incontro delle opposte polarità, come ad esempio Separazione e Congiunzione, o Dissoluzione e Coagulazione. Talvolta possiamo scoprire che la nostra storta interiore si annerisce e nulla sembra avvenire per un lungo periodo di tempo, ma se allora persevereremo, vedremo avvenire i cambiamenti - probabilmente all’inizio si tratterà di semplici barlumi – che dopo un numero sufficiente di ripetizioni delle nostre esperienze, possono dar luogo al sorgere di alcune nuove esperienze interiori. In altre fasi la storta potrà essere piena di movimento ed iridescenti giochi di colore, forme mutevoli, ed in questo caso dovremo aspettare prima di poter trovare finalmente un punto d’appoggio solido, su cui la nostra esperienza interiore possa crescere. Un simbolo o disegno di energia spesso incontrato in questa fase è l’albero o la pianta che fiorisce nello spazio della nostra storta interiore. Un altro simbolo è quello dell’uccello che spicca il volo e ricade dal cielo del nostro mondo interiore. L’ultimo vaso interiore che vorrei prendere in considerazione è l’alambicco. Quando tentiamo di approcciare il nostro mondo interiore mediante l’uso di questa rappresentazione simbolica, dovremmo avere l’impressione di stare estraendo un’essenza da uno dei processi interiori, purificandola e raccogliendola nel nostro essere in modo che diventi una risorsa interiore reale cui potremo attingere a volontà. Questa operazione alchemica corrisponde in qualche modo nel nostro quotidiano esteriore al modo in cui una esperienza di comprensione di qualche aspetto del nostro mondo può interamente trasformare la nostra relazione con esso. Ad esempio la nostra reazione iniziale di fronte ad un nuovo passo della tecnologia, o ad un lavoro non familiare, è una prova carica di incertezze e viziata dalle difficoltà che noi proiettiamo su quella tecnologia o quel lavoro. Se noi riusciamo a capire il funzionamento del nuovo strumento, o riusciamo a capire come si compiono i movimenti di quel determinato lavoro, allora il nostro modo di usare il congegno o di svolgere il lavoro cambia in modo radicale. Un processo simile avviene nella nostra interiorità mediante l’esercizio della distillazione interiore, per quanto si tratti di un piano più sottile. In questo caso prendiamo una determinata qualità positiva del nostro essere, come la nostra creatività, la nostra sensibilità agli altri, o la nostra capacità di formulare pensieri chiari e profondi, e troviamo alcuni simboli che catturino (o almeno avvolgano) l’essenza di questa qualità. Poi poniamo questi simboli nel nostro alambicco interiore e nella nostra meditazione permettiamo a questi simboli di interagire. A un determinato punto del lavoro interiore, dovremmo sentire un’essenza sorgere e separarsi dai simboli specifici e dai sentimenti connessi con la qualità prescelta. Se incoraggiamo questa manifestazione potremo vivere l'esperienza interiore di elevare quest’essenza e di raccoglierla nella parte superiore della nostra anima. E’ allora che diviene tintura. Se scegliamo di lavorare con quest’esercizio sulla nostra creatività, poniamo nel nostro alambicco interiore la nostra idea della sorgente della nostra creatività, rappresentazioni delle nostre passate creazioni o del lavoro che abbiamo in corso, memorie delle correnti emozionali connesse con la nostra esperienza creativa, simboli universali della creatività e così via. In un esercizio di meditazione di questo tipo, che padroneggeremo solo dopo molte sessioni, evochiamo tutto questo materiale nel nostro alambicco interiore e sorvegliamo il processo ed i mutamenti che vi avvengono. Ad esempio, a un certo punto potremo fare esperienza dell’inversione di polarità di vari simboli. Magari all’inizio crediamo che il nostro impulso creativo sia interamente impegnato nella ricerca di una forma ideale e vedremo questa immagine ideale trasformarsi istantaneamente nella sua antitesi, talvolta brutta ed informe, o in un ciclo di metamorfosi che producono schemi disturbanti nel nostro essere. A un certo punto questa fase si concluderà e troveremo qualche simbolo o percezione emozionale emersi dalla meditazione