31 agosto 2009

- La magia dei vincoli



Per cominciare, attorno alla parola “ mago “c’è molta confusione. Il termine usato con connotazioni diverse ( e spesso a sproposito ) può indicare : l’indovino, colui che emette formule incantatorie o invoca le anime dei defunti per mezzo dei loro cadaveri, oppure chi, attraverso i deprecabili cerimoniali dell’arte notoria ( esecrati da Agostino e Tommaso ), cerca e stabilisce un commercio col demonio, e anche altro ancora.
In conclusione: quando si usa il termine “ mago “ ( ammonisce Bruno ) , esso dev’essere preso con una distinzione, se non viene definito prima, oppure, se è preso senza distinzione, dev’essere assunto nel significato preferibile e più alto, secondo l’insegnamento dei logici e soprattutto di Aristotele nel quinto libro dei Topici. Come viene assunto da filosofi e fra filosofi, “ mago “ significa uomo sapiente, dotato di capacità operativa.
I destinatari del discorso bruniano sono, quindi, i migliori ingegni.
“ C’è questa necessità: colui che deve legare deve possedere una teoria universale delle cose, per essere in condizione d’incatenare l’uomo, che di tutte le cose è per così dire, l’epilogo “.
La magia è per Bruno una capacità operativa che può scaturire soltanto da una scienza smisurata.
E il mago sarà veramente sapiente solo se conoscerà prima le ragioni filosofiche che consentono di influire sulle cose. Non potrà rivolgersi all’universo naturale al fine di carpirne i segreti senza possedere quelle conoscenze e senza individuare tutto ciò di cui c’è bisogno per preparare i vincoli, i lacci con i quali “ annodare “ e sottomettere individui e forze.
Perciò anche qualunque mago voglia compiere opere simili alla natura deve conoscere soprattutto il principio ideale, specifico della specie, numerale per il numero o individuale per l’individuo.
Ogni intervento modificatore della realtà naturale è reso possibile dallo “ spiritus universalis “ che, al di là della varietà delle forme, “ è uno per l’universo e insieme e molteplice per la moltitudine degli innumerevoli individui, così come in ogni singolo ente è principio di un moto proprio e singolare, non limitato ad un'unica parte, ma esteso e diffuso a tutte le parti del corpo.
In questa prospettiva appare annullata ogni distanza tra gli esseri del cosmo animato. Tutti gli enti sono legati e tenuti insieme da un’invisibile smisurata ragnatela che consente la comunicazione universale. Munito, dunque, del bagaglio delle giuste conoscenze, il Magus potrà compiere qualsiasi operazione in modo immediato attraverso lo spirito dell’Universo.

29 agosto 2009

- La Parola


Mi piace di iniziare lo svolgimento di questa tematica riportandomi al latino ”parabola” che a sua volta è di derivazione greca ( parabolé ) con il significato di “ mettere a lato per comparazione “. Dunque nel termine italiano di parola si racchiude un intellettivo intendimento allegorico con cui trarne una analogia e su cui intendere una realtà di ordine diverso o meglio nuovo. Ogni parola se usata con impegno, è un simbolo nel senso più esteso ed in essa ciascuno può scoprire un significato ( realtà precisa, fissa, cristallizzata ) oppure una significanza ( realtà tutta da scoprire ). Nel mondo astratto la parola - mito - esprime una creatività dativa sia del parlante sia dell’udente.
DEL LINGUAGGIO SIMBOLICO
Il mondo esoterico utilizza la parola-simbolo, allora l’Azione diventa Rito e l’Iniziato ripercorre un iter, fatto di parole e atti, che evocano un Mito che si proietta in un tempo astorico; così l’Iniziato abbandona il contingente per entrare nel tutto. L’Iniziato nella sua dimensione Microcosmica si commisura nella dimensione Macrocosmica, ritrovando l’Ordine Universale delle cose. Ora la parola ci porta a trasmettere l’intuizione in cui lo Spazio & Tempo dei mortali si annullano lasciando aperta la visione di una realtà dell’ordine, dell’infinito e dell’eternità. Ora la parola non è più discorsiva ma creatrice.
Un esempio tipico di questo atteggiamento intellettivo viene espresso da Paracelso, medico-alchimista che dice: “ quando l’uomo pensa al fuoco egli è fuoco, quando pensa alla guerra egli è guerra”. Il grande alchimista del XVI secolo con le poche parole di cui sopra fa coincidere il Soggetto con l’Oggetto, il Pensante con il Pensato, ottenendo una risultanza lessicale in cui il verbo, che esprime azione, fa dell’Uomo un creatore.
Ancora Paracelso, in uno dei suoi difficili scritti dice: “ io fuori dal mio laboratorio sono sotto a Dio, io nel mio laboratorio ( ho ) Dio sotto di me.

28 agosto 2009

- Massoneria - Volontà di comprendere e conoscere.

Spesso si sente dire sommessamente, quasi con pudore, che “ci sarebbe assoluta necessità di ragionare in maniera logica e critica”, perché purtroppo il “comandamento” ricorrente dei nostri giorni è: “fare prima ancora di capire”.
Guardandoci intorno si avverte l’assoluta carenza di quel “pensare” che indica le opportunità del momento, che evidenzia le contraddizioni, che consente di individuare le priorità e le incompatibilità in tutte le attività umane, da quelle private a quelle pubbliche, da quelle professionali a quelle politiche e via dicendo.
Non si scorge più il senso critico (la critica fattiva è spesso sostituita dalla polemica sterile), non si evidenzia più la capacità dell’uomo di dominare le tecniche e gli eventi, fondamento questo della sua autonomia.
Forse si è smarrita “l’intelligenza speculativa”, quella che costruisce i teoremi della matematica o gli edifici della metafisica e si è ritrovata “l’intelligenza “pratica”, o se preferite l’intelligenza “informatica”.
Oggi, in un contesto tecnologico in continua evoluzione, non si sa più ragionare. Per parafrasare il motto della So-Ham: il “propera” ha preso il sopravvento sul “lente”...
La tecnologia soffoca l’intelligenza umana e le sue capacità ed attitudini speculative. Con l’introduzione dell’informatica la capacità umana di “agire” ha superato di molto la capacità di “prevedere”; ma la tecnologia è importante per ciò che ci consente di fare, non di capire. Gli utenti dei moderni strumenti tecnologici non si curano affatto di comprenderne le logiche che sottendono al loro funzionamento e, come conseguenza, si è persa l'abitudine al ragionamento! La scienza si è, così, ridotta a difendere posizioni via via più difficili, anche perché in una realtà in cui tutto è facile, è conveniente e comodo dimenticare l’ardua complessità delle argomentazioni e delle esperienze tradizionali. Oggi è molto più semplice fare, sia pure virtualmente, che capire; ma allora vien da chiedersi: “Vi è futuro senza ragionamento?“ Purtroppo assistiamo ad un’ascesa di questo “malcostume” dell’assenza di “ragionamento” anche nel mondo Massonico. Basti pensare a quanti “guasti” può creare la facilità di accesso (senza filtro alcuno) ad informazioni “pseudoesoteriche” sulla rete internet o nelle riviste e libri di ogni tipo. Quanti Fratelli (Apprendisti, Compagni e, persino, Maestri) fondano le proprie ricerche e letture esclusivamente sulle “pappe pronte” fornite da Internet, senza (spesso) usare alcuna forma di critica ragionata, ma dando per buono e scontato ciò che viene “scaricato” da siti che potrebbero al massimo essere considerati, con la più benevole adozione della tolleranza, soltanto para-esoterici. Il rischio è quello della “controinformazione”, quando non anche della deviazione. L’insegnamento esoterico è tradizionalmente e strutturalmente graduale, non per una malcelata volontà di creare privilegi per pochi, ma perché l'elargizione di chiarimenti sui “misteri”, se erroneamente forniti e (di conseguenza) malamente intesi, può nuocere anziché giovare all’evoluzione spirituale dell’ ”allievo”. Solo un “graduale” percorso di apprendimento, accompagnato da profonde riflessioni e dalla meditazione, può portare “l’iniziato” alla comprensione ed alla Conoscenza... tutto il resto è puro e vuoto “nozionismo”.
Ho il (fondato) sospetto che sia questo il senso dell’ultima allocuzione dell’Ill.mo e Ven.mo G.M.: la strada per “non perdere le ali...” è quella di ritrovare il senso autentico dello scopo della Massoneria, che passa attraverso lo studio (vero) e la riflessione (profonda) degli aspetti esoterici e simbolici della Tradizione iniziatica di cui la Massoneria è custode. Approfittiamo di questa “pausa estiva” dai lavori di Loggia per “spegnere i computer” e dedicarci alle letture e alle “riflessioni” che arricchiscono il ns. percorso di “iniziazione personale”, ricordandoci sempre che non è necessario leggere Evola o Jung per progredire, ma è sufficiente, talvolta, guardarci intorno o guardare un bel film o ascoltare della buona musica per riflettere quel tanto che basta per risvegliare il ns. senso critico e la ns. voglia di “comprendere” e “conoscere”.
L'iniziazione personale, quella che qualcuno ha chiamato il Maestro interno, ma che in realtà può più semplicemente chiamarsi Meditazione...

“Siediti ai bordi dell'aurora, per te sorgerà il sole.
Siediti ai bordi della notte, per te scintilleranno le stelle.
Siediti ai bordi del torrente, per te canterà l'usignolo.
Siediti ai bordi del silenzio, Dio ti parlerà".

Vivekananda

Jo Benty, M.M.

