6 febbraio 2010

- IL Bello

Tra i primi a chiedersi ragione degli effetti e della funzione del Bello in natura, vi furono i Greci e la filosofia platonica ne diede i frutti più importanti, per il riverbero che questa ebbe nella costruzione dell’estetica rinascimentale.
Secondo il platonismo e la sua emanazione umanista, il neoplatonismo, la grazia della forma esteriore nella sua costruzione armonica, dettata dall’accordo delle parti col tutto, corrispondeva all’armonia interiore manifestata dalle virtù morali espresse nelle azioni dell’individuo. La figura allegorica della Verità appare infatti nuda, a sostegno dell’idea che ciò che sta interamente visibile sotto la luce del sole non produce inganni e deformità, ma quella nudità corrisponde anche alla perfezione del vero alla rettitudine, quindi per immediata deduzione, la perfezione armonica di un corpo nudo avrebbe messo in evidenza l’intima corrispondenza di verità e bellezza. Il corpo eroico è costantemente rappresentato nudo, non nell’intenzione di suscitare curiosità ma per certificare quanto quella perfetta armonia di forme assicuri la rispondenza a doti tanto virtuose quanto sovrumane. "Il bello è lo splendore del vero" secondo la filosofia platonica, la Bellezza fa, cioè, risplendere la verità nella sua interezza, come totalità di un fenomeno sottoposto alla sfera dello sguardo fisico; ecco come, nella cultura rinascimentale, così propensa all’ammirazione del Bello, l’armonia di una forma si fa veicolo di qualità superiori o meglio di Virtù immateriali; l’estetica del neoplatonismo ficiniano, che tanto peso ha nella produzione letteraria e artistica del nostro Quattrocento, tenta una conciliazione se non un’identificazione delle qualità morali e spirituali dell’uomo con la sua bellezza fisica, in omaggio a quel kalòs kai agathòs, che diviene nella più corrente declinazione, potere della bellezza. A questo potere, al pericolo di questo incanto, alla tentazione di fermarsi nella contemplazione di un riflesso illusorio di armonie più spirituali, si sono peraltro sottratti asceti e bacchettoni, la precettistica religiosa ne ha trattato ad ogni piè sospinto, individuandone l’evidenza più immediata nel corpo della donna. Alla lettera S del mio ideale vademecum del Viaggiatore, se dovessi compilarne uno, figurerebbe senz’altro la parola ‘Sguardi’. Lo sguardo è il primo veicolo di conoscenza consapevole; si rivolge tanto alle cose che ci circondano quanto agli esseri, restituendoci una percezione rapidissima o una valutazione approfondita, a seconda che riceva informazioni istintive o segua dei processi mentali più analitici. Esso indaga e disvela realtà esteriori ma anche concetti astratti, quando divenga strumento di indagine filosofico o spirituale. Così, rivolto alle verità superiori, caratterizza la capacità di speculazione della specie umana. L’uso che facciamo noi, qui in Occidente, dei nostri corpi opachi e dei nostri sguardi cristallizzati, ben poco ha da spartire con ciò che per esempio, ho potuto osservare in un recente viaggio arrivando in India dove, al pari delle culture più antiche, il corpo si rivela, nell’eleganza e nella crudezza, il principale interprete e strumento di ogni singola azione quotidiana , strumento non mediato del fare e dove lo sguardo riveste una valenza assoluta nel riconoscere, valutare, soppesare, definire l’Altro, con una voracità dimenticata e cancellata dalla nostra promiscuità mediatica. Questa valenza colpisce immediatamente tra gli altri sensi, l’occhio, non appena si abbandoni l’asilo provvisorio che è l’aereo e se ne viene investiti con una potenza inusitata, soprattutto se sei una donna, e occidentale. In India, come nel mondo islamico, è tabù ogni forma di contatto fisico in pubblico tra uomini e donne, contatto che è riservato ai rapporti tra coniugi nel privato e ai genitori verso i figli piccoli. Non ci si dà la mano e tanto meno ci si abbraccia, cosicchè la facoltà, direi l’intelligenza aguzzata degli sguardi, specie maschili, per leggere informazioni dai segnali che il corpo dell’Altro/Altra lascia sfuggire, è portata di necessità, all’ennesima potenza: camminando per le vie di Calcutta non è possibile dissimulare una banconota nella mano, la minima indecisione nel passo tradisce un’incertezza d’intenzione, la possibilità di passeggiare rilassati si presenta remota in una città indiana, tanta è la concitazione della folla che non si arresta mai. Non appena ti si individua come donna, anzi come femmina (leggi donna-nonvelata), si diviene oggetto, preda libera della potenza pervasiva degli sguardi di tutti gli astanti, pari soltanto agli strali di Apollo. Non mi sono sentita in pericolo mai, girando nei quartieri anche più miserabili, o molto meno che nella periferia di una nostra qualsiasi città italiana ma guardata sì, scansionata direi, tanto da capire ben presto che per passare inosservata e creare uno spazio, una distanza tra te e gli altri, l’unico modo è aderire al codice dell’invisibilità che offre il velo; non appena la testa, meglio magari se parte del viso o del corpo spariscono sotto una stoffa, gli sguardi si acquietano e si dirigono oltre la tua persona, si scompare letteralmente, strana sensazione di leggerezza e di libertà. La fonte di tanta dannazione per l’occhio e l’immaginazione risiederebbe dunque in ciò che di bello ed armonico, ma nello stesso tempo demonico, la donna possiede nella sua forma esteriore, se non volessimo valutare quanto siano invece proprio l’occhio e il cervello, strumenti apollinei, a formarsi un’immagine rispondente a canoni di avvenenza, e se dovessimo indagare anche superficialmente nella nostra realtà più corrente, vedremmo corpi femminili associati ad automobili, abiti o merci di vario tipo o, all’opposto, racchiusi in bozzoli informi vietati allo sguardo di chiunque, ma che rispondono alle stesse esigenze. Interpretazioni estreme e perciò stesso errate, usi eccessivi, ideologici o al contrario, proni alla legge barbarica del mercato. In ogni caso la consuetudine di usare, manipolare l’integrità di un essere che per definizione (ricorre in queste settimane il sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo) si vuole nasca libero, coesiste strettamente nella lettura che diverse e lontane ma solidali culture fanno del corpo femminile, nel difetto di prospettiva comune a tutte: l’arenarsi dello sguardo, quindi della sanzione, sull’aspetto provocatorio e dirompente della persona, cioè della maschera, come si ricava dal termine latino con attitudine predatoria, su quel condensato di sesso e psiche espresso dal corpo, da contenere e ritualizzare. Ma facciamo un passo indietro, tornando all’archetipo che ispira Grazia e Bellezza, Venere come secondo pilastro visibile del Tempio massonico: ‘La potenza del bene si è rifugiata nella natura del bello’ (Platone). A noi massoni è dato riflettere con il lume della Ragione, proprio sul farsi armonia di quell’intreccio di apparenza ed essenza, di veli sovrapposti e caduti, che il corpo sublimato della Dea dell’Amore, nata dall’acqua, rivela nella sua nudità con le valenze di fertilità, rinascita ed energia vivificatrice. Questa la vera forza motrice della Natura, che a popoli antichissimi apparve sacra quanto tangibile manifestazione del Divino. Se nel mondo profano Bello e Buono risultano divisi e lontani, è compito e privilegio dell’iniziato, nel suo percorso attraverso i gradi, lavorare a ricondurre all’unità armoniosa questi due princìpi finalmente riconciliati, con la dedizione che artisti di ogni tempo hanno messo nel modellare o dipingere il simulacro splendente di vita di Iside, Ishtar o Afrodite e con la certezza, che nel procedere all’innalzamento delle mura del Tempio invisibile, nel riscoprirne la strada d’accesso dentro sé stessi, solo quanto è costruito saggiamente con l’aiuto della livella può arrivare a grandi altezze; viceversa non c’è forza sufficiente a tenere in piedi un edificio, impostato su basi diseguali e mal distribuite.
Silvia Ghelardini

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