che cattureranno l’essenza della nostra creatività (o di ciò su cui avremo scelto di lavorare). Se nutriamo e sosteniamo questa essenza , allora noi le consentiremo di sorgere e svilupparsi nella nostra anima e la sentiremo permanere come una specie di tintura nel nostro mondo interiore. Se questa tintura viene fissata nel nostro essere, allora potremo richiamare l’esperienza a nostro piacimento. A questo punto scopriremo che una parte delle nostre forze interiori trattengono una eco di tutto il lavoro meditativo intrapreso fino a quel momento e possiamo riconnetterci con questo serbatoio interiore ogni volta che vogliamo. Così, nel caso del lavoro sulla creatività, una volta impadronitici del segreto di questa tintura interiore, se viviamo qualche difficoltà (o un blocco) su delle fasi particolari dei nostri lavori creativi, potremo evocare la tintura interiore di quest’esperienza, che ci aiuterà ad entrare in contatto con le radici della nostra creatività aiutandoci a risolvere le nostre difficoltà. E’ chiaro che, esercizi di questo tipo non sono mai definitivamente esauriti e compiuti, poiché noi stessi cambiamo continuamente in relazione a ciò che ci accade, ma si scoprirà che il lavoro col nostro alambicco interiore è di inestimabile aiuto nel metterci in contatto con le fonti delle nostre qualità positive. In termini alchemici i processi associati con l’alambicco includono quelli di Distillazione, Esaltazione, Fissazione, Proiezione, Moltiplicazione, quintessenza, etc. In conclusione, spero che queste poche indicazioni possano aiutarci a comprendere come la filosofia ed il simbolismo degli antichi alchimisti possano essere con efficacia usati ancora oggi come una vitale forza vivente per la trasformazione interiore della nostra anima. Il "segreto manifesto" dell’alchimia è che noi, come gli alchimisti dell’antichità, dobbiamo sperimentare con il nostro mondo interiore sotto forma di questi vasi alchemici. Allora la nostra vita interiore sarà tinta e trasformata da una nuova ricchezza spirituale.
Adam McLean

7 settembre 2011

- Il Mistico e lo Scienziato – Un dialogo sulla natura dell’UNIVERSO.

Chris: E’ un po’ di tempo che ci scriviamo e-mail sulla teoria quantistica, la natura dell’anima, Dio … perciò quello che vorrei fare ora è vedere se riusciamo a far avvicinare un po’ di più queste idee, in modo che altre persone possano leggerle e commentarle. Possiamo iniziare dicendo qual è la nostra formazione? Perché quello che ha reso la nostra conversazione così interessante è stata la loro diversità. Io sono stato un fisico teorico che lavorava nelle università tra il 1967 e il 1999, quando me ne andai per concentrarmi sulle connessioni con la spiritualità; così sono stato immerso nelle convenzioni della scienza ortodossa. So però che tu sei giunta a questo argomento attraverso una strada molto diversa.
Lyn: Sì, ci sono arrivata per caso. Nel 1994 cominciai ad interessarmi a scrivere storie, in particolare a scrivere romanzi. Nel 1996 avevo già scritto due romanzi non pubblicati e ne stavo progettando un terzo intitolato sorprendentemente “The God Factor” (N.d.T.: Il Fattore Dio)! Però questo non ebbe mai inizio. Invece divenni intensamente interessata a Lawrence, cioè, Lawrence d’Arabia, e scrissi una storia su di lui. Sarebbe esatto dire che mi ero dedicata alla comprensione della verità su di lui e che lo amavo incondizionatamente. Fu durante la scrittura di quella particolare storia che scivolai in una trance al computer. Le conseguenze di questo furono così profonde ed irresistibili che mi portarono a cercare di descrivere e comprendere l’esperienza. Poiché sono un’ex insegnante di scienze della scuola superiore, e perciò ho un’educazione di base scientifica, fu naturale per me cercare di connettere la mia esperienza con questo. Però, vista la natura particolarmente personale ed orientata alla crescita relativa alla mia esperienza, mi sembrava anche essenziale che cercassi di collegare l’esperienza con la psicologia, la creatività e l’amore incondizionato. Perciò da allora ho esplorato connessioni valide tra il misticismo, la scienza e la psicologia.
Chris: Anch’io ho cercato di dare un significato alla totalità della mia esperienza. Quello che ho imparato dalla nostra corrispondenza è che, benché ad un certo livello potrebbe sembrare che parliamo di cose molto diverse – io descrivo teorie scientifiche e tu stai cercando di trovare parole per dire quello che hai sperimentato direttamente – sembra però che ci sia una relazione effettiva tra i due. Penso a questo, come se avessimo finestre differenti sugli aspetti fondamentali della realtà. Ci sono due aspetti che significano molto per me come fisico: la Teoria Quantistica (TQ) e la Relatività Generale (RG). Prima che cominciassimo a scriverci mi ero già fatto l’idea che la TQ non fosse soltanto una teoria sulle particelle atomiche, ma fosse un aspetto della realtà che noi, in effetti, sperimentiamo ogni giorno della nostra vita dal di dentro, per così dire. Quando la osserviamo dal di fuori, è l’imprevedibilità delle particelle, ma quando la sperimentiamo come una proprietà del nostro cervello, è la nostra libertà di scelta. Che attinenza ha questo col modo in cui vuoi usare la TQ?
Lyn: Questo ha una modesta attinenza col modo in cui mi piace usare la TQ; però non spiega completamente quello che ho visto e sperimentato nella trance. Non prende nemmeno in considerazione altre domande riguardo a questo, che ho tuttora. Prima di corrispondere con te avevo un quadro confuso di quello che, in effetti, era la TQ. Pensavo che rappresentasse le scelte derivate dal nostro cervello (mente), piuttosto che l’unità di scelta. La stavo davvero confondendo con una visione interna della RG che avevo: una visione che considera la RG come proprietà fondamentale della mente. Di conseguenza quando parlai con te dovetti rivedere il mio pensiero. Da allora ho cercato di mettere tre cose in prospettiva, cioè la TQ, la RG e la “cosa misteriosa” che vidi nella trance, e poi più tardi in un sogno pre-organizzato. Ora chiamo questa “cosa misteriosa” Personalità (P) e la descrivo così. Immagina di scrivere una storia contenente vari personaggi quando all’improvviso ti è data la possibilità di dar loro un’identità unica e la capacità di scegliere tutto da soli. Questo significherebbe che benché siano ancora i tuoi personaggi nella tua mente, essi hanno ora anche la capacità di decidere. Sono diventati co-creatori. Questo è simile a quello che mi è successo durante la prima parte della trance, tranne che in quel caso mi successe che ero io co-creatrice mentalmente di un potere più alto. Credo davvero che per “vedere” ciò io mi sia elevata in qualche modo, cioè, permessa di vedere un punto di vista più ampio che era più come un punto di vista interiore che altro. Ora credo che la rivelazione consista in questo e che mi abbia permesso di vedere cose in modo nuovo e, speriamo, prezioso. Una tale comprensione venne dall’aver fatto un sogno pre-organizzato. In questo caso l’aggiunta di P rassomigliava all’autofertilizzazione orgasmica della mente. Dopo di questo divenni sempre più convinta che il ruolo di P fosse vitale rispetto alla nostra percepita individualità – la nostra unicità – e co-creazione, essendo anche l’”occhio della mente.” È per questo che penso che i nostri due approcci, benché diversi, sembrino correlati. Però quello che particolarmente mi interessa in riferimento a quello che hai appena detto, è il modo in cui descrivi la TQ come la nostra “libertà di scelta.” Questo mi dice che la TQ ha una sottile relazione con la libertà di scegliere degli esseri umani, come pure con le scelte che fanno. Il linguaggio è ambiguo. Per me è importante chiarire questo perché ho già notato tale ambiguità, e poiché questo argomento si collega bene con quello che ho visto nella trance, ed alcune delle domande che ho sulla relazione tra la TQ e la RG, mi chiedo se sia rilevante. Mi interesserebbe sapere che cosa ne pensi di questo.
Chris: Quello che dici sulla TQ sembra giusto, ma faccio fatica a metterlo in relazione al mio punto di vista! Il mio problema è che mi è stato insegnato che questi ambiti della fisica erano pezzi astratti di matematica, legati all’esperienza solamente attraverso esperimenti molto sofisticati, mentre sembra che tu veda strati dell’Essere che sono alla base del formalismo matematico. Mi sorprende che la tua confusione iniziale sulla TQ sia precisamente parallela alla confusione che ha dominato la fisica. Nella prima fase del soggetto, fino agli anni ’80, la teoria consisteva chiaramente di due parti messe assieme in modo goffo: una parte che descriveva lo sviluppo deterministico nel tempo di una quantità (chiamata lo “stato quantico” o la “funzione onda”) che unificava tutte le possibilità; ed un’altra parte (chiamata “collasso”) che è non-deterministica e legata in qualche modo alla scelta.
Nella fisica attuale ci sono ora molte teorie in competizione e noi non vediamo il suo fondamento. Ma molte di esse insinuano che la TQ “pura” ha a che fare con quello che si definisce “l’unità di scelta” (lo stato quantico) mentre la vera scelta che si fa ha a che fare con la RG. Teorie diverse insinuano questo in modi diversi: Penrose è fermo con la vecchia idea del collasso ma introduce la RG come suo meccanismo; Bohm evitò il collasso dando un ruolo speciale nella sua teoria alla posizione nello spazio (e lo spazio è alla fine governato dalla RG); mentre le moderne teorie di decoerenza ottengono la transizione dal mondo quantico al mondo classico con un meccanismo che (nella fondamentale opera iniziale di Unruh e Zurek che introducevano le interazioni con i campi quantici) è ancora legata in modo cruciale al ruolo di spazio, e perciò in definitiva con la RG.
Ma mancano delle cose dal quadro fisico. La TQ indica anche che la transizione da “libertà di scelta” a scelta propria ha a che fare con l’influenza dei modelli di significato interconnessi della grande dimensione che non sono legati con lo spazio (si tratta del fenomeno di non-località e complementarità). La mia stessa esperienza mi dice che qui la soggettività ha un ruolo fondamentale. Mi chiedo se questo ha a che fare con la tua “cosa misteriosa,” “co-creazione” – P? La possibilità di un anello mancante è eccitante perché, proprio all’inizio della RG, fu riconosciuto che c’era una contraddizione filosofica tra la visione del mondo della RG, che si concentrava sugli assoluti dietro ai sistemi di riferimenti individuali ed aveva adottato un punto di vista “eterno,” e la visione del mondo della TQ che si concentrava sul tempo e la libertà di scelta.
Gli scritti di Bergson e Whitehead mostrano questo problema filosofico molto chiaramente. Sfortunatamente la fisica moderna è stata immersa nelle contraddizioni matematiche tra la RG e la TQ e pensiamo che le contraddizioni filosofiche siano irrilevanti. Quello che tu dici, basato su una visione diretta, sembra indicare un modo di ripensare alle relazioni tra possibilità, scelta, individualità e la distinzione assoluto/relativo.
Lyn: La mia prima reazione è di chiedere, “In che caspita mi sono cacciata?” La mia seconda reazione è di ricordare a me stessa di rimanere calma e lasciare che le idee vadano naturalmente al loro posto. Come te, trovo difficile mettere in relazione i due punti di vista benché non sia convinta che è impossibile. Sono d’accordo che è perché sei abituato a vedere la fisica come pezzi astratti di matematica, mentre io vedo gli strati sottostanti dell’Essere. È per questo che mi chiedo se un certo modo di essere sia stato la causa della trance in primo luogo. Mi chiedo anche se quel “certo modo di essere” abbia a che fare con l’unione della prospettiva interiore ed esteriore, il soggettivo e l’oggettivo, che è quello che stiamo cercando di fare qui. Mi sembra che tu le definisca la prospettiva della prima persona e della terza persona. La tua lezione sulla storia della fisica è stata utile; grazie. Mentre ha evidenziato le sottili differenze tra le teorie mi ha anche permesso di vedere le somiglianze tra di loro. Se capisco bene allora gran parte della confusione che riguarda il modo in cui la TQ e la RG sono relazionate riguarda come l’”unità di scelta” è relazionata alla RG o al classico regno di spazio-tempo. Se questo è il caso allora mi sembra che dobbiamo giungere a una comprensione più profonda di quello che è veramente la RG o classico regno dello spazio-tempo, specialmente per il fatto che tu ed io siamo d’accordo sul significato della TQ. Qui è dove la mia esperienza personale può essere d’aiuto. Prima della trance del 1996 stavo sperimentando una straordinaria transizione. Poiché stavo scrivendo una fiction avevo iniziato a riconnettermi ad alcune parti nascoste di me stessa. Più questo succedeva, più libera e felice diventavo. Però fu quando incontrai Lawrence che iniziai a comprendere pienamente cosa mi stava succedendo. Per merito suo mi resi conto che ero stata imprigionata in un modo particolare di pensiero. Mi consideravo timida ed inadeguata. Un’ansia da leggera a grave era un modo di vita per me. Però in modo miracoloso gli scritti di TE Lawrence, in particolare il capitolo “Me stesso” ne “I Sette Pilastri della Saggezza,” mi diede modo di vedermici riflessa. Quello che vidi