25 agosto 2009

- Albert Durer e la Melancolia




Albrecht Durer è senza dubbio il più grande pittore tedesco e uno dei principali protagonisti del Rinascimento, sia dal punto di vista artistico che culturale. La sua figura si staglia gigantesca nel panorama dei movimenti intellettuali dei primi decenni del Cinquecento, epoca foriera di profondi rinnovamenti sociali e inquietudini morali e religiose. Durer è stato il primo a rivoluzionare il ruolo dell'artista: non più un artigiano dotato di particolare abilità ma privo di identità e peso sociale, ma un uomo immerso nei problemi del suo tempo, intellettualmente all'avanguardia, punto di riferimento culturale e morale per i suoi concittadini. Le monografie dicono che della sua vita si conosce quasi tutto per via della fitta corrispondenza da lui tenuta, dei suoi diari e dei suoi appunti, tuttavia è proprio quel "quasi" a stimolare la nostra curiosità ed è una delle sue incisioni più celebri ad alimentarla ulteriormente : la Melencolia . Comprendere bene l'ambito storico nel quale è nata l'enigmatica incisione di Durer contribuisce, probabilmente, a renderla un po' meno misteriosa e avvicinarla ancor di più alla nostra sensibilità, sottolineando da un lato come alcune opere siano davvero universali e sempre attuali, perché universali e sempre uguali a se stesse sono le azioni dell'uomo, e dall'altro suscitandoci a volte il dubbio che il lavoro di perfezionamento esoterico ( e dunque massonico) sia una specie di chimera sfuggente o un supplizio di Tantalo, perseguito tutta la vita ma che tramonta inevitabilmente quando questa tramonta, lasciando agli altri il carico di un nuovo, forse inutile ciclo. Il capolavoro è stato realizzato nel 1514, in un momento storico e personale particolarissimo. La madre di Durer era appena morta, gettando il pittore nello sconforto, mentre già numerose nubi si profilavano all'orizzonte. La peste mieteva vittime in tutta Europa, tanto che l'artista era stato costretto a lasciare Norimberga qualche tempo prima. Mancavano meno di tre anni all'inizio della rivoluzione protestante e ovunque serpeggiavano i malumori e le tensioni che avrebbero precipitato gli stati in lotte sanguinosissime. Solo poco tempo prima, nel 1499, Stoeffler e Pfaum avevano pubblicato un Almanacco nel quale i due matematici e astrologi facevano una previsione terrificante: la straordinaria congiunzione di Saturno, Giove e Marte nel segno dei Pesci, avrebbe provocato un raffreddamento generale dell'atmosfera, piogge eccezionali e un nuovo diluvio a flagello del mondo. Il mondo conosciuto, d'altra parte, era improvvisamente diventato molto più vasto a causa dei navigatori che avevano aperto rotte verso paesi fino allora sconosciuti, aprendo orizzonti prima inimmaginabili. Il vecchio mondo cambiava e uno nuovo stava per subentrare e sostituirsi ad esso, anche se pochi se ne rendevano ancora conto. Tra questi pochi vi era Albrecht Durer, spirito acuto e sensibilissimo. Probabilmente in questo momento a qualcuno saranno venuti in mente paralleli tra la nostra epoca e l'alba di quel 1500: la vecchia Terra non basta più, i nuovi confini sono quelli dello spazio, la minaccia atomica e le guerre batteriologiche, odierni diluvi universali, sono eventi più che mai possibili e i fondamentalismi religiosi si radicano sempre più profondamente nell'animo degli uomini. La religione della ragione non soddisfa più e, d'altra parte, l'irrazionalità porta come dote lo scatenamento delle passioni e la follia. L'angelo della Melencolia, lo sguardo perso nel vuoto e gli arnesi di mestiere abbandonati ai suoi piedi, ritrae meglio di mille parole la doppia disillusione dell'umanità che aveva e ha lasciato da parte l'Arte. Nell'incisione i lutti e le tragedie sono simboleggiate dalla cometa che si scorge nello sfondo ed è rivolta verso la città che si specchia nel mare. Saturno, oltre che dal carattere melanconico che dà il nome all'opera e che è assimilato astrologicamente col segno di questo pianeta, è riprodotto dalla clessidra che si vede dietro l'angelo e Giove dal quadrato magico appeso al muro. Il quadrato magico di 4, con i numeri da 1 a 16, è infatti il quadrato che corrisponde a Giove. E' probabile che Durer abbia scelto questi simboli ispirandosi all'Almanacco. La scala appoggiata all'edificio ricorda la scala di Giacobbe, ma l'asse tra uomo e cielo sembra giacere abbandonato, la bilancia penzola inutilizzata e perfino Cupido è ripiegato, pensoso, su se stesso. La parte sinistra dell'incisione è molto suggestiva per la presenza di alcuni simboli messi fortemente in risalto: la curiosissima pietra lavorata, il fornello che brucia dietro di essa, il cane addormentato e la sfera. Soffermiamoci brevemente su di essi, dando solo qualche piccolo spunto di riflessione e lasciando all'intelligenza di ognuno l'ulteriore indagine simbologica. La pietra lavorata attira immediatamente la nostra attenzione, sia per le dimensioni veramente imponenti che per la forma particolarissima. Si tratta di un octaedro composto da sei pentagoni irregolari e due triangoli equilateri. I significati del triangolo e del pentagono sono ben conosciuti ( il primo è la figura elementare della geometria, alla quale ogni altra figura può essere ricondotta; il pentagono è in rapporto con Pentalfa), ma qui voglio far notare che i pentagoni hanno ciascuno tre angoli retti e due angoli di 135° e dunque : 3x90 = 270 e 135x2 = 270. La riduzione teosofica dà in ogni caso 9, simbolo di rigenerazione e immortalità. Altri rapporti numerici sono possibili, ma già questo mi sembra sufficiente a dimostrare, assieme agli altri simboli, che Durer non era a digiuno di nozioni esoteriche, ma anzi faceva parte a pieno titolo dell' inesauribile fiume di pensiero che ha la sua sorgente nella filosofia perenne . E, se è vero com'è vero che il fornello è l'atanor dell'alchimista e che l'umor nero rappresentato nella Melencolia è la prima fase del processo alchemico che conduce alla Pietra Filosofale, è del pari vero che questa Pietra è null'altro che la riscoperta dell'immortalità dell'anima umana e della conoscenza. Il cane addormentato riporta immediatamente alla nostra memoria un altro famosissimo "cane" riformatore dell'umanità: il Veltro di Dante Alighieri. Di passaggio, e senza addentrarmi in un campo che esula da questo studio, faccio notare un particolare molto curioso: un anagramma di Veltro è… Lutero! Ma come e perché lo stato melanconico dovrebbe elevarci alla contemplazione dell'anima e alla riconquista di quell'Uno messo così bene in evidenza dalla sfera ai piedi dell'octaedro? Durer certamente non si discostava dal concetto,caro agli antichi, della conoscenza come facoltà dell'anima. L'anima, prima di incarnarsi nel corpo, conosceva e ricordava tutte le cose. Con il suo precipitare nel corpo queste facoltà si sono oscurate e il processo della riconquista della conoscenza è legato, dunque, alla memoria più che ad ogni altra cosa. Secondo la teoria degli umori, in auge da Aristotele in poi, dei quattro tipi fondamentali di caratteri quello malinconico secco-caldo (ossia di malinconia intellettuale, ispirata), è il temperamento più adatto alla reminiscenza, cioè alla conoscenza. Sull'arte della memoria esiste un ottimo trattato di F. Yates ( L'arte della memoria, Ed. Einaudi) che illustra dettagliatamente quali fossero le tecniche mnemoniche e i risvolti di tale arte nella filosofia antica, rinascimentale e moderna, ma qui mi preme sottolineare come i rapporti tra ermetismo, arte, filosofia, alchimia e religione siano spesso più stretti di quello che non appare a prima vista e riaffiorino, a volte, là dove meno ci si aspetti di trovarli. Alberto Magno, maestro di san Tommaso d'Aquino, nel suo trattato De memoria et reminiscentia , pone, come già Aristotele, una differenza tra memoria e reminiscenza. La prima, sebbene più legata alle sensazioni, è sempre connaturata alla parte sensitiva dell'anima, mentre la seconda è nella parte intellettiva di questa, sebbene conservi ancora tracce delle forme corporee. Il processo di conoscenza, allora, esige che si oltrepassino le facoltà sensitive e si arrivi al dominio più puro dell'intelletto. Ma Alberto Magno, ed ecco dove il legame al quale facevamo riferimento si manifesta, scrive anche : "… coloro che desiderano rievocare [ da reminisci, ossia fare qualcosa di più spirituale e intellettuale del semplice ricordare] si ritraggono dalla pubblica luce in un'oscura intimità: poiché nella pubblica luce le immagini delle cose sensibili sono sparpagliate e il loro movimento è confuso. Nell'oscurità, invece, sono compatte e si muovono con ordine ". E', questa, una descrizione dal sapore pre-romantico che si adatta perfettamente allo spirito e al messaggio della Melencolia ma anche all'Arte alchemica e a quelle filosofie le quali, sebbene non disprezzino i valori dell'esperienza, delle sensazioni e della scienza, dovrebbero infine trascenderli e trasformarli in vera consapevolezza del sapere, e del potere del sapere, a beneficio dell'umanità. L'inquietudine che mosse Durer all'alba del 1500 è la medesima che affligge l'uomo moderno, ma i risvolti esistenziali, oggi più di allora, sono amplificati, stritolati e consumati dall'indifferenza e dalla fretta di dimenticare per passare ad altro, né si vede all'orizzonte un ritorno di ideologie che pure possano dare sapore alla vita. Si ha la sensazione che non resti altro che ripiegarsi su se stessi e ritornare al passato. Dove poserebbe oggi lo sguardo la figura alata di Durer?
raimondodesagro

