11 giugno 2012

- Il mito narra le tragiche morti dei figli degli dei.


Dopo molti anni di letture disordinate mi sono trovato a cogitare su certe situazioni, credenze e costumi di popoli antichi e ad accorgermi che questi, magari sotto vesti diverse, si ritrovano quasi in ogni altra parte del mondo. Esiste una scienza che studia questi fatti, l’antropologia, di cui però so poco. In verità, fra i miei testi ci sono, a parte “Topolino”, i classici greci, il Ramo d’oro di Frazer, e qualcosa dello psicanalista Jung, profondo studioso di culture e di religioni primitive, fondate su quello che chiamò “inconscio collettivo”.
Poi ammetto che considero mito e religione sinonimi.
Comincerei dal mito egizio di Osiride, che, come sapete, è il più antico e documentato, anche se di esso vi sono versioni leggermente diverse. Ciò che qui m’interessa è il tema della fertilità e della rinascita della natura, il ciclo delle stagioni, il tema della morte e della resurrezione. Dal nun, caos, tutto ha origine. Partiamo sommariamente da una cosmologia, che non è l’unica, e che vede al principio l’esistenza del Nun, elemento liquido, identificabile col Caos dei greci, cioè una massa non organizzata che contiene i germi della vita. Da questo Caos viene fuori il Sole, il dio che crea se stesso, dagli egizi raffigurato come uno scarabeo, e chiamato Ra Helios ed è il re degli dei. Ra crea le sostanze divine del secco e dell’umido, cioè il Cielo, in egizio Nut, e la Terra, Geb, dalla cui unione nascono quattro figli: Iside, Osiride, Seth e Nefti. Di questi, Seth e Nefti sono sterili. Invece Osiride e Iside, che costituiscono il ponte di passaggio tra la creazione e gli uomini, tra il mito e la leggenda, rappresentano il prototipo della coppia reale, faraonica. Osiride è il dio delle messi e della fertilità, collegato al vino, alla vegetazione e all’acqua, che con le piene del Nilo apporta vita alla terra d’Egitto.
Arriviamo ora all’evento più importante, che probabilmente allude alle lotte per l’unione fra il basso e l’alto Egitto. Osiride, primo faraone, è assassinato a tradimento dal fratello Set, tanto somigliante al biblico Caino, per usurpargli il trono. Seth fa a pezzi il cadavere e ne disperde le membra per tutto l’Egitto. Iside, sua sposa fedele, con l’aiuto della sorella Nefti, va alla ricerca di questi resti, li trova e li ricompone, imbalsama il corpo di Osiride e gli dà sepoltura. Ma la regina vedova è incinta, partorisce un figlio postumo, Horus, raffigurato con la testa di falco, omonimo del dio solare, duplicato di Osiride, che in qualche modo in lui risorge dalla morte.
Ecco la prima morte e la prima resurrezione di un dio.
Il divino raggiunge gli umani e li governa
Se ora dall’Egitto ci spostiamo in Grecia, intellettualmente molto più evoluta e articolata, e al vicino Oriente, duemila anni dopo, ci troviamo di fronte a un mondo profondamente immerso in una dimensione esistenziale e religiosa. Ogni evento umano ha una corrispondenza nel soprannaturale e nel divino. In verità, si ha la sensazione che i Greci, più che tendere al divino, cerchino piuttosto di farlo scendere sulla terra, di umanizzare gli dei, tanto da attribuirgli qualità umane, tanto da dialogare con loro. In realtà antropomorfizzano le proprie voci interiori e il proprio inconscio sotto forma di divinità. Uno psichiatra, oggi, potrebbe definire questo come un comportamento schizofrenico. Difatti, fra gli dei sono comuni la gelosia, l’invidia, l’ira, la vendetta, la menzogna, la truffa, l’omicidio, lo stupro. Basta leggere qualche pagina di Aristofane.
Quasi lo stesso che càpita agli Ebrei.
Geova parla, anche se nascosto, con Adamo, con Abramo, con Mosè, con altri profeti.
E’ iroso, (Num. 32:13), intollerante, (Gen. 6:7), vendicativo, (Isa. 34:2), incita all’omicidio, (Deut.13:9 – Gen. 21:22), al genocidio, (Gio. 3:10), permette l’adulterio, (Gen. 16:4), l’incesto, (Gen. 19:36), in plateale contraddizione con i dieci comandamenti, (in verità copiati pari pari dal capitolo 75 del Libro dei morti egiziano, più antico di 2000 anni), e che, all’occasione, un Abramo, un Davide un Giacobbe, un Salomone non si fanno scrupolo di violare, restando prediletti da Geova. Lo strazio e la morte di un dio ... che risorge.