in lui era vero anche per me. Come lui, e a me sconosciuto fino ad allora, una parte della mia mente si era rivoltata contro di me, ostacolandomi in tutto quello che pensavo e facevo. Giusto o sbagliato, chiamai la parte della mia mente che si era rivoltata contro di me il mio ego. L’effetto di questa realizzazione fu immediato. Per la prima volta in vita mia sapevo che avevo in gran parte permesso alla paura di dominarmi ma sapevo anche che solo io avevo il potere di affrontarla. Nel frattempo, nonostante la sua tragica storia e strani comportamenti, il mio amore e rispetto per Lawrence stava crescendo. Due settimane prima della trance nel 1996 avevo giurato il mio amore e fedeltà a Gesù che Lawrence stranamente sembrava rappresentare. Era come se fossimo uno strano tipo di triangolo d’amore fatto da Gesù, Lawrence ed io. Ora credo che il mio amore incondizionato per Lawrence sia stato l’equivalente del mio perdono a me stessa. Mi sembrava che duemila anni dopo Gesù stesse ancora lavorando sodo per guarire e resuscitare i morti. In questo modo credo di aver raggiunto un grado di completezza e salute che non avevo provato prima. Di conseguenza, quando rinvenni dopo la trance fu indispensabile che iniziassi la mia ricerca con la prospettiva personale o soggettiva in mente mentre cercavo di farla combaciare con la prospettiva scientifica o obiettiva. Mi sembrava anche che l’amore mi avesse permesso di accedere a parti di me stessa, della mia psiche, che erano normalmente nascoste alla vista. Uno di quegli aspetti era la mente, che ovviamente non era più “rivoltata contro se stessa,” almeno al punto che lo era stata. Devo ancora lavorare sulla paura però. Più tardi, e dovuto a questo, iniziai a capire che la mente può essere divisa o non divisa, relativa o non relativa all’unità o all’interezza e che essa stessa era connessa a tutte le altre cose, inclusa la personalità, e lo spirito che ero diventata nella trance. Tenendo presente tutto questo iniziai a ricercare la scienza di tale accadimento al meglio che potevo, e alla fine entrando nella SMN nel 1999 e parlando con te. Allora quando dici, “Quello che dici, basato su una visione diretta, sembra indicare un modo di ripensare alle relazioni tra possibilità, scelta, individualità e la distinzione assoluto/relativo,” niente potrebbe essere così vicino alla verità. Per me la parola possibilità ha molto a che fare con l’esperienza suprema di unità durante la quale c’è solo consapevolezza. Fu solo dopo, mentre ritornavo in me, che ho acquisito una memoria di quello che ora definisco la “fonte originale di pura possibilità” e la considero di natura simile all’unione che la TQ rappresenta transitoriamente o provvisoriamente. Collego la parola individualità all’iniziale elevazione di me stessa in modo che potevo vedere tutta la mia psiche e forse quella dell’universo in evoluzione. Come ho detto, è come essere un personaggio in un libro di storie che ha preso vita con tutti i vantaggi e gli svantaggi del libero arbitrio che collego alla “cosa misteriosa” chiamata Personalità. Questo non vuol dire che io abbia veramente visto la Personalità. Quello che ottenni fu un’intuizione nella separazione che percepivo della mia mente da una mente superiore, o almeno, un’altra parte della mia mente, e la mente degli altri personaggi. Da allora mi sono chiesta se la “cosa misteriosa” agisca in modi diversi che sono difficili da distinguere e descrivere. Un modo potrebbe essere il meccanismo per l’individuazione che risulta in una percepita separazione dagli altri, come ho capito dalla trance. Un altro potrebbe essere l'agire come lo “specchio della mente”, che contribuisce alla nostra capacità di fare scelte dovute al fatto che possiamo “vedere” e perciò “pensare” ai nostri stessi pensieri. Siamo coscienti di essere coscienti. Facciamo esperienza di noi stessi. Perciò io definirei provvisoriamente la Personalità come quell’elemento nella nostra psiche che è unico, unificante ed assoluto. E sì, questo potrebbe avere a che fare con un “anello mancante” nel quadro della fisica, specialmente perché propongo che P è unico per ciascuno di noi ed è perciò un assoluto, mentre la sua relazione con la RG è meno chiara, possibilmente flessibile. Sono arrivata a questa conclusione sull’individualità e perciò sulla Personalità per il semplice motivo che siamo tutti individui come visto nella trance.