23 agosto 2009

- Teoria dei colori di GOETHE





"Quelli che compongono con luci di colori la luce unica ed essenzialmente bianca, sono i veri oscurantisti." Goethe
Goethe avrebbe cambiato la sua poesia, i suoi racconti e, probabilmente, anche il resto delle sue opere per la sua "Teoria dei colori ". Johann Eckermann, il confidente degli ultimi anni della sua vita, riporta le sue sorprendenti parole: "Di tutto quello che ho fatto come poeta, non ottengo nessuna vanità. Ho avuto come contemporanei buoni poeti, ne sono vissuti anche di migliori prima di me e ce ne saranno altri dopo. Però, essere stato l'unico del mio secolo che ha visto chiaro in questa difficile scienza dei colori, ebbene sì, di questo vado fiero, e sono cosciente di essere superiore a molti saggi".
Per Goethe, non si tratta tanto di conferma e dimostrazione scientifica, ma di comprensione e verità. Il colore saprebbe essere compreso dalla ragione strumentale. Ci sono campi della conoscenza che sfuggono, a causa della propria natura, all'analisi matematica e strumentale della scienza, dato che attraverso la questione dei colori si profila l'interrogativo goethiano sulla modernità del suo secolo, quello dell'Illuminismo e dei modi di pensare che modificano i discorsi e le rappresentazioni mentali. "Io riverisco i matematici (...) però non approvo che si voglia far abuso delle cose che non appartengono al loro campo e dove questa nobile scienza diviene assurda, come se esistesse solo ciò che può essere dimostrato matematicamente! Per Goethe, il tema dei colori divenne una questione personale, ovviamente non in ragione delle spiegazioni psico-sociologiche (molto spesso tanto volgari quanto illusorie) sostenute dal giovane Eckermann , ma perché la questione metteva in discussione ciò che lui era, a cominciare dalla sua visione del mondo, in quanto il ragionamento elaborato sia nella "Teoria dei colori " che nella "Metamorfosi delle piante " è di tipo matricial e Goethe è senza alcun dubbio uno dei massimi rappresentanti del suo secolo. Il colore deve essere compreso globalmente non analiticamente, deve essere un fatto visuale prettamente sensuale. La percezione dei colori dipende dall'equilibrio della luminosità ambientale: nell'oscurita tutto è nero e niente si può distinguere se la luminosità è eccessiva. Goethe espone nella quarta parte del suo trattato due idee essenziali: l'origine dei colori (del blu e del giallo) a partire dall'oscurità e dalla luce, fino ad arrivare alla nascita del colore "finale", il rosso, per intensificazione di ognuno dei due colori precedenti. Per cui, il rosso, è la risultante dell'oscuramento del giallo e la schiarita del blu. I tre colori intermedi (il verde, il viola, l'arancio) completano la disposizione cromatica essendo l'evoluzione e una miscela dei tre colori principali, infatti il giallo, che proveniente dalla luce, e l'azzurro dall'oscurità, si mischiano per dare il verde e si intensificano per dare l'arancio ed il viola per arrivare infine al rosso. La teoría genética dei colori, che Goethe oppone alla sperimentazione newtoniana, quella della scomposizione spettrale della luce bianca in sette colori essenziali (tra i quali, l'indaco, che è artificiale e introdotto senza dubbio per soddisfare l'analogia tra la gamma cromatica e quella musicale), riunisce l'esperienza dei tintori artigiani e dei pittori, come per esempio Leonardo da Vinci, il quale distingue i colori della luce (come il giallo ed il rosso) da quelli dell'ombra (azzurro e verde). Spiegato in un altro modo, possiamo anche dire che Goethe oppone alla sperimentazione empirica strumentale della luce, la percezione e l'osservazione sensoriale "naturale" degli oggetti e delle loro tonalità cromatiche sottoposti alla luce. Si tratta meno di obiettività e soggettività - il punto del pensatore di Weimar è tanto obiettivo quanto quello del suo predecessore- che di una differenza di natura nella qualità della percezione: una è naturale ed universale, l'altra è mediatizzata, strumentalizzata ed il frutto esclusivo di una cultura definita, quella ottenuta da conferme strumentali che, ha bisogno di affermare la sua "universalità" e la sua "obiettività" anche se in disaccordo con la percezione comune. I colori di Goethe possono essere disposti in un circolo cromatico, nel quale i colori complementari si oppongono diametralmente, o incluso, in uno schema triangolare con i tre colori fondamentali agli angoli, ed i tre colori intermedi ai lati. Questo tema tuttavia non esaurisce tutte le possibilità del colore, come per esempio trattare il castano, il rosa o il grigio, prodotti dal mix tra il rosso, il nero ed il bianco. Sebbene possiamo costituire un secondo circolo o triangolo cromatico, in questa occasione col rosso come ultima componente della decompressione del bianco come del nero, il rosa ed il marrone sarebbero i passi intermedi, mentre il grigio il mix tra nero e bianco. Nel 1969, i linguisti Berlin e Kay dimostrarono che i termini utilizzati dalla maggior parte delle lingue per designare i colori, si riassumono in 11 voci fondamentali, precisamente quelle che definiscono i colori dei due circoli cromatici: "anche se esiste un numero diverso di categorie di colori fondamentali in seno a ciascuna lingua, ne troviamo comunque 11 fondamentali che vengono condivise da tutti, a partire dalle quali le undici voci (ed a volte anche meno) dei colori di base in qualunque delle lingue che vogliamo analizzare, sono sempre rappresentate. Queste undici categorie di colori sono: il bianco, il nero, il rosso, il verde il giallo, l'azzurro, il viola, l'arancio ed il grigio." D'altra parte, Berlin e Kay, scoprirono che esisteva un ordine di prelazione che concerne le voci scoperte, nel caso che certe lingue possedessero un numero molto limitato di termini per designare i colori: "Tutte le lingue posseggono un termine per indicare il bianco ed il nero. Se una lingua ha tre termini per designare i colori allora uno di queste designa il rosso, se ne possiede quattro ne utilizza uno per indicare il verde o il giallo, e così via per arrivare al caso in cui la lingua possedesse più di 7 termini, la quale cosa significherebbe che oltre a quelli di elencati sopra, può indicarne altri come risultante dalle differenti combinazioni e tonalità tra gli stessi di base. " Possiamo allora immaginare una disposizione cromatica a doppio circolo, col rosso posto nel centro, colore essenziale per Goethe, e del quale i linguisti americani ne sottolineano l'importanza, o perfino una disposizione a stella, la quale riunisce i due diagrammi precedenti e nella quale ognuno degli undici colori si situa nelle vicinanze dei colori che gli sono affini in quanto a tonalità cromatica.
Patrice Guinard Trad. di Riccardo Sottani




19 agosto 2009

- Massoneria - Dalla Conoscenza alla Libertà.