Esaminando i miti orfici e dionisiaci, siamo colpiti dal fatto che queste storie presentino diversi elementi fondamentali comuni a quelle degli altri popoli. Vediamo Zeus, padre degli dei, che sotto l’aspetto di serpente (!) seduce Selene, la figlia di Cadmo, re di Tebe. Da quest’incontro nasce Dioniso, bimbo semidio che sarà allevato dal re Atamante e da sua moglie. Nella mitologia greca Dioniso rappresenta la parte più primitiva e irrazionale dell’uomo, a differenza di Apollo, che corrisponde alla parte più razionale ed evoluta.
Si narra, dunque, che, Dioniso, da giovane, invita le figlie del re Atamante a partecipare ai suoi riti: le tre sorelle rifiutano ed egli, offeso, le fa impazzire. Per questo, una di loro fa a pezzi il proprio figlio e insieme se lo mangiano. Infine Dioniso viene rapito dai Titani, giganti che simboleggiano le forze della natura. Aveva cercato di sfuggire ai rapitori assumendo l’aspetto di un caprone, di un leone, di un serpente, di un toro. Ma proprio sotto la forma di toro, i Titani lo catturano e lo fanno a pezzi e ne mangiano la carne cruda. Per vendicarlo, Zeus stermina i Titani con un fulmine e dalle loro ceneri nascono gli uomini, che in tal modo partecipano anche di Dioniso: quindi anima divina, e corpo terrestre, perché portano in sé la parte dei Titani. Però la dea Atena recupera e riunisce la testa e i resti di Dioniso, che così risorge, e sale nell’Olimpo, fra le altre divinità. Cambiano i protagonisti, ma la storia, o meglio, il rituale si ripete. In comune:
la follia provocata dal dio,
l’uccisione del figlio maschio,
il farlo a pezzi,
il cibarsene.
Lo smembramento e la resurrezione di Dioniso rappresentano il mito cosmico dell’eterno rinnovamento, della morte e della rinascita, e del ritorno al caos come presupposto di nuovo ordine cosmico. Così la lettura del mito diventa chiara: la creazione nasce dall’unione fra il cielo e la terra (Zeus con Semele, chiamata anche Persefone). La ripetizione del sacrificio del figlio di Zeus, lo smembramento e la consumazione del suo corpo, garantiscono fertilità e abbondanza, e in termini traslati, simbolici, partecipazione della divinità e promessa di salvezza eterna.
Lo stesso mito per popoli diversi.
Il mito della fertilità e del rinnovamento della natura collegato all’avvento di un dio sulla terra, alla sua uccisione e resurrezione, è tra i più diffusi: lo si ritrova in civiltà tra loro molto remote, come la mediterranea e la polinesiana. Mircea Eliade descrive il rito di una setta indiana che usava comprare uno schiavo, da destinare a vittima sacrificale. Lo tenevano con loro per alcuni anni, gli permettevano anche di sposarsi e avere figli. Infine, con una cerimonia a carattere orgiastico, lo consacravano e lo veneravano per parecchi giorni. Poi, dopo averlo drogato, lo strangolavano e lo tagliavano a pezzi. Ogni villaggio riceveva il suo pezzo che veniva sepolto nei campi, perché portasse la fertilità. Non fece così Seth con il corpo di Osiride? In tutta un’altra parte del mondo, in Messico, racconta uno dei primi missionari spagnoli, Bernardino de Sahagun, gli atzechi facevano questa cerimonia: formavano con una pasta di farina la statua di un dio, la facevano a pezzi, davano da mangiare al re il cuore, dividendo fra il popolo il resto del corpo.
Chiara allusione di più antichi sacrifici umani. Parliamo ancora di Dioniso
Ma torniamo al mito di Dioniso, a un episodio di Dioniso giovane, che costituisce la trama della tragedia Le Baccanti, di Euripide.