Chris: Prima che andiamo oltre, puoi parlare ancora un po’ dei diversi aspetti della persona? Dobbiamo tenere conto, certamente, del modo in cui è spesso molto artificiale dividere la persona in parti separate. Ma sarebbe bello saperne di più su quello che intendi per “mente” e come si relaziona alla “personalità” P.
Lyn: Beh, nella trance mi è sembrato che tutte le nostre menti fossero interconnesse, tranne che non lo sapevamo, dovuto alla presenza della Personalità. Nella trance la mente può meglio essere descritta come una rete subacquea di interconnessione. Perciò non è un assoluto individuale, come P, ma associata a P, può essere unificata o non-unificata, dove unificata si riferisce ad una mente che è aperta e che ama incondizionatamente e non-unificata si riferisce ad una mente che è psicologicamente gravata o bloccata e perciò che ama condizionatamente.
Chris: Questo è straordinario, perché comincio a pensare alla RG anche come ad una “rete di interconnessioni.” La RG è in realtà un formalismo per prendere i mondi individuali di molti osservatori, e intrecciarli assieme in un intero tessuto di spazio e tempo che va oltre l’individuo. Mi sembra che stai dicendo che anche la mente è così – la mente cosmica esiste in relazioni – così forse la RG è l’aspetto fisico della mente cosmica. Ma vai avanti con l’”unificazione”!
Lyn: Sì, quando è in uno stato di non-unione, la RG ha una relazione particolare a P. La storia dei modelli di pensiero di una persona, o abitudini mentali, è perciò rilevante alla condizione del regno classico dello spazio-tempo. In questo modo credo che il karma e la RG siano correlati. Però in uno stato unificato la RG ha un’altra relazione a P; potrebbe essere che quando la RG si accorda con P allora si acceda allo spirito o unità o eternità o infinito, come è apparso essere il mio caso.
L’elemento chiave nel processo di unificazione, oserei dire, la redenzione, è l’amore incondizionato. Tra P e la RG c’è la TQ che transitoriamente o provvisoriamente unisce le possibilità, cioè, i pensieri possibili, relativi o unificati, che emanano dalla mente. P seleziona da questi, formando il classico regno di spazio-tempo (questa è il cosiddetto collasso della funzione onda). Presumo perciò che P sia la “cosa misteriosa” che ci dà un senso di individualità e in modo co-creativo lotta per la supremazia sulla materia che molto probabilmente è associata alla mente e allo spirito. Probabilmente, è in questo modo che diventiamo co-creatori – costruttivi o distruttivi – con l’universo stesso. In effetti perciò, l’unione di P ha a che fare col lasciar andare, o il perdono di tutte le abitudini o dei modi inibitori di pensare, ed essere liberi ed aperti ai propri pensieri ed alla freschezza della realtà. È uno stato di purezza o integrità.
Per questo si può veder brillare la “vera” persona che sta sotto. L’interiore e l’esteriore divengono Uno. Tutto si riduce al non temere chi si è veramente, che è associato all’auto-accettazione, che è associato al perdono, che è associato all’amore.
Chris: Questo porta la nostra discussione dritto nel cuore della vita. E se è corretta, presenta una grossa sfida per la scienza affermando che l’unificazione della TQ e della RG non è solamente una questione formale, e nemmeno una questione filosofica, ma una questione personale e spirituale.
Lyn: Esattamente; l’idea che questo possa essere il caso fu uno shock per me all’inizio; mi ci volle molto tempo per integrare il cambiamento nel mio pensiero. Ma più ci pensavo più aveva un senso. Fu anche bello, perché significò che oltre alla realtà c’era l’amore, e che l’amore era la base della realtà ed apparteneva a tutti noi.

Lyn Andrews