Il cammino verso la conoscenza è un lavoro arduo e faticoso. Questo percorso, simile ad un labirinto in cui è facile perdersi, richiede perseveranza e determinazione.L’apprendimento e la continua ricerca necessaria alla sua realizzazione è paragonabile ad un lungo viaggio di cui possiamo solo intuire la meta finale. Per la Massoneria, la Conoscenza rappresenta il fine da perseguire ed il seme da diffondere allo scopo di irrobustire la capacità di autodeterminazione e di progresso dei popoli attraverso la crescita morale e culturale dei singoli cittadini.
LA FUNZIONE FORMATIVA DELLA LIBERA MURATORIA AL GIORNO D’OGGI
Prima di affrontare l’argomento “se e quale funzione abbia la Massoneria nel mondo contemporaneo”, è indispensabile un chiarimento preliminare. La Massoneria in quanto tale non opera, non suggerisce azioni concrete, non formula proposte politiche o sociali. La Massoneria è un Ordine Cavalleresco che, se si immergesse nell’agone politico o sociale, perderebbe le sue peculiari caratteristiche e non si differenzierebbe da altre compagini associative che, pur meritevoli di ogni rispetto, tuttavia nulla hanno in comune con essa.La Massoneria è un’idea, uno stile di vita, un metodo, una scuola iniziatica. Essa snaturerebbe la sua essenza se entrasse in competizione con altre organizzazioni filantropiche, solidaristiche, umanitarie. La Massoneria chiama a sé quegli uomini che, liberi da pregiudizi, onesti cittadini, amanti della verità e spinti dal desiderio di conoscenza, aspirino a migliorarsi. Sono gli uomini e le donne «liberi e di buoni costumi» che la Massoneria cerca per forgiarli, fortificarli, renderli pietre viventi per l’edificazione del Tempio della Virtù. Questi uomini e queste donne, resi migliori dallo sviluppo intellettuale e morale acquisito nelle Logge, saranno portatori nel mondo dei principi e dei valori della Massoneria, dei quali l’umanità ha tanto bisogno.Sono essi, gli iniziati, i messaggeri della Istituzione libero muratoria, ai quali è affidato il compito, di portare nel mondo un messaggio di pace, di speranza, di tolleranza. Ognuno lo farà secondo le proprie possibilità, capacità e le occasioni che gli presenterà la vita. Se avranno assimilato i principi della Massoneria, se saranno dei “perfetti massoni”, ovunque essi si troveranno ad operare, le persone con le quali verranno a contatto si accorgeranno che si tratta di persone dotate di una particolare “luce” e quindi “diverse”, ossia speciali.Queste caratteristiche il Massone le acquisisce frequentando la Loggia, altrimenti detta “Officina”, vocabolo che suggerisce l’immagine di un luogo dove si lavora febbrilmente per la realizzazione di uno scopo comune. E in effetti nella Loggia il Massone lavora alacremente e senza sosta per il proprio perfezionamento intellettuale e morale. Non si potrebbero diffondere nel mondo principi di tolleranza, di libertà, di uguaglianza, che debbono essere alla base della convivenza civile e democratica, se tali virtù non siano intimamente possedute e quindi assimilate (ossia, letteralmente: rese simili a sé).
La Massoneria, formando uomini migliori, può oggi dare un contributo essenziale all’umanità. I suoi valori perenni aiutano ad interpretare i bisogni attuali della società contemporanea e costituiscono un formidabile apporto alla risoluzione dei problemi del mondo moderno.Questa è la realtà, ma la verità subisce deformazioni dovute all’ignoranza o, ancor peggio, alla malafede.Come viene considerata la Massoneria dalla opinione pubblica? Molte errate convinzioni sono suggerite da una stampa malevola e disinformata che ha l’obiettivo di fare scalpore a scandalizzare, piuttosto che informare correttamente il grosso pubblico.I detrattori dipingono la Massoneria come un centro di potere e di affari e come un’associazione nella quale ci si scambiano favori. Inoltre ne affermano la irreligiosità, rispolverando improponibili reminiscenze anticlericali di risorgimentale memoria. I benevoli, ma disinformati, la ritengono una istituzione anacronistica, che si avvale di riti e di simboli che sarebbero ormai superati ed improponibili nell’epoca attuale. Secondo costoro, i massoni, nella più benevola delle ipotesi, sarebbero dei nostalgici che sopravvivono esaltando i fasti di epoche ormai sorpassate in cui la Massoneria aveva svolto un ruolo che ora più non le si addice.Si tratta di giudizi che più che deformare la realtà, la stravolgono. Ai detrattori ci limitiamo a rispondere che le caratteristiche negative che essi attribuiscono alla Massoneria, costituiscono invece i vizi che essa combatte da sempre. L’affarismo è estraneo alla Libera Muratoria, perché ne contraddice i principi statutariamente fissati. Quanto ai pretesi favori che i massoni si scambierebbero (evidentemente in danno di altri), si tratta dello stravolgimento del concetto di solidarietà. Essa, intesa in senso morale ed iniziatico, e non certo in senso materialistico, impegna i massoni tutti, ma non soltanto verso i Fratelli, ma nei confronti di tutta 1’umanità. Anche questo è un imperativo categorico che si impone alla coscienza di tutti i massoni degni di questo nome. Quanto alla irreligiosità, si tratta di un’altra falsità. La Massoneria, nel rispetto delle credenze religiose di tutti, onora l’Ente Supremo che indica con il nome di Grande Architetto dell’Universo, evidenziandone l’aspetto creatore e di artefice dell’Armonia Universale, che ritroviamo in tutte le religioni.Ai più benevoli, ma disinformati, ci limitiamo a dire che la Tradizione, della quale la Massoneria è gelosa custode, non è il culto di un passato che più non esiste, ma la continuità di valori eterni, racchiusi nei simboli e nei riti che i massoni non si stancano di decifrare, perché essi aiutano ad interpretare la realtà di oggi individuando i rimedi più appropriati. Sotto tale aspetto, i massoni, portatori di valori tradizionali, sono degli anticipatori dei tempi nuovi. Facendo nostra una espressione felice, possiamo dire che «la Tradizione è l’essere nel divenire».La Massoneria, quindi, ha un ruolo di primaria importanza da assolvere, attraverso l’attività dei propri adepti, come è stato innanzi chiarito.La funzione formativa consiste in un’attività che potremmo definire educativo-pedagogica. Essa si rivolge innanzi tutto ai propri adepti i quali nelle Logge, uniti dal vincolo della fratellanza, alimentano il proprio spirito acquisendo conoscenze iniziatiche. Essi elevano la propria coscienza, rinsaldano i principi morali, e si abituano progressivamente alla tolleranza, al rispetto degli altri, all’ascolto delle opinioni altrui, con piena disponibilità a rivedere le proprie, all’accettazione delle diversità, nel rispetto della vera uguaglianza. La fraternità suggella il loro rapporto con i fratelli, con i quali conseguono la vera libertà, che costituisce uno dei più ambiti obiettivi del Liberi Muratori.Il lavoro loggiale realizza una sintesi tra elementi in rapporto dialettico tra di loro. Simbolismo e chiarezza razionale, intima concentrazione e proiezione verso il futuro e verso l’esterno, verità di agevole comprensione e scandaglio di verità inesplorate. Ma la coppia dialettica più rilevante è costituita dalla pluralità di persone e dalla valorizzazione del singolo individuo. Ad un modello di uomo ideale fa da contraltare la valorizzazione della personalità individuale.Questi apparenti contrasti furono presi in considerazione dal filosofo massone, illuminista tedesco Gotthold Ephraim Lessing (1729 - 1781), il quale nel suo trattato “L’Educazione del Genere Umano” e nei “Dialoghi per i Massoni” teorizzò che “quello che è l’educazione per il singolo lo è la Rivelazione per l’intero genere umano”, segnalando lo sforzo di integrazione della realtà individuale in un principio oggettivo, concludendo che l’«illuminazione», che costituisce la meta dell’umanità non possa conseguirsi senza che venga perseguito contemporaneamente il fine della costruzione dell’uomo.Johann Gottlieb Fiche (1762 - 1814), nelle sue Lezioni ai componenti della Loggia “Royal York dell’Amicizia” riprende in un certo senso il concetto di Lessing, sostenendo che in una società dominata dalla divisione del lavoro (ossia dalle diversificate esperienze individuali), la Massoneria svolge il compito di operare nella direzione di una cultura umana universale. Scopo dell’uomo saggio e buono è lo scopo finale dell’umanità e la sua massima possibile perfezione. L’individuo cosciente lo pensa chiaramente, a tale scopo egli si pone come meta cosciente di tutto il suo agire.Uomini cosi formati, rappresentano nel mondo altrettanti fari di luce e, pur non avendo alcuna pretesa di insegnare niente a nessuno, svolgeranno una naturale funzione educativa.Quale bisogno vi sia nel mondo che ci circonda dei principi massonici è superfluo dire.La tolleranza, il rispetto dell’altro, l’accettazione del diverso, la necessità del dialogo, sono valori che la società contemporanea sembra avere smarrito del tutto. Lo scenario mondiale è terrificante. La violenza, le pulizie etniche, i genocidi, il terrorismo, i fondamentalismi religiosi, fonte di fanatismo, di intolleranza e di feroce violenza nei confronti del diverso, offrono un panorama di sofferenza e di pericolo per l’intera umanità che non può che spaventare. Sul fronte europeo e italiano, in particolare, il malessere, sia pure in forme meno clamorose, minaccia una convivenza armonica a pacifica. Le disuguaglianze, le ingiustizie, i disagi sociali, la povertà costituiscono un terreno paludoso sul quale si innestano intolleranze, violenze. Il rispetto della persona umana è violato soprattutto verso le creature più deboli: le donne e i bambini. Si impone una visione del mondo che consideri la centralità dell’uomo e gli restituisca dignità. I massoni hanno fiducia nell’uomo e nel suo futuro, ecco perché lo pongono al centro di ogni impegno sociale, nella ferma convinzione che su di esso non debbano prevalere interessi di parte, di qualsiasi natura, compresi quelli di natura economico finanziaria.Il dialogo deve costituire la scelta prioritaria per prevenire le incomprensioni, i contrasti, le lotte, il rifiuto dell’altro, la non accettazione del diverso. Tutti gli uomini contano. Ciascuno è portatore di una sacralità e di una scintilla divina che deve essere rispettata ed alimentata. In ciò consiste la vera uguaglianza, che, se intimamente compresa, porterà all’eliminazione dell’odio, delle lotte, del rifiuto dell’altro.Il massone, entrando nel sodalizio, ha fatto una scelta di vita, si è impegnato ad affrontare le sfide della quotidianità, applicando i principi massonici. Il suo obiettivo deve essere quello di costruire un vero tempio dell’umanità.Si tratta di un compito culturale ed etico al tempo stesso, da una parte rivolto al dialogo, dall’altro all’educazione. Il massone deve dialogare e produrre ogni sforzo perché gli uomini dialoghino fra di loro al fine di conoscersi, accettarsi, rispettarsi nella diversità. Soltanto così potranno essere evitate intolleranze a incomprensioni che portano ai conflitti ed alla violenza.La Libera Muratoria, attualizzando il principio della tolleranza ed impegnandosi per la promozione della persona umana, si fa portatrice di un messaggio che al tempo stesso è perenne ed attualissimo: il rispetto di ogni uomo, l’accettazione delle diversità, la conoscenza dell’altro, l’eguaglianza dei diritti e la giustizia sociale, un mondo cioè nel quale ciascuno possa esprimere al meglio le proprie potenzialità. Questo impegno educativo pedagogico del Massone è rivolto innanzi tutto ai giovani, affinché crescano con i valori massonici del rispetto dell’altro e della solidarietà nei confronti dei più bisognosi. In questa opera il Massone è un educatore e la Massoneria, attraverso i propri adepti, svolge un ruolo formativo nei confronti della intera umanità.La funzione educativa della Massoneria tende a formare uomini liberi. La libertà, che presuppone la centralità dell’uomo, è la massima aspirazione del massone, alla quale si perviene attraverso un percorso di conoscenza iniziatica.La libertà si consegue anche attraverso la difesa della laicità dello Stato. La società multietnica e il coesistere di diverse culture impone alla Massoneria di proporsi come strumento di pace e di universalismo. La laicità costituisce la garanzia di una pari dignità dei cittadini, indipendentemente dalle diversità di fede, di razza di opinioni. E’ la condizione per garantire la libertà di ciascuno, senza che alcuni prevalgano sugli altri, affinché persone diverse con eguale dignità possano coesistere pacificamente e armonicamente.L’opera educativa della Libera Muratoria non si vede, né si sente, ma c’è ed è viva e costante. Pochi onesti sono disposti a riconoscerla e a ritenerla indispensabile per il progresso dell’umanità. La maggioranza che fa opinione preferisce enfatizzare i fatti clamorosi che fanno rumore, ma che non riproducono la realtà ma, soprattutto, obnubilano la verità.
Fr:. Paolo Ciannella

12 agosto 2009

- L'italico dio Giano.

Giano, il più antico degli dei maggiori italici e romani pur senza avere alcun corrispondente nella mitologia greca. Virgilio parla di Giano nel Libro VII dell’Eneide quando ci narra dei profughi Troiani alla ricerca della antica madre. In quell’occasione il poeta ci ricorda che Giano avrebbe “… regnato in Italia prima di Saturno e di Giove”. E Ovidio – per parte sua – ne “I Fasti” e ne “le Metamorfosi” afferma che Giano fissò la propria dimora sul Gianicolo che da lui prese il nome. Giano, che nella più antica religione si era presentato come divinità solare, come alter ego al maschile di Diana, si consolida come divinità che, al mattino, apre e, la sera, chiude le porte del cielo, come ci rivela l’etimo latino di Janua. Giano finì così con il rivestire un posto sempre più elevato nel pantheon romano al punto che un suo sacerdote (il rex sacrorum), nelle processioni aveva la precedenza sui rappresentanti di tutte le altre divinità (compreso il sacerdote di Giove), mentre negli inni veniva invocato come “buon creatore”, cioè come creatore degli uomini (Ianus Pater) e padre Dio degli Dei (deorum deus, ovvero, deorum rex)”, padre in altri termini, di tutti gli uomini, della Natura e dell'Universo. Divenne la divinità dell'apertura e dell'inizio, con caratteristiche simili a quelle della divinità solare che apre il cammino alla luce accompagnando l'attività umana nel corso della giornata. Alle origini della storia religiosa di Roma, Giano dovette essere annoverato anche tra le divinità marine, o – quantomeno – "acquatiche"; secondo una alternativa versione del mito, sarebbe stato il primo dio di Roma (abbiamo detto della sua tipizzazione come italico e latino), dove giunse per mare dalla Tessaglia. Era quindi considerato l'inventore delle navi e il protettore della navigazione, dei porti e delle vie fluviali. Ne conseguì che, in prosieguo di tempo, gli venisse riconosciuta la potestà di far zampillare dal terreno sorgenti e polle d'acqua. Ma cominciamo col vedere se la pretesa tipizzazione romano-latina corrisponda a verità. Si pensi alla iconografia indiana del periodo pre-vedico o dravidico, dove quella caratteristica è una costante direttamente proporzionale alla quantità del “divino” presente in un nume. Chi era in realtà Giano? Proprio la mitologia greca ci parla di uno Ianos, mitico vaticinatore, figlio di Apollo, dal quale si faceva discendere la famiglia dei Giànidi, operanti ed officianti ad Olimpia. Non è quindi un caso che a Giano fosse attribuito il potere dell’inizio, dell’apertura di procedure religiose di particolare solennità (quelle del vaticinio, l’apertura dei giochi olimpici). Né mi sembra un caso che a Giano si attribuissero particolari onori all’atto dell’apertura delle ostilità (era patrono della damnatio ferro inique, cioè della dichiarazione di guerra), né il fatto che il suo nome segnasse il primo mese dell’anno, o che – come ci ricorda Ovidio – in suo onore. il 9 di gennaio si celebrassero gli Agonalia (per propiziare il benessere del popolo romano). Era divenuto, così, una divinità agreste (bicefala) alla quale venne ricondotta la custodia del fuoco sacro, tra due porte, entrata e uscita. Ianua (porta) divenne il segno del suo nome – al centro dell’edificio di culto e domestico – affidato al collegio delle Vestali. A queste porte erano connessi altri due modi di chiamarlo: Patulcius e Clusius (rispettivamente da pàtere e clàudere, aprire e chiudere); le due porte si aprivano in tempo di guerra e si chiudevano alla fine delle operazioni. Mentre il dio assumeva tale forma a Roma, gli Enotri conservavano il ricordo della sua origine e mantenevano la raffigurazione bicefala, le due facce unite per la nuca, che gli valsero gli epiteti di “bifronte”, “gemino”, “bicipite” ma anche “tricareno” e “quadrifronte”. Il che significa che probabilmente esistettero figurazioni con tre e quattro teste…. Giano tuttavia mantenne, come tutte le divinità di origine indo-dravidiche, il significato esoterico relativo alla quantità e natura del divino. Nella sua forma Giano guardava allo stesso tempo, al passato e futuro che in lui coincidevano; in un eterno privo di inizio e di fine impersonò la posizione della terra nell’orbita dell’eclittica, agli equinozi di primavera e di autunno, e nelle feste solstiziali. Il volto del presente era nascosto, perché il presente non si può raffigurare, prima della raffigurazione è futuro, dopo è inesorabilmente passato…. A Roma, quindi, Giano fu signore del tempo (come Cronos) e padre degli dei (come Zeus). Le porte del tempio di Giano si spalancavano in tempo di guerra e nel suo tempio si sacrificava spesso per avere vaticini sulla riuscita delle imprese militari. Giano era preposto alle porte e ai ponti, ma più in generale rappresentava ogni forma di passaggio e mutamento. L’organizzazione più esoterica dell’antica Roma il Collegia Fabrorum et Pontificiorum era dedicata al dio Giano…. Forse una traccia più evidente della sua funzione originale rimase nel suo protettorato sul tutto ciò che riguardava un inizio ed una fine. Non a caso a Giano era intitolato il primo mese dell’anno, Gennaio. Il suo nome sarebbe legato alla sua funzione: un dio delle porte di casa (ianua) e dei passaggi (iani): ne custodiva l'entrata e l'uscita e portava in mano, come i portinai, ianitores, una chiave e un bastone, e fu immaginato con due facce, a custodire entrata e uscita. Giano non fu frequentemente raffigurato nella storia dell’arte. Possiamo trovare solo una allegoria di Antonio Tempesta, Giano e l'aquila personificata, che appare interessante sotto il profilo simbolico. A metà Cinquecento, nel disegno di Tempesta, l'immagine di Giano bifronte che affianca l'aquila del potere rende esplicito il riferimento alla prudenza bifronte. Il serpente che morde in circolo la propria coda è antica raffigurazione del tempo che si ripete, dell'eternità; l'accostamento di queste due figure descrive la funzione principale della prudenza politica, che rimane quella di procurare un governo duraturo alla città. Abbiamo già potuto vedere che nel ciclo annuale Giano apre e chiude le Porte Solstiziali, attraversando le quali il Sole dà inizio alle due metà, ascendente e discendente, del percorso annuale. Il volto maturo e barbuto, simbolo del passato, e quello giovane e gioioso, simbolo del futuro, guardando contemporaneamente indietro e avanti mostrano il potere del Dio sul tempo. A volte Giano ha un volto virile, anziano e barbuto e un volto femmineo, giovane e bello in relazione al primitivo significato di simbolo del Sole e della Luna espresso dalla coppia Janus-Jana o Diano-Diana, con senso analogo a quello della coppia divina di Giove e Giunone. Nel Bifronte si rifletterebbe la concezione platonica dell'anima umana: il volto giovane e bello simboleggerebbe l'aspetto divino dell'anima, attratta verso Dio e splendente di immutabile bellezza; la faccia vecchia rappresenterebbe l'attenzione rivolta alle cose del mondo che, in quanto soggette al divenire, sono destinate ad invecchiare. Il dramma cosmico della morte e della rinascita del Sole che segna nel corso dell'anno l'avvicendarsi delle stagioni e del ciclo della vegetazione è simboleggiato anche dalle vicende di Dei come Osiride, Adone, Dioniso. Lo stesso avvicendarsi di vita e morte, di luce e tenebre, si svolge nel ciclo giornaliero. Osservando che ad ogni morte del Sole, della luce e della vegetazione segue la rinascita, l'uomo deduce che gli tocca la stessa sorte per il valore universale delle leggi cosmiche. In tal senso i Solstizi acquistano anche per l'uomo significati in riferimento al destino della anima, oltre che al naturale perpetuarsi della vita sulla Terra. La tradizione assegna alla Porta del Capricorno un significato positivo in quanto apre la fase dell'anno in cui il Sole cresce e alla Porta del Cancro un significato negativo in quanto dà inizio al semestre oscuro. La Porta Invernale è detta Porta degli Dei, perchè attraversandola le anime ascendono al divino e le influenze superiori discendono sulla terra. La Porta Estiva è detta Porta degli Uomini o degli Antenati perché destinata alla discesa delle anime sulla terra ed al perpetuarsi del ciclo delle esistenze materiali.

10 agosto 2009

IL SAPERE ESOTERICO - LA CAPPELLA SANSEVERO









Nel cuore di Napoli, l’antica Partenope, vi sono pezzi vitali che difendono strenuamente la tradizione. Essi sono pezzi che appalesano, tirandole fuori da un groviglio di modernità che sembra volerle cancellare, le origini della nostra storia. Sempre che qualcuno sappia leggere la lingua in cui la tradizione è scritta. Uno di questi pezzi vitali è la Cappella di Sansevero.
Ma capita che prima di arrivare alla Cappella, chi ha i mezzi per decifrare un passato senza il quale non vi sarebbe il nostro presente, si accorga di luoghi come il quartiere di Forcella, che in antichità era sede di una Scuola Pitagorica. Il nome Forcella, infatti, è sinonimo di “Y”, lettera sacra a quella Scuola. Ancora oggi lo stemma del Sedile di Forcella, uno dei Seggi (o Sedili) in cui la città di Napoli era suddivisa, ha per emblema quella “Y”.
E capita di imbattersi, nel raggiungere la Cappella di Sansevero, nella statua del Dio Nilo, che ricorda come fossero presenti in Napoli forti elementi di cultura e riti egizia. O ancora può capitare di imbattersi nella chiesa del Gesù Nuovo, con una facciata di blocchi di piperno lavorati a forma di piramide, ognuno recante incisa la firma del maestro lapicida, ricordo della presenza di corporazioni muratorie presenti nel XV secolo, antesignane della massoneria speculativa. Tutti pezzi di una storia lontana negli anni, ma recente nelle menti e nei costumi, concentrati in una via, detta Spaccanapoli perché divideva in due metà (come se la spaccasse) la Napoli antica. Spaccanapoli è la via che un tempo, nella topografia greca della città, che comprendeva come tutte le città greche tre Decumani, costituiva quello inferiore. Non è possibile non tenere conto di quanta storia emerga dal tragitto che porta alla cappella da qualunque punto lo si inizi. La Cappella di Sansevero racchiude tutta questa storia come uno scrigno che solo gli uomini liberi e giusti possono aprire. Non vi è altra chiave. Gli altri uomini possono solo apprezzare la scorza che racchiude questa storia. Una scorza fatta di statue di eccezionale fattura eseguite in ricordo dei componenti di una famiglia nobile del XVIII secolo.
Situata nel cuore della Napoli antica, la Cappella Sansevero è un gioiello del patrimonio artistico europeo ed è da considerarsi un capolavoro del Barocco Napoletano. Fondata verso la fine del '500 in seguito ad un evento miracoloso attribuito alla Madonna, ebbe la sua sistemazione definitiva nella seconda metà del '700 grazie al Principe Raimondo de Sangro, staordinaria figura di scienziato e alchimista, che per quasi 30 anni si dedicò "abilmente" all'abbellimento di questo Tempio gentilizio, arricchendolo di splendidi gruppi marmorei tra cui La Pudicizia, Il Disinganno ed il celeberrimo Cristo Velato. Al VII Principe di Sansevero si deve, quindi, il mirabile aspetto della Cappella, così come ora noi la ammiriamo, e quel suo particolare fascino frutto dell'intreccio di bellezza e mistero. L’accesso originario alla Cappella non è quello attuale dal quale si fanno accedere i visitatori, bensì quello laterale, ancora presente e al di sopra del quale vi è una lapide con una iscrizione in latino.
La traduzione dell’iscrizione è:"O viandante, chiunque tu sia, cittadino immigrato o straniero, entra e adora riverente l'immagine della Pietà Regina già da anni prodigiosa. Tempio gentilizio già sacro alla Vergine e abilmente ampliato nell'anno 1767 da Raimondo de Sangro Principe di Sansevero, stimolato dalla gloria dei suoi antenati, per conservare all'immortalità nei sepolcri le ceneri sue e dei suoi. Guarda scrupolosamente con occhi attenti e contempla, ahimé piangendo, le ossa degli eroi cariche di meriti. Quando avrai dato opportunamente culto alla Madre di Dio, un contributo all'opera e, ai defunti, ciò che è giusto, pensa seriamente anche a te. Va' pure."
E già tramite questa iscrizione Don Raimondo spiega a chi entra nella Cappella che può trovarvi varie chiavi di lettura. Egli può soffermarsi a contemplare le statue del magnifico barocco napoletano messe in opera da grandi artisti provenienti da tutta l’Italia come gli scultori Corradini, Queirolo, Sammartino, oppure offrire devozione alla Madonna della Pietà a cui è dedicata la Cappella, o ancora commemorare i defunti a cui le statue rimandano, o infine pensare seriamente a se stesso scorgendo una delle chiavi, la più semplice tra quelle presenti, a patto che si voglia impiegare un po’ di tempo per se stessi. Noi cercheremo di scovare il percorso necessario alla costruzione dell’Uomo, abilmente velato affinché solo chi volesse o avesse le capacità di farlo, potesse svelarlo.
Appena entrati nella Cappella si è subito catturati dallo stupendo Cristo Velato posto al centro della navata. Non era quella la sua ubicazione nelle intenzioni del Principe di Sansevero. Noi cercheremo di non farci distogliere nella ricerca del nostro percorso né dalla bellezza di questa opera scultorea, né dalle guide turistiche che vorrebbero farci visitare le statue nell’ordine cronologico di morte dei componenti della famiglia commemorati. Gireremo in senso antiorario, contrariamente al percorso indicato dalle guide turistiche. E rigetteremo tutte le leggende che vogliono che le statue non siano opera di grandi artisti, ma gioco alchemico di Don Raimondo.
Cominceremo il nostro cammino da una statua il cui nome è Educazione. In essa una donna è intenta ad educare un fanciullo che ha in mano il De Officiis di Cicerone, testo ritenuto dalla cultura ufficiale insostituibile strumento di comprensione del problema morale dell’utile e dell’onesto. Alla base un blocco marmoreo reca inciso: “Educatio et disciplina mores faciunt” (L’educazione e la disciplina formano i costumi). La donna che impartisce l’educazione è seduta sulla base di una colonna, quasi che lei stessa sia la colonna mancante, la colonna che sostiene l’educazione. Il fanciullo simboleggia l’uomo di buoni costumi che voglia intraprendere un percorso iniziatico che lo porti al miglioramento di se stesso. Chi meglio della donna può impartire una giusta educazione ad un uomo. E’ la donna che lo segue dalla nascita fino alla sua adolescenza.
Ma non basta essere di buoni costumi. Nella statua successiva, denominata Il Dominio di se stessi, un soldato tiene alla catena un leone, a testimonianza della superiorità della volontà e dell’intelletto sull’istinto, sull’energia selvaggia e sulla vanità delle passioni. Il dominio sulla natura come simbolo del dominio su se stessi, della libertà dall’irrazionale, della volontà di volersi elevare. Ecco l’uomo libero e di buoni costumi. Pronto a morire per resuscitare a nuova vita. Subito dopo questa statua si oltrepassa l’ingresso alla cavea sotterranea che era la destinazione originaria del Cristo Velato ora al centro della Cappella. Forse sarebbe questo il momento giusto per soffermarsi sul Cristo, perché l’uomo di buoni costumi e libero dalle passioni, entra nel gabinetto di riflessione, simbolicamente muore, ritorna nell’utero materno per rinascere a nuova vita. La prossima statua è denominata Sincerità. L’apprendista da principio al suo percorso iniziatico. Una donna regge nella mano sinistra un cuore, simbolo di amore e carità, di sincerità. Ancora oggi, nella lingua italiana, quando si vuole sottolineare la sincerità con cui si sta dicendo qualcosa si usa una frase idiomatica che recita: “Ti parlo con il cuore in mano”. Nella mano destra la donna regge un caduceo, attributo di Mercurio, simbolo di pace e ragione; due serpenti, come due opposti, si intrecciano verso l’alto in modo armonico attorno ad una verga. Nel complesso marmoreo un putto è alle prese con due colombe simboleggianti purezza e fertilità e, nel linguaggio alchemico, l’albedo della materia grezza che si trasforma in pietra filosofale. Amore, carità, pace e purezza rappresentano gli attrezzi necessari per l’uomo che nasce a nuova vita per squadrare la sua pietra grezza, per modellare la sua nuova vita. Al di sopra della statua un medaglione rappresenta un volto appena abbozzato nel marmo, che è mantenuto allo stato grezzo senza che vi si possa identificare alcun lineamento. L’apprendista ha appena cominciato il suo lavoro. La statua successiva, Il Disinganno, rende bene le difficoltà alle quali andrà incontro. La statua è dedicata al padre del Principe di Sansevero, Antonio, il quale, dopo la morte prematura della moglie, si diede ad una vita disordinata e peccaminosa. Stanco e insoddisfatto delle sue sterili peregrinazioni, egli trascorse gli ultimi anni nella quiete sacerdotale. Simbolicamente la statua rappresenta l’Uomo che si libera dal peccato e dalle sovrastrutture materiali ingannatrici rappresentate dalla rete. Un genietto alato, che aiuta l’Uomo a liberarsi dalle maglie intricate, reca sulla fronte una piccola fiamma simbolo dell’umano intelletto. Sotto i piedi un globo terrestre simboleggia le passioni ingannatrici ed una Bibbia aperta ricorda il libro sacro dei lavori massonici. Nel basamento vi è un bassorilievo che ricorda l’episodio evangelico di Cristo che ridà la luce al cieco. Perché il galantuomo libero e di buoni costumi, il cadavere che vuole risorgere, non è altri se non un cieco che chiede la luce. Ed è proprio quanto ancora oggi si recita nei rituali di iniziazione al primo grado.
Di fronte alla statua de Il Disinganno vi è la delicatissima denominata La Pudicizia. E’ dedicata alla madre, che Don Raimondo perse all’età di appena undici mesi, e raffigura una giovane donna velata con lo sguardo perso nel tempo vicino ad un tronco della vita e ad una lapide spezzata, simboli di una esistenza troppo presto troncata. La sua contrapposizione all’uomo che cerca di liberarsi dalla rete delle passioni bene rappresenta la polarità opposta femminile. La donna generatrice di vita ed in quanto tale iniziatrice. Viene in mente la Sapienza di Dante Alighieri simboleggiata da Beatrice. Una sapienza velata che l’Uomo nella sua nuova vita cerca di svelare. Nel basamento vi è il bassorilievo dell’episodio evangelico del Noli me tangere a conferma di una dolorosa impossibilità di ogni contatto prima che il percorso non sia compiuto.
La statua successiva è denominata La soavità del gioco coniugale. Una giovane donna tiene in alto due cuori con la mano destra, mentre nella sinistra stringe un giogo piumato, simboli gli uni di amore, l’altro di dolce obbedienza. Ai suoi piedi un putto alato regge tra le mani un pellicano, emblema della carità (nell’iconografia medievale il pellicano si lacera il petto per nutrire i suoi figli). Il cammino dell’Uomo che nasce a nuova vita è in uno stato più avanzato. Egli riesce a riunire in sé gli opposti, il maschile ed il femminile. E’ alla colonna “J” del passivo dopo essere stato alla “B” dell’attivo. Il Compagno d’Arte è intervenuto sulla pietra grezza ed ora il medaglione che sovrasta la statua mostra tenui lineamenti. Ma il cammino non è ancora compiuto. La successiva statua lo dimostra. E’ denominata Lo zelo della Religione.
Nella statua Lo Zelo della Religione è raffigurato un vecchio, la saggezza, che solennemente tiene nella mano sinistra una lanterna e nella destra una sferza, simboli l’una della luce della verità, l’altra della punizione dell’eresia, dell’ignoranza. Egli preme il piede su di un libro dal quale fuoriesce un serpente, simbolo della cattiva conoscenza. Ed anche il puttino ai suoi piedi sembra intento a cacciare da un libro le cattive conoscenze con la luce offerta da una fiaccola. L’Uomo nato a nuova vita è intento ad agire sul suo intelletto, preso da uno studio profondo volto a discernere con grande fatica e con l’ausilio della luce il vero dal falso. Che l’Opera sia compiuta è testimoniato dalla statua successiva: La Liberalità. La Maestria è raggiunta. Una figura femminile reca nella mano destra delle monete ed un compasso, emblemi di generosità ed equilibrio. Nella mano sinistra vi è una cornucopia riversante denari e gioielli. Non vi è più pericolo per il Maestro di contaminazione con il metallo. Egli saprà elargire ricchezza e diffondere luce grazie al suo intelletto. Saprà aprire i bracci del compasso guidato dalla sua ragione. Il compasso ha sovrapposto la squadra. Ai piedi vi è un’aquila, animale capace di volare in alto con una visione a tutto largo, e capace di fissare il sole. Il medaglione al di sopra della statua oramai effigia una immagine nitida, levigata.
Siamo giunti al Cristo Velato. Come abbiamo già detto la sua ubicazione originaria era la Cavea sotterranea. Verosimilmente, nel cammino che abbiamo fatto avremmo dovuto imboccare la via della cavea all’inizio. Ma la statua del Cristo Velato è talmente bella che è difficile non concludere il percorso con la sua contemplazione. Ma poi, non è forse vero che al raggiungimento della maestria non possiamo fare altro se non rimetterci in discussione e morire nuovamente per intraprendere il cammino di rinascita ogni giorno?
Esistono sicuramente altre chiavi di lettura della Cappella Sansevero. Altrettanto condivisibili. Una di queste vuole che ognuna delle statue rappresenti una delle funzioni presenti in un Tempio Massonico. Così per esempio, la statua della Liberalità, rappresenterebbe il secondo sorvegliante, nell’atto di pagare gli apprendisti. Molte altre statue che non abbiamo considerato nel nostro percorso devono essere, però, prese in considerazione. A cominciare dalla statua di Cecco de Sangro, raffigurante il Copritore interno. Noi abbiamo preferito raccontare il percorso più semplice, quello che ogni uomo di buoni costumi e desideroso di migliorarsi nel suo intimo può capire ed effettuare. E intimamente abbiamo preferito farlo immaginando di camminare sul pavimento originario della Cappella: il labirinto alchemico, realizzato dal Principe con materiali elaborati da lui stesso.
E come curiosità ci piace completare questo viaggio recandoci nella cavea dove avrebbe dovuto esserci il Cristo Velato. Lì oggi vi sono le macchine anatomiche di Don Raimondo. Fra le molte leggende su Raimondo de Sangro, scienziato e alchimista di grandezza straordinaria, vi è quella che vuole che egli avesse iniettato a due suoi domestici, ancora in vita, un maschio ed una donna, una sostanza che, spinta in tutto il sistema sanguigno, si fosse poi metalizzata lasciando intatto tutto il sistema circolatorio dopo la decomposizione degli organi. Falso! Noi non sappiamo come egli sia riuscito a costruire queste perfette macchine anatomiche, ma esse sono soltanto dei modelli di ricostruzione di tutto il torrente circolatorio. Il lavoro fu compiuto in collaborazione di un medico di Palermo, Giuseppe Salerno. Stupisce anche il fatto che il sistema circolatorio sia riprodotto con tanta verosimiglianza, nonostante, all’epoca, le conoscenze di anatomia non fossero così avanzate. Molti turisti si spingono a visitare la Cappella solo per la presenza di tali reperti. Meglio così. Poi scoprono anche il resto. E inoltre, non è forse stato Don Raimondo stesso nella lapide all’ingresso a lasciarci liberi di “prender” ciò che più ci è congeniale? Nella Cappella c’è così tanto da scoprire che non basterebbe forse una vita.

Fr:. Ettore Mariano Schiavone








5 agosto 2009

- IPAZIA un Simbolo



Ipazia era la figlia di Teone, matematico e filosofo, e di suo padre e del suo insegnamento era l'erede. Le fonti che ci parlano di lei, neoplatoniche o cristiane che siano, non manifestano che ammirazione per questa donna straordinaria: per la sua dottrina, per il suo stile di vita austero e per la sua rinomata bellezza. Ad Alessandria era divenuta una "autorità", e come tale Oreste la frequentava per ottenerne il consiglio. Ipazia è divenuta una figura leggendaria, ed anche un simbolo: ma il nucleo della tradizione che la riguarda è indiscutibile. La testimonianza di un suo allievo, che poi divenne, forse tradendo il suo insegnamento, vescovo cristiano di Tolemaide, Sinesio di Cirene, poeta e oratore, appare decisiva: è la voce ammirata e devota di un uomo che ha compiuto una scelta ben diversa e che appare proprio perciò quanto mai degno di ascolto. Cirillo non poteva tollerare questo cenacolo scientifico neo- platonico. Il suo progetto di "conquista" della città gli appariva come intralciato, disturbato, da questa altra voce, da questo diverso, e vivo, centro spirituale. Rinfocolare la lotta antipagana, creando un bersaglio polemico, serviva proprio a tal fine. Anche in questo caso si trattava di alludere, additare il bersaglio; altri avrebbero operato: «A ciascuno il suo! ». Gli effetti di un così abile modo di procedere si vedono ancora dopo secoli.
L'Enciclopedia italiana, in pieno XX secolo, si esprime così: «Fin dal principio [Cirillo] si distinse per il suo zelo contro i novaziani e i giudei, che, causa frequente di disordini, fece cacciare in una sommossa popolare dalla città; per il che dovette sostenere a lungo l'inimicizia di Oreste, prefetto augustale. A torto egli venne accusato di avere ordinato l'uccisione di Ipazia; ma non è improbabile che i promotori della sommossa in cui ella perì abbiano creduto di fare cosa a lui gradita».
E' all'incirca quello che Cirillo avrebbe desiderato si dicesse.
L'occulto incitamento ad agire consistette nel lasciare intendere che Ipazia, col suo prestigio presso Oreste, costituisse l'unico impedimento alla riconciliazione tra il vescovo e il prefetto. Di lì il passo successivo era breve: eliminare quell'ostacolo. Non mancavano certo, e Cirillo ben lo sapeva, fanatici protesi all'azione, zelanti interpreti di una volontà che non altro desiderava che essere interpretata e tradotta in pratica.
Alla porta dell'accademia dove Ipazia insegnava si affollavano scolari e curiosi, ma Ipazia, avvolta nel mantello dei filosofi - una sorta di «divisa» che fu già propria delle allieve dirette di Platone – attraversava impavida la città, inquietante e turbolenta, per insegnare in pubblico il pensiero dei filosofi greci: non solo Platone, né solo Euclide o Tolomeo, ma anche ogni altra dottrina filosofica greca. Racconta Damascio – il quale visse un secolo più tardi e fece a tempo a subire la persecuzione antifilosofica di Giustiniano – che Ipazia «con indosso il mantello filosofico faceva le sue uscite nella città e spiegava pubblicamente, a chiunque voleva ascoltarla, Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo».
Fu durante una di queste sortite che la aggredirono. In un giorno di «Quaresima» dell'anno 415, i monaci della Nitria, guidati da un lettore di nome Pietro, si appostarono lungo il percorso che consuetamente compiva la carrozza di Ipazia. La assaltarono mentre faceva ritorno a casa. «Tiratala giù dal carro – narra una fonte ecclesiastica contemporanea - la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario.
Qui la denudarono e la massacrarono a colpi di tegole, quindi la tagliarono a pezzi e ne bruciarono i miserabili resti». Damascio aggiunge che le avevano cavato gli occhi dalle orbite mentre era ancora viva. La scena è quella di un sacrificio umano compiuto per il dio dei Cristiani in una sua chiesa.
Il crimine - commenta Socrate Scolastico - «recò infamia sia a Cirillo che alla chiesa di Alessandria». Si coglie bene, grazie a queste parole, che lo storico ecclesiastico non nutre particolare simpatia per il feroce vescovo, ma non osa coinvolgerlo direttamente e personalmente come mandante. Torneremo su questo passo. Damascio, invece, nell'ampio resoconto che dedica ad Ipazia nella Vita di Isidoro, è esplicito sulle colpe di Cirillo: «Cirillo si rose a tal punto nell'animo che tramò l'uccisione di lei in modo che avvenisse al più presto ». Per Damascio non vi è dubbio che fu lui, definito «capo della setta opposta», a dare l'ordine dell'assassinio. Per il moderno critico è imbarazzante dover scegliere tra una fonte coeva ma reticente ed una fonte molto esplicita, certo molto critica, ma successiva di oltre un secolo ai fatti narrati.
È dovuto forse ad un favorevole capriccio della sorte, o piuttosto alla spregiudicata curiosità intellettuale del Patriarca Fozio, il fatto che ci sia in piccola parte conservato un terzo racconto di quella tragica vicenda. Si tratta di un estratto dalla Storia ecclesiastica dell'ariano Filostorgio, nato circa il 368 d.C. e dunque contemporaneo dei fatti narrati (e forse addirittura testimone diretto, ad Alessandria, di quell'eccidio).
L'opera di Filostorgio, in quanto ariano, fu perseguitata, e questo favorì la sua scomparsa. Ma Fozio, nel IX secolo, ne rintracciò un esemplare e lo fece oggetto, pur prendendone teologiche e prudenziali distanze, delle letture collettive da lui regolarmente condotte (anche dopo la assunzione del Patriarcato) coi suoi allievi: letture di cui egli dà conto in modo alquanto caotico nella cosiddetta Biblioteca. Fozio ebbe un così profondo interesse per Filostorgio da lasciare non solo una sintesi della Storia ecclesiastica di lui nella Biblioteca (capitolo 40), ma anche una massa enorme di estratti: i quali si sono salvati in alcuni manoscritti, recanti tuttora l'interessante intitolazione «Dalle lezioni di Fozio», o meglio «Dalla viva voce di Fozio».
Uno di questi estratti è tutto dedicato ad Ipazia. E merito dunque di Fozio aver trascelto quel passo.
Orbene Filostorgio, il quale ebbe anche interessi scientifici, sembra che abbia ascoltato direttamente l'insegnamento di Ipazia e di Teone. Colpisce infatti la precisione con cui afferma che la figlia era divenuta, in campo astronomico, «molto più brava del padre». Qui Fozio abbrevia la sua fonte, e riassume tutto il resto con una semplice frase: «L'empio a questo punto dice che, al tempo del regno di Teodosio II, quella donna fu fatta a pezzi dai sostenitori della consustanzialità».
Oggi questo modo di parlare ci fa sorridere, ma ai fini della comprensione di questa storia può risultare prezioso. Qui infatti Fozio, mentre parafrasa la sua fonte, ne riprende anche le parole più importanti. Di sicuro è Filostorgio che deve aver scritto «i sostenitori della consustanzialità», intendendo riferirsi, in tono sprezzante, agli "ortodossi" atanasiani, ormai vincitori e "padroni" incontrastati dell'ortodossia. Come sappiamo, Atanasio, ad Alessandria, era, come ferreo assertore della «consustanzialità», un personaggio simbolo: dire perciò, in riferimento a quell'assassinio commesso appunto ad Alessandria dai seguaci di Cirillo, che lo avevano commesso i sostenitori della «consustanzialità» era particolarmente sferzante.
Ovvio che Fozio, se parlasse in proprio, non si esprimerebbe così, ma, appunto, sta riferendo quanto legge in Filostorgio, segnalando al più con l'epiteto «l'empio» la propria presa di distanze. E' importante però che ci dia quella esatta informazione: per Filostorgio, dunque, l'assassinio non era opera di una amorfa folla fanatica, era opera di quel clero che, ad Alessandria in modo particolare, spadroneggiava. L'espressione «i sostenitori della consustanzialità» non può riferirsi a generici assassini invasati, ma colpisce la gerarchia, quella gerarchia atanasiana (e perciò da Filostorgio detestata) che ad Alessandria aveva il suo epicentro ed il suo punto di forza. Filostorgio intende dunque denunziare non già un doloroso episodio di fanatismo, ma un crimine dei suoi avversari e persecutori. Quanto pregnante ed intenzionale sia il suo modo di parlare si comprende raffrontando le sue parole con quelle del lessicografo Suida, il quale, narrando di Ipazia, dice che «fu fatta a pezzi dagli Alessandrini», e precisa che solo secondo alcuni l'istigatore era stato Cirillo. Tra questi «alcuni» c' era Filostorgio, testimone diretto di quella vicenda. Socrate Scolastico è più sottile. Non dice che Cirillo istigò al delitto, dice che a lui «venne biasimo» a causa di quell'efferato episodio. E spiega così: «perché stragi, battaglie e simili sono estranee a coloro che si ispirano a Cristo». Parole dosate e ambigue, tanto più da apprezzarsi se si considera l'autorità dottrinale, per la dommatica cattolica, di Cirillo, l'inventore della Theotòkos.
Le parole di Socrate possono in verità significare due cose: che Cirillo non seppe essere un buon pastore visto che sotto il suo governo ci fu continua violenza (e probabilmente Socrate vorrebbe dir questo), ma possono anche significare (in senso benevolo) che, visto il prodursi di tante violenze al tempo in cui Cirillo era vescovo, tutto questo non poté che riverberarsi negativamente anche su di lui (incolpevole).
Molto più esplicito il cronista antiocheno Giovanni Malala, il quale scrive al tempo di Giustiniano. Il suo "localpatriottismo" antiocheno è forse provocato dal favore che Teodosio II manifestò verso Alessandria: favore documentato, secondo Giovanni, anche dalla costruzione della «grande chiesa di Alessandria, tuttora detta di Teodosio». Teodosio - così si esprime nella consueta semplicità il cronista - «amava Cirillo». E la prova della subalterità dell'imperatore (cioè della sua occhiuta tutrice, Pulcheria) verso il potente vescovo tutore dell'ortodossia è per lui la seguente: «In quella occasione gli Alessandrini, autorizzati ad agire dal vescovo, di propria mano gettarono ad ardere nel fuoco Ipazia, la celebre filosofa della quale si tramandano grandi cose».
Sembra chiaro che Malala stabilisce un nesso - ma non chiarisce quale - tra l'affetto di Pulcheria (e Teodosio II) per Cirillo e la liquidazione di Ipazia. La spiegazione di questo nesso la ricaviamo da Damascio: ci fu un tentativo di inchiesta, evidentemente su iniziativa del prefetto Oreste, ma l'inchiesta fu insabbiata. Anche in questo caso ci restano frammenti di informazione: non solo perché anche Damascio, oltre Filostorgio, ci è noto dagli estratti che ne fecero Suida e, ancora una volta, Fozio (altrimenti la Vita di Isidoro, dove tanto si parla di Ipazia non l'avremmo affatto), ma soprattutto perché la fonte giuntaci integra, cioè il prudente Socrate Scolastico, di questa inchiesta non parla affatto, o forse la adombra ancora una volta dietro la criptica espressione che abbiamo prima ricordato. Sono poche parole di Damascio, salvate da Suida, ad illuminarci. Scrisse Damascio: «Questo crimine portò vergogna alla città [è la stessa espressione di Socrate!], e l'imperatore si sarebbe indignato per l'accaduto se Edesio non si fosse lasciato corrompere».
Parole tanto ellittiche che hanno indotto taluno a pensare - ma è ipotesi oziosa - ad una lacuna. La spiegazione possibile è solo una: Oreste chiese un'inchiesta; Costantinopoli non poté non concederla, e mandò ad Alessandria un tale Edesio, il quale non fece nulla perché si lasciò corrompere, evidentemente da quella medesima autorità (il vescovo) che aveva avallato, e forse auspicato, l'assassinio.
A Damascio la vita andò meglio. Quando era ormai vecchio e viveva e operava ad Atene con gli altri neo platonici, Giustiniano chiuse la scuola platonica (529 d.C.) e cacciò lui e gli altri. Essi fuggirono in Persia presso Chosroe I, il quale era curioso di filosofia ed ottenne, per Damascio, il diritto a rientrare nel territorio dell'impero e la garanzia di liberamente professare il platonismo (531). Questo diritto fu addirittura sancito nel trattato di pace tra Giustiniano e Chosroe. E' degno di nota come, al crepuscolo ormai del pensiero greco, la libertà di filosofare venisse garantita ai Greci, contro il loro cristianissimo imperatore, dall'ultimo grande sovrano persiano, della dinastia dei Sassanidi.
I percorsi della libertà sono i più vari, e lo Spirito non spira dove vuole ma dove può. Certo per Giustiniano quella fu una gran concessione se si pensa che, sotto di lui, libri e opere d'arte dei Greci venivano, per fanatica adesione al cristianesimo, bruciati e fatti a pezzi e gettati nel Cinegio «come condannati a morte».
Luciano Canfora

2 agosto 2009

- MASSONERIA - SULLA GERARCHIA


La parola gerarchia ha una storia ormai lunga, che inizia, probabilmente, nei primi secoli d. C. L’adoperò infatti Dionigi Areopagita (o Pseudo-Dionigi), alla gerarchia egli dedicò due opere: “(Della) Gerarchia celeste” e “(Della) Gerarchia ecclesiastica”. Al III capitolo della “Gerarchia celeste” se ne trova la prima definizione conosciuta.In Italia, la parola gerarchia veniva allora ampiamente usata da ciò che si ricorda come Regime. I capi di quest’ultimo furono detti gerarchi.Oggi parlare di gerarchia e di gerarchi è possibile quasi solamente in negativo. Sono esse delle parole dal cui uso si rifugge, per paura, anche quando si potrebbe impiegarle appropriatamente. Si pensi a tal proposito alla parola impero o a fascio, particolarmente nella specificazione fascio littorio; si pensi anche, in un altro ambito, al sospetto suscitato ancor oggi dall’uso di parole come patria, bandiera o infine al recentissimo impiego, volutamente polemico, di parole come arditi e arditismo che, fra l’altro, risalgono al primo conflitto mondiale anche se dal Regime vennero apprezzate, impiegate e celebrate.È istruttivo soffermarsi sulla parola fascio. Il Fascio è un antico simbolo etrusco e romano che è poi riapparso in vari momenti storici fino alla Rivoluzione Francese, in cui è ampiamente rappresentato. Il Fascio compare anche nell’emblema del Rito Simbolico Italiano; perciò possiamo dire con certezza che esso è, almeno per noi, un simbolo sacro. E così, oggi, la gerarchia si riduce a un ordinamento di persone e funzioni in base al principio della subordinazione delle autorità inferiori alle superiori.
Gerarchia è una parola che nacque nella Chiesa e per la Chiesa e la cui forma discende dall’alto poiché “Ogni buon dono e ogni donazione perfetta viene dall’alto e discende dal Padre delle Luci”La gerarchia È tale (ordine sacro) esclusivamente in quanto dono di un Principio Sovrumano che Dionigi Areopagita chiama Principio Iniziatore. Infatti: “…per la nostra adatta elevazione il Principio Iniziatore, nel suo amore per gli uomini, ci ha rivelato le gerarchie celesti e, parallelamente al loro ministero e in rapporto alle nostre forze, ha istituito la nostra gerarchia a rassomiglianza del loro sacro essere simile a Dio; Egli ha rappresentato con immagini sensibili le Intelligenze celesti nelle sacre scritture dei Loghia, in modo da elevarci attraverso le cose sensibili fino alle realtà intelliggibili e dai simboli che rappresentano il sacro fino alle cime assolute delle gerarchie celesti.” L’esistenza di ciò che poi verrà chiamato gerarchia, in senso terreno, trae quindi la sua origine dal Principio Iniziatore. La gerarchia terrestre, trae la propria “forma”a imitazione delle gerarchie celesti. I padri che hanno avuto accesso al Principio della Luce ci hanno tramandato i Loghia e i Loghia ci rivelarono simbolicamente le gerarchie delle Intelligenze Celesti per la nostra elevazione. È un dono. “Lo scopo della gerarchia è dunque di assimilarsi e di unirsi sempre di più a Dio, che da essa viene posto a guida di tutta la scienza sacra e di tutta l’attività spirituale;… ” La Chiesa è gerarchia terrena proprio perché è stata istituita sulla forma donataci da un Principio Sovrumano, in quanto riflesso del sacro ordinamento celeste.In tal senso la parola gerarchia si può applicare alle organizzazioni iniziatiche.“Ogni organizzazione iniziatica è in se stessa essenzialmente gerarchica, tanto che si potrebbe scorgere in un tal fatto uno dei suoi caratteri fondamentali. La gerarchia iniziatica ha qualche cosa di speciale in sé che la distingue da tutte le altre gerarchie nell’ordine profano: ed è che essa è formata essenzialmente da gradi di “conoscenza”, con tutto quello che implica questa parola intesa nel suo vero significato (e quando la si prende nella pienezza di quest’ultimo si riferisce in realtà alla conoscenza effettiva)”Sono considerazioni che danno da pensare. Con il tempo la sostanza della parola gerarchia, dobbiamo riconoscerlo con dolore, è svanita e la parola è divenuta un simulacro, un’orma.
“Decadenza storica e disgregazione del linguaggio si condizionano a vicenda…” Le parole come gerarchia sono però degli indicatori preziosi per chi sa ancora godere della ricchezza che è conservata nelle opere che ci sono state tramandate. È uno sguardo che la rende disponibile in modo misterioso quello che su di esse si posa, silenzioso e riverente.
Possiamo ora con gli occhi della mente guardare al nostro Ordine.Se riconosciamo in esso l’eredità di un Principio Iniziatore o, in altri termini, se ci “leghiamo" a un Ordine di origine sovrumana, lo vivremo come gerarchia e potremo in esso progredire verso la trasmutazione e la trasformazione; altrimenti esso rimarrà per noi una pura virtualità, lettera morta, in senso proprio. La ragione è qui chiamata a una prova di umiltà. Esiste qualcosa che la trascende. Si può affermarlo anche a prescindere dalla fede.L’iniziazione è gerarchia, lo sappiamo, ma non basta; dobbiamo accettarlo. La riduzione dei tempi rende l’accettazione difficile; ancor più difficile e riconoscersi in un ordine sacro. Occorre intelligenza, un lungo profondo lavoro per giungere all’approdo. Primus inter pares: è profondamente vero, l’uguaglianza iniziatica non è egualitarismo.“Sembra d’altronde che ogni idea di gerarchia, anche al di fuori del dominio iniziatico, si sia particolarmente offuscata nella nostra epoca, ed altresì che sia una di quelle contro cui si accaniscono in modo speciale le negazioni dello spirito moderno, il che in vero è perfettamente conforme al carattere nettamente antitradizionale di questo spirito, carattere di cui in fondo l’“egualitarismo”in tutte le sue forme rappresenta semplicemente uno degli aspetti. È nondimeno strano e quasi incredibile, per chiunque non sia sprovvisto di ogni facoltà di riflessione, vedere questo “egualitarismo” ammesso apertamente e proclamato anche con insistenza dai membri di organizzazioni iniziatiche che, per quanto possano essere diminuite o anche deviate da molti punti di vista, conservano pertanto necessariamente una certa costituzione gerarchica, in mancanza della quale non potrebbero sussistere in alcun modo.”
RITO SIMBOLICO ITALIANO
Viator (A. C.)

1 agosto 2009

- L' Esploratore

Ragazzi bianchi, neri, gialli, cattolici, musulmani, buddisti, italiani, inglesi, africani... Ma in realtà i ragazzi sono tutti uguali, tutti pieni di voglia di incontrare l'avventura nel desiderio di rendersi utili. Molti anni fa, però queste idee sembravano assurde. Immaginate Londra ai primi del Novecento: sfilano i soldati a cavallo e i ragazzini dei quartieri poveri li ammirano a bocca aperta, senza sapere che un ufficiale li sta osservando.
E' lord Robert Baden-Powell. Appena tredicenne ha messo per iscritto le sue idee. "Farò in modo che i poveri siano ricchi... Non si può essere buoni solo pregando, bisogna sforzarsi di fare di tutto per essere buoni." Ora Robert é andato in guerra; l'Inghilterra combatte nel Sud-africa i ribelli Zulù. Una notte, Robert veglia un bambino nero che muore e per ricordo egli prende la sua collanina di perline bianche e nere e decide di dedicare la sua vita a tutti i ragazzi. Robert si é anche accorto che i ragazzi sanno agire da uomini, se ben guidati. Lasciato il servizio militare, Robert nel 1908 per la prima volta organizza un campeggio all'aperto in un isolotto; vi partecipano 24 ragazzi, e se la metà di essi provengono dal più aristocratico collegio inglese, l'altra metà é formata dai più poveri ragazzi di Londra.
Eppure, contrariamente ad ogni attesa, l'armonia é perfetta. Nasce così lo scoutismo, cioé l'organizzazione dei "Giovani Esploratori", riuniti in gruppi per fare sport, per imparare a conoscere la natura, per divertirsi, ma anche per affinare le loro belle qualità; la generosità, la lealtà ed il coraggio. Bastano pochi anni e gli Scout sono noti nel mondo. E ci sono anche le ragazze, perché Robert ha organizzato con la sorella Agnes anche i gruppi femminili. Avete letto il " Libro della Giungla" di Kipling? Proprio pensando al piccolo Mowgli che vive con gli animali, Robert ha istituito anche i "lupetti" gli esploratori dai 7 agli 11 anni. Robert é morto nel 1941, ma molti lo ricordano quando ai campeggi cantava coi ragazzi vicino al fuoco, o insegnava loro a spaccare la legna e a ripetere i versi degli animali. In Italia gli scout sorsero nel 1916 ed ebbero l'approvazione del Papa. E' bello pensare che il simbolo degli Esploratori é il giglio che rappresenta il candore e la pace. Conoscete il 4° articolo della Legge che dice : " L'esploratore é amico di tutti e fratello di ogni altro esploratore di qualunque nazionalità, classe o religione." Insomma il generale Robert Baden-Powell ha abbattuto le frontiere e per primo ha voluto che voi ragazzi vi sentiste " cittadini del mondo".
Bellissimo, lo scautismo, da piccolo anche io ne facevo parte. Quindi una soddisfazione esplorativa che ho soddisfatto.
Oggi, uomo, sono un libero muratore, e non riesco a comprendere come qualche fratello possa considerare i nuovi iniziati: esploratori e non liberi muratori.
Mi vengono dei dubbi, o questo fratello non ha capito niente della massoneria, o ha evidenti problemi di insoddisfazione adolescenziale vissuta in solitudine e scaturita dalla lettura di un libro di Rudyard Kipling.