Teniamo presente che Euripide, come del resto fa Omero, riferisce nel 400 a.C. leggende di molti secoli prima. Dunque: Dioniso, sotto la forma di un giovane, con lunghi capelli che lo fanno sembrare una ragazza, arriva dall’oriente a Tebe, con un seguito di donnacce sbrindellate, che battono tamburi, suonano flauti, ballano e cantano, turbano la quiete pubblica. A proposito, l’ingresso di Dioniso a Tebe non ricorda quello di un altro figlio di un dio, a Gerusalemme, fra turbe di sventolatori di rami di ulivo, che gridano e cantano? E poi viene incarcerato come pericoloso terrorista e poi crocefisso? Il giovane re di Tebe, Penteo, ordina ai suoi soldati di imprigionare questo disturbatore e di tagliargli per punizione i capelli. Dice Euripide:
“….è arrivato qui uno straniero,
uno stregone, un incantatore, dalla terra di Lidia,
con i riccioli biondi, e la chioma profumata,
con la faccia colore del vino, e le grazie di Afrodite negli occhi:
passa con le ragazze i suoi giorni e le sue notti,
e le seduce, con l’aiuto dei suoi misteri giocosi.”
Penteo guarda Dioniso come uno sceriffo del Texas può guardare un predicatore, un santone che invade il paese con una turba di donne di malaffare. E’ ovvio che lo sbatta in galera e voglia giustiziarlo. Ma in questo caso ad essere offeso è un dio. Penteo commette un sacrilegio! Sulla scena il coro grida vendetta al cielo.
Dioniso vendicato dalle baccanti
La punizione non tarda a venire. Trema la terra per un violento terremoto, (anche un’altra volta la terra tremerà per la morte di un dio), crolla un’ala del palazzo, il dio risorge dalle tenebre e ritorna alla luce e alle sue donne.
Dice Euripide:
“O donne barbare, percosse dalla paura, perché siete cadute così per terra?
Suvvia, alzatevi…”
Non erano delle donne a cercare i resti di Osiride? Non saranno delle donne a cercare nel sepolcro un altro dio risorto?
Dioniso si vendica:
Penteo è privato della ragione, non ha più volontà, è plagiato, ora è lui il prigioniero. I ruoli s’invertono. Dioniso lo porta sul monte Citerone, dove sono radunate le donne, le baccanti, che si sfrenano nelle loro orge rituali, e queste, invasate, sotto l’effetto del vino e delle danze, aggrediscono il re Penteo, lo fanno a pezzi e lo divorano. Ed è proprio sua madre, la regina, anche lei baccante irretita da Dioniso, che non lo riconosce, e lo uccide e ne porta la testa su un palo. Poi danza, come danzerà Salomè per Erode che le ha donato la testa di Giovanni Battista. Di Penteo ucciso dalla Baccanti c’è a Pompei, nella casa dei Vetti, un bellissimo affresco. Penteo così viene trasformato in capro espiatorio, in vittima sacrificale, sostituto e immagine di colui al quale viene sacrificato. Infatti, ricordiamo che anche Dioniso era stato mangiato dai Titani. Caratteristica del mito dionisiaco è il suo aspetto tragico: la madre uccide, sbrana e divora il proprio figlio, che è un dio, nutrimento terrestre e comunione degli uomini. Se pensiamo a Freud, questa omofagia del figlio da parte della madre induce a sospettare un incesto.
Una lettura del mito
Certamente rappresenta l’opposto del parto e dell’allattamento, la negazione del dare la vita, un ritorno alle origini, al caos primordiale, perché solo così il ciclo della creazione possa cominciare da capo. In termini religiosi ed esoterici il greco Dioniso e il romano Bacco rappresentano tutti i fluidi vitali, acqua, latte, vino e sperma, che sono alla base degli antichi riti agricoli della morte e resurrezione delle divinità della natura.
Per questo motivo in alcune immagini primitive il Cristo, soprattutto in ambiente orientale, è raffigurato fra i tralci della vite, come Dioniso.
Lo scenario cristiano
Terzo grande scenario da prendere in considerazione è quello cristiano, apertosi 400 anni dopo la morte di Euripide. Una nuova religione sta per sostituirsi alle precedenti, nuovi miti sostituiscono gli antichi. Già prima abbiamo trovato tanti punti di contatto con la tragedia di Euripide: vi sono addirittura espressioni sovrapponibili e situazioni analoghe.
Euripide faceva dire a Dioniso: “Ho lasciato la mia forma divina, ho assunto una forma mortale…” E ancora: “Da molto tempo Zeus, mio padre, ha stabilito queste cose…” E più oltre:“Dov’è il dio? Non si manifesta, infatti, ai miei occhi.” “E’ accanto a me: ma tu, che sei empio, tu non lo vedi.” Non sembrano parole dei vangeli ?
La liturgia cristiana è la continua ripetizione simbolica della nascita, della vita, della morte e della resurrezione del figlio di dio, avvenimenti disposti nel ciclo dell’anno solare, in singolare analogia con solstizi ed equinozi, con la semina autunnale, la fioritura primaverile, il raccolto estivo. Alla base di tutto la necessità, miracolosa, per il seme, di morire nell’oscurità della terra, per poter fruttificare. Il pensiero corre indietro al mito di Persefone, che vive sei mesi negl’inferi, e sei mesi sulla terra. Solo che, in un rituale che è ri-creazione, cioè nuova creazione, continua ricapitolazione della morte e della resurrezione di un dio, il tempo cosmico e il tempo storico si identificano. E anche le figure, e le situazioni, sono opposti di un’unica persona: nel Cristo coesistono il dio padre e il figlio di dio; il dio creatore e il dio uomo. Egli è contemporaneamente il sacrificato e il sacrificatore, attraverso la bocca del prete, che è nello stesso tempo suo vicario e suo carnefice. Come l’altare, che è nello stesso tempo tavola dell’ultima cena e tomba; la croce che è insieme strumento di tortura e simbolo di salvezza; l’ostia che è nello stesso tempo corpo del sacrificato e alimento dell’anima; la via crucis che corrisponde alle violenze e alle profanazioni dei riti pagani e nello stesso tempo è un itinerario verso la resurrezione. E la divisione dell’ostia in due parti, che il prete fa sopra il calice, (prima di mangiarla), e la distribuzione della comunione ai fedeli, (che la mangiano), non ricordano per caso i corpi fatti a pezzi e mangiati, come nei riti pagani? Ma è il Cristo stesso che nell’ultima cena spezza il pane, che è il suo corpo; fa bere il vino, che è il suo sangue. (Anche se la Bibbia proibisce di bere il sangue.) Questa dualità e questo contrasto costituiscono gli elementi indispensabili per il verificarsi del dramma rituale. Dramma nel quale lo spettatore, cioè il credente, deve per forza credere, per poterne far parte. Parlo di dramma, ed in effetti la liturgia è una recita, anche se oggi non più così teatrale come le sacre rappresentazioni del Medio Evo. Il figlio di dio nasce ogni Natale, (che fra l’altro coincide con la festa del Sol Invictus persiano, cioè la resurrezione di Mitra), muore ogni giovedì santo, risorge ogni Pasqua. I fedeli lo uccidono con i loro peccati e, moderni cannibali, se ne cibano per rinascere essi stessi e per partecipare al divino.
Per concludere: non è qui prevista l’avventura in una disputa teologica.
Tutti questi miti costituiscono un patrimonio di simboli trasmessi da generazioni preistoriche fino ad oggi, originati da esperienze, emozioni, leggende, storie, poesia, in cui si può trovare tutto e il contrario di tutto. Può essere interessante interpretarli e la massoneria invita a farlo.
Quindi osservazioni antropologiche sono, e tali restano.
Però, la mente corre alla giustifica di Tertulliano: “credo quia absurdum”.
Significa quindi che bisogna credere ai miti, alle invenzioni, alle mistificazioni?
Il bello, anzi il vero assurdo, è che proprio in base a questa affermazione, la maggior parte degli uomini si professa credente.
Fatti loro, naturalmente.
Ma ci sono anche gli uomini del “Cogito, ergo sum”.
Esisto, dice Cartesio, solo perché penso, perché indago i fatti e cerco di dimostrarne le cause, la natura, il fine.
E’ ovvio che millenni di fede rivelata, e imposta, (e anche i filosofi hanno avuto la loro parte) hanno condizionato, quasi geneticamente, l’uomo al bisogno di una metafisica che gli dia conforto, che soprattutto - questo è il nocciolo del problema - lo liberi dal terrore della morte.Tuttavia non sarebbe male ricordare le tranquillizzanti e serene parole di Immanuel Kant: “Il cielo stellato sopra di me, la mia coscienza dentro di me.”
Parole che lasciano uno spiraglio aperto al mistero, cosa oltretutto molto poetica, - e la poesia può imporsi lì dove la conoscenza scientifica e la ragione non arrivano, o non sono ancora arrivate, - ma, al tempo stesso, umilmente e orgogliosamente, è affermata la sacralità autonoma dello spirito umano.
Purtroppo, come ammise il romano Sallustio:
Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre.

Da Opus Minimum
Francesco Bianchi

note:
1 Ogni creazione parte da un incesto, anche se, com’è stato accertato, in Egitto la pratica era diffusa in tutte le classi sociali.
2 E’ da chiedersi se questo non sia un atto di concimazione, di nutrimento, di arricchimento della terra.
3 La dea della ragione.



Nessun commento: