25 febbraio 2011

- INTRODUZIONE ALL’ALCHIMIA

Non è facile spiegare in poche parole cosa sia l’alchimia. Tutti sappiamo che gli alchimisti erano dediti alla pratica trasmutatoria, cioè ambivano a trasformare il metallo vile in oro. Forse molti pensano che tale pratica fosse mossa esclusivamente dalla cupidigia (e in molti casi lo fu davvero), ma le motivazioni filosofiche alla base erano (sono) molto più profonde. Volendo utilizzare uno schema teorico essenziale, diciamo che il punto di partenza dell’alchimia è l’unità della materia. La materia è una, ma può assumere infinite forme e combinarsi in altre ancora, inesauribilmente. Questo concetto è la giustificazione della prassi trasmutatoria: infatti, se la radice originaria di tutte le cose è unica, ne consegue che, in sostanza, tutte le cose sono la medesima cosa: il piombo e l’oro non sono che due forme, all’apparenza del tutto diverse, di una sola essenza. Se si riducesse il piombo e l’oro alla loro prima radice, otterremmo la stessa materia. La trasformazione alchemica non consiste nel cambiare piombo in oro, ma nel ricondurre il piombo alla materia originaria e da questo stadio farlo maturare fino alla realizzazione dell’oro. Da quest’assunto, si deducono due cose: 1) che la teoria alla base degli alchimisti non è molto distante dalla teoria della genesi biblica, dalla filosofia di Platone e dalla tradizione ermetica; 2) ciò che gli alchimisti volevano mettere in pratica era qualcosa che, alle orecchie di molti religioni suonava come una tremenda bestemmia: far ripetere ad un uomo mortale l’atto della creazione divina. In altre parole, l’alchimista aveva la pretesa di ripetere ciò che aveva fatto Dio creando la materia. Diceva Heinrich Khunrath, grande alchimista del ‘500, che “Potest Theosophus quae vult, vult autem quae Deus Ipse”, cioè “Il teosofo, l’achimista, il , può fare tutto ciò che desidera, egli desidera ciò che desidera Dio stesso”. Quindi, il vero alchimista filosofo sarebbe diventato praticamente onnipotente, se fosse riuscito a penetrare i misteri naturali: egli sarebbe diventato una sorta di “piccolo Dio” cui nulla era impossibile. Scrive un nostro Fratello: “l’alchimista, che è artista esemplare, obbedisce alla legge del “solve et coagula”, processo di macerazione, apparente annichilimento cui fa seguito una nuova “solidificazione”, materializzazione del modello intuito. Dalla “nigredo” all’ “albedo”, dal “nero”(il virtuale, preformale assimilabile alle acque abissali, al chaos del mito) al bianco, la manifestazione creativa, nuova alba del processo invernale, l’alchimista fa opera d’arte. L’alchimia, pertanto, richiede un percorso lungo, che passa da varie fasi prima di arrivare al compimento della , così come la pietra del massone, prima grezza, con pazienza deve essere sgrossata e, infine, resa cubica.” Dunque, l’obiettivo vero dell’alchimia è lo stesso delle tradizioni iniziatiche familiari al massone, cioè riportare l’uomo alla sua condizione divina originaria. Ma la stessa alchimia è una tradizione profondamente inziatica. Sempre Khunrath diceva “Ne loquaris de Deo absque lumine”, cioè “non parlare di Dio senza illuminazione”, o ancora, diceva “ A cosa possono servire torce, luci ed occhiali a colui che non può vedere?”. Tutti i testi alchemici sono scritti in modo oscuro per nascondere la verità ai non iniziati. Essi, ancora oggi, rappresentano una sfida avvincente per chi vuole interpretarli. Nonostante si contino più di 1.300 trattati in materia, solo gli iniziati possono agevolmente comprenderli. A riguardo, eloquente è il monito dell’alchimista arabo Artefio: “E invero, non si è a conoscenza che la nostra Arte è un’Arte cabalistica? E voglio significare che essa si rivela oralmente ed è piena di misteri; e saresti tu così ingenuo da credere che noi insegneremmo apertamente e chiaramente a te, povero idiota qual sei, il più importante di tutti i segreti e saresti tu altrettanto ingenuo da prendere le nostre parole alla lettera? T’assicuro in buona fede, dato che non sono assolutamente invidioso come gli altri Filosofi, t’assicuro che chi volesse spiegare quanto gli alchimisti han scritto secondo il senso letterale e comune delle parole si troverà impegnato in un labirinto dal quale non potrà mai liberarsi; la ragione di ciò risiede nel fatto che non possiede il filo d’Arianna che lo guidi verso l’uscita, oltre al fatto che qualsiasi spesa ch’egli affronti per lavorare sarà pertanto denaro perso”. Dunque, solo chi possiede il filo di Arianna (l’iniziato) potrà comprendere i trattati. Ancora, sull’apparente chiarezza dei trattati alchemici ci mette in guardia Reneè Alleau, discepolo di Canseliet e di Fulcanelli:“Per dare un esempio chiaro prendiamo il gioco degli scacchi di cui si conosce la relativa semplicità delle regole e dei pezzi così come l’infinita varietà delle combinazioni. Se si suppone che l’insieme dei trattati acromatici alchemici si presenta a noi come altrettante parti scritte in linguaggio convenzionale, bisogna ammettere per principio e con estrema onestà che ignoriamo completamente e le regole del gioco e l’algoritmo di cifra utilizzato. Altrimenti affermiamo che l’indicazione crittografica è composta da segni direttamente comprensibili da qualsiasi individuo, che è l’illusione immediata che deve provocare un crittogramma ben strutturato. Ma la prudenza ci consiglia di non lasciarci sedurre dalla tentazione di un senso chiaro e di studiare questi testi come se si trattasse di una lingua sconosciuta”. Concluderei questa introduzione con una provocazione. L’alchimia non seduce solo il massone nella sua ricerca verticale, ma seduce terribilmente anche il profano, ma non per la possibilità di avere oro dal piombo, bensì lo seduce come lo spiritista è sedotto dall’incontro con il fantasma, come il cattolico dalle statue grondanti lacrime, come l’ufologo dall’incontro ravvicinato, come San Tommaso è sedotto dal mettere le mani nel costato del Cristo risorto. In altre parole, la domanda che assilla il profano appassionato d’alchimia è: e se la trasmutazione fosse stata realizzata davvero? A tal proposito, è da sottolineare che alcuni resoconti riportano la notizia di trasmutazioni effettivamente avvenute. Nel 1600 Michel Sendivogius, Polacco alla corte dell’imperatore Rodolfo II a Praga, sembra che realizzò una trasmutazione talmente stupefacente che l’imperatore, nella stanza dove successe il fatto, fece incidere una lapide di marmo con l’iscrizione “"Faciat hoc quispiam alius, quod fecit Sendivogius Polonus", cioè “Faccia qualcun altro ciò che fece il Polacco Sendivogius (la trasmutazione)”. In una lettera scritta da Varsavia nel 1651, Desnoyer, segretario della Principessa di Polonia Maria Gonzaga, dice di aver visto di persona questa lapide, che esisteva al tempo in cui scriveva e che era stata vista da numerosi visitatori curiosi. Si narra che James Price, fellow (socio ordinario) della Royal Society (cioè la prestigiosa accademia delle scienze britannica) operò tra il 6 maggio e il 28 maggio del 1782 ben sette trasmutazioni, davanti a testimoni, tra i quali vi erano anche alcuni pari d’Inghilterra. L’episodio è narrato da H.C.Cameron in “The Last of the Alchemists” in Records&Notes of the Royal Society, Vol.9 p.109-14. Record & Notes of Royal Society è tra le principali pubblicazioni ufficiali della prestigiosa accademia. Eugene Canseliet, nella prefazione alla terza edizione de “Il Mistero delle Cattedrali” di Fulcanelli, 1957, riporta una lettera indirizzata dall’autore del libro al suo maestro inziatore, di cui qui ripropongo un brano suggestivo e, al tempo stesso, inquietante: “Questa volta avete davvero ricevuto il "Dono di Dio"; è una grande Grazia, e per la prima volta comprendo quanto sia raro questo favore. In effetti credo che l'arcano, nel suo abisso insondabile di semplicità, sia introvabile con la sola forza della ragione, per quanto possa essere sottile ed esercitata. Finalmente possedete il "Tesoro dei Tesori", ringraziamo la Luce Divina che ve ne ha reso partecipe. Del resto, l'avete giustamente meritato per la vostra fede incrollabile nella Verità, per la costanza nello sforzo, per la perseveranza nel sacrificio, e anche, non dimentichiamolo,per le buone opere. Quando mia moglie mi ha annunciato la buona notizia, sono rimasto stordito per la gioiosa sorpresa e non mi tenevo più per la felicità”. Ma indipendentemente dalla verità di questi resoconti, la domanda che realmente dobbiamo porci, da massoni quali siamo, da “ricercatori della verità”, è se il modello teorico dell’unità della materia è da rifiutare a priori o considerare la possibilità che questo concetto, in qualche modo, riguardi veramente la struttura materiale (e non solo quella spirituale) dell’universo. Affrontando l’argomento con le leggi ferree della chimica moderna, la trasmutazione alchemica è una bestemmia, perché nessun elemento chimico, attraverso una semplice reazione a modeste temperature (quali erano quelle che si sviluppavano nell’ atanòr dell’alchimista), può dare origine ad altri elementi chimici che non erano già contenuti nell’elemento originario (se nell’elemento chimico piombo non è già presente oro, nessuna reazione potrà sviluppare oro). Tuttavia, è bene fare accenno a un fatto che non è cronaca esoterica ma di scienza, ossia la storia della “fusione fredda”. La fusione nucleare fredda, detta comunemente fusione fredda (in inglese "Cold Fusion" (CF), "Low Energy Nuclear Reactions" (LENR) o Chemically Assisted Nuclear Reactions" (CANR) ), è un nome generico attribuito a reazioni di fusione nucleare che avvengono sfruttando catalizzatori chimici a temperatura relativamente bassa, invece che ai milioni di gradi kelvin normalmente necessari. Nella fusione fredda, la materia trasmuta, a temperatura ambiente e a pressione normale, da deuterio a elio, sviluppando un energia superiore fino a 900 volte quella imessa per sviluppare la reazione. Non solo, ma nelle reazioni compaiono altri elementi chimici che prima non erano presenti, e , addirittura, qualcuno segnala anche la presenza di oro. La storia della fusione fredda è oscura, perché, dopo i primi esperimenti, la comunità scientifica invece di incentivare la ricerca la ha scoraggiata, forse per evitare che i finanziamenti destinati alla fisica atomica ortodossa fossero tagliati e dirottati verso lo sviluppo della nuova fonte energetica. Ad ogni modo, la cronaca scientifica citata ci fa pensare che gli alchimisti forse non si erano del tutto sbagliati (in fondo tutta la materia dell’universo è formata dalle medesime particelle atomiche e subatomiche) e che, anche nella scienza, come nella religione, c’è sempre qualcuno che vuole imporre una verità. Però, la storia della fusione fredda appena accennata, suggerisce ancora una volta che la sapienza antica e la tradizione (l’alchimia in questo caso) soccorre il massone nello scardinare con il dubbio le presunte verità “assolute”, anche quando queste verità sono diffuse dalla scienza cosiddetta “ufficiale”.


20 febbraio 2011

- ALCHIMIA


Platone, nel Simposio, traccia una memorabile immagine di Socrate facendo dire ad Alcibiade che Socrate è come uno di quelle statue chiamate Seleni, raffigurate con in braccio la lira o lo zufolo ed esposte nelle botteghe degli scultori, che se li apri vi troverai dentro la statuetta di un Dio. Michelangelo sui monti di Carrara guardando un blocco di marmo vi intravedeva dentro la statua che avrebbe scolpito. Sarebbe stato sufficiente eliminare, con gli strumenti dello scultore, le soprastrutture.
La vera differenza con l’alchimia è che i Seleni, Michelangelo, fanno intendere all’uomo il punto di partenza ed il punto di arrivo. L’alchimia fornisce la via attraverso la quale, dal punto di partenza, si arriva alla meta. Se conosci solo il punto di partenza ed il punto di arrivo almeno all’inizio brancoli nel buio, a meno che tu non sia nato Socrate o Michelangelo; un sapiente o un artista. In questi casi è la tua natura che ti porta ad intuire la strada. Ti è facile squarciare il velo della Papessa per giungere alla Regina (sono due degli arcani maggiori dei tarocchi). La filosofia iniziatica, l’arte, l’alchimia, sembrano dirci la stessa cosa. Forse è più opportuno dire che, in sostanza, il filosofo iniziatico, l’artista, pongono in essere un processo alchemico, a volte inconsapevolmente. Il processo alchemico, per i comuni mortali, è molto importante. Per raggiungere la meta, noi comuni mortali, dobbiamo percorrere una certa strada. La meta può essere identificata, per la maggior parte degli uomini, nella conoscenza del dopo morte acquisita durante la vita; la meta può essere anche identificata nella titolarità di poteri straordinari che ti pongono in netta situazione di vantaggio rispetto agli altri uomini. Qual’è la strada. Consideriamo la meta finale come un puzzle. Abbiamo a disposizione le varie tessere ma dobbiamo studiare il modo di accostare l’una all’altra fino a quando non si raggiunge l’incastro e, completato il puzzle, il risultato finale. Ogni scienza iniziatica, per raggiungere questo risultato, ci suggerisce la sua strada. Se da ognuna prendiamo un particolare, alla fine avremo fatto un buon lavoro sincretico. Occorre però fare un lavoro diverso. Occorre, come ci suggerisce Guenon, percorrere una o più strade per raggiungere il centro. Giunto al centro bisogna effettuare un’operazione che non deve essere sincretica ma di sintesi. La scuola Pitagorica mette a disposizione del ricercatore, dell’iniziato, i numeri, l’armonia; gli egiziani, con i loro templi, con i loro meravigliosi percorsi esoterici ci insegnano una cosa fondamentale: il cervello è il vero nemico della conoscenza; al momento della mummificazione del cadavere, mentre gli altri organi venivano tolti accuratamente e conservati nei vasi canubi, il cervello, mediante un piccolo strumento a forma di cucchiaio, veniva tolto dalla scatola cranica e quindi buttato, in quanto d’intralcio al raggiungimento della vera conoscenza che, simbolicamente, si otteneva in ogni caso dopo la morte. Istruzioni analoghe ti forniscono la Massoneria, il templarismo, il rosacroceanesimo, il martinismo, la magia. Tutte le istruzioni che ti danno le arti appena citate ti dicono che per raggiungere la meta, per raggiungere la vera conoscenza, non devi farti condizionare da ciò che hai appreso con l’ausilio del tuo cervello, attraverso le letture, attraverso l’educazione, in buona sostanza attraverso tutto ciò che i sensi fisici possono averti fatto apprendere. All’interno dell’involucro costituito dal tuo corpo mortale vi è un dio, vi è il Dio. Non devi fare altro che eliminare le sovrastrutture, come faceva Michelangelo con i blocchi di marmo, perchè il Dio che vi è in te agisca. L’alchimia, dato per scontato l’obiettivo che ci si propone, ti fornisce anche la strada per raggiungerlo. E’ una strada difficile. E’ fatta di continuo lavoro e di continue intuizioni. Canseliet definisce l’alchimia assoluta verità; rierca e risveglio della vita segretamente assopita sotto il pesante involucro dell’essere e della rude scorza delle cose. Secondo Fulcanelli colui che teme il lavoro manuale, il calore dei forni, la polvere del carbone, il pericolo delle reazioni sconosciute e l’insonnia delle lunghe veglie, quello non saprà mai nulla. Sempre Fulcanelli nel suo libro sul mistero delle cattedrali ci dice che la cattedrale di Notre Dame, fin dal portico, ci indica la strada alchemica da percorrere.
La cattedrale di Notre Dame può essere paragonata al “Mutus Liber”, così come a libri muti possono esser paragonate molte chiese, specie quelle gotiche, dove l’alchimia, con simbologia velate, è esplicata in molti particolari. Dico con simbologia velata perchè il parlare oscuro è proprio degli alchimisti. Uno dei primi simboli dell’alchimia è lo specchio. Ciò che vedi allo specchio è il contrario di ciò che accade nella realtà. Le stesse chiese che parlano di alchimia, abbiamo detto, appartengono, in buona parte, al periodo gotico. Sempre Fulcanelli ci fornisce il significato della parola “gotico”. Secondo gli alchimisti il significato dell’arte gotica non deriva dal popolo germanico dei goti o ancora peggio dalla reazione scandalizzata degli “intellettuali” del secolo XVII e XVIII che definivano gotico, in senso dispregiativo, ciò che a loro avviso era barbaro, no, per gli alchimisti, la spiegazione del termine gotico va ricercata nella radice cabalistica della parola piuttosto che nella sua radice letterale. Arte gotica, nata in Francia fra il XII e XV secolo, è, secondo Fulcanelli, la deformazione ortografica della parola “argotico”. La cattedrale è un’opera d’art goth o d’argot. L’argot è il linguaggio caratteristico di tutti gli individui interessati a comunicarsi i pensieri senza essere compresi da coloro che li circondano. E’ una vera e propria cabala parlata. Le varie fasi dell’alchimia, se ben condotte, ci conducono all’oro filosofale; alla meta. Non è il caso, quì, di parlare delle varie fasi dell’alchimia; non ne sono capace e non è il mio scopo. Il mio scopo, semmai, è quello di stimolare i lettori ad intraprendere lo studio dell’alchimia. Ad intraprenderlo e, perchè no, ad operare. Voglio finire con le parole di Paolo Lucarelli, uno dei pochi veri alchimisti allievo di Canseliet, scomparso il 14 luglio del 2005, relative ai diversi gradi che l’adepto può raggiungere; secondo Lucarelli i gradi sono sette:
- Il grado è l’iniziazione essoterica, che viene trasmessa da un essere umano. Può durare anni ed essere graduale, o risolversi in un solo incontro. Per lo più, però, si sovrappone temporaneamente al grado successivo, e questo per certi motivi.
- Il grado è l’ordinazione, che è data dalla Natura o Spirito Universale, direttamente. All’inizio è impercettibile, e non se ne è consapevoli. In realtà potrebbe anche non passare mai dalla potenza all’atto, ma produce comunque dei risultati. Dobbiamo distinguere tra “iniziazione”, che è un insegnamento, e “ordinazione”, che è una qualificazione.
- Il grado è l’iniziazione esoterica, che si ottiene quando la Natura, o Spirito del Mondo, trasmette direttamente l’insegnamento, che quindi è necessariamente esoterico. Tuttavia può essere anche data parzialmente da un Maestro, ma è molto raro.
- Il grado è l’illuminazione, ed avviene quando la Natura, o Spirito del Mondo, si manifesta corporalmente.
- Il grado è il magistero, ed è la prima realizzazione, ed anche la comprensione dell’Opera.
- Il grado è l’adeptato, ed è quando si realizza l’Opera corporale.
- Il grado è la liberazione.
Antonio Urzì Brancati

17 febbraio 2011

- Pitagora

Nel VI sec. a.C., proprio quando la Grecia, in mano ai tiranni, ai sofisti ed ai retori, era
giunta a negare l’esistenza di Orfeo abbandonandosi alla violenza, all’ignoranza e alla brutalità, l’evoluzione del Pensiero si incarnò sulla terra in un grande Illuminato: Pitagora. Nasce a Samo intorno al 570 a.C. Figlio di un ricco commerciante di anelli e di una donna di nome Parthenis. La Pizia di Delfi aveva predetto ai genitori di P. "Avrete un figlio che sarà utile agli uomini di tutti i tempi". Così Diogene Laerzio ci parla della vita di Pitagora: "Socrate nelle Successioni dei filosofi dice che Pitagora, interrogato da Leonte tiranno di Fliunte: "Chi sei?", abbia risposto: "Filosofo". Era solito dire che la vita è simile ad una panegiria: come infatti alcuni partecipano a questa per lottare, altri per commerciare, altri ancora - e sono i migliori - per assistervi, così nella vita, diceva, alcuni nascono schiavi della gloria e cacciatori di guadagno, altri filosofi della verità. E così stanno queste cose.Nelle tre opere predette si tramandano questi precetti generali di Pitagora. Ci vieta di pregare per noi stessi perché non sappiamo che cosa ci sia utile. Chiama l'ubriachezza, in una parola, danno, e condanna ogni eccesso, che nessuno deve oltrepassare la giusta proporzione sia nel bere che nel mangiare. E intorno ai piaceri venerei così si esprime: "Coltiva i piaceri d'amore d'inverno, non d'estate: d'autunno e di primavera essi sono più lievi, ma gravi in ogni stagione e non buoni per la sanità fisica." Eppure interrogato una volta quando si debba coire, si dice che abbia risposto: "Quando si vuole essere più deboli di se stessi". I maestri di Pitagora furono Ermodamante, Anassimandro e Talete; nonostante gli insegnamenti rivelassero una natura cieca ed inflessibile alla quale l’umanità doveva assoggettarsi, Pitagora non volle darsi per vinto e con l’intuizione (simpatia che ci trasporta all’interno di un oggetto per coincidere con quello che esso ha di unico – Bergson), Pitagora percepì l’equilibrio e la sintesi fra tre mondi: cielo (Provvidenza), terra (Fatalità) e umanità (Follia, Dolore,Schiavitù). Intuì la triplice natura dell’uomo e dell’universo, del microcosmo e del macrocosmo coronati dall’unità divina che a sua volta è una trinità. Il KOSMOS formava "la tetrade sacra, immenso e puro simbolo, fonte della natura e modello degli dei". Pitagora vide i mondi muoversi secondo il ritmo e l’armonia dei numeri sacri (legge del ternario che guida la costituzione degli esseri, quella del settenario presiede la loro evoluzione). I tre mondi (naturale, umano, divino) si sostengono e si determinano reciprocamente ed interpretano il dramma universale attraverso un duplice movimento ascendente e discendente. Pitagora divinò le sfere del mondo invisibile che circondano quello visibile animandolo incessantemente, concepì la purificazione e la liberazione dell’uomo già su questa terra attraverso la triplice iniziazione. Pitagora fu costretto a lasciare la sua città in seguito ad una congiura ordita contro la scuola da lui fondata. Pare si rifugiasse a Crotone da dove il suo pensiero si diffuse in tutto il mondo greco. Dato il carattere religioso della scuola pitagorica, il pensiero di Pitagora ci è stato tramandato insieme alle dottrine tradizionali della scuola stessa. Pitagora iniziò il suo viaggio iniziatico in Egitto dove visse per oltre 20 anni, presso i sacerdoti di Menfi cercava la "scienza di Dio". In Egitto comprese l’involuzione dello spirito nella materia e la sua evoluzione o risalita verso l’unità per il tramite di quella creazione individuale che è lo sviluppo della coscienza. Quando l’Egitto fu invaso dal despota Cambise, Pitagora fu fatto prigioniero e trasportato in Babilonia. Lì venne in contatto con la religione degli antichi caldei, con il magismo persiano e con il mondo ebraico, approfondì le conoscenze dei maghi eredi di Zoroastro che avevano la capacità di dominare le potenze occulte della natura (fuoco pantomorfo e luce astrale). Pitagora intuisce che tutte quelle religioni sono i raggi di un’unica verità passata al vaglio di diversi livelli di comprensione a seconda degli strati sociali e culturali, egli disponeva della chiave cioè la sintesi di tutte quelle dottrine nella scienza esoterica. Pitagora rimane prigioniero per dodici anni, dopo aver fatto ritorno in Grecia decide di partire per Crotone dove fonda la scuola dei pitagorici. Scelse questa colonia dorica perché voleva non solo insegnare la dottrina esoterica ad una cerchia di allievi, ma anche applicarne i principi all’educazione della gioventù ed alla vita dello stato: trasformare l’organizzazione politica delle città ad immagine dell’ideale filosofico e religioso. Fondando la sua scuola nel golfo di Taranto P. portò la saggezza orientale in Occidente anticipando una sintesi fra ellenismo e cristianesimo. Conquistando al suo progetto i cittadini più ricchi e buona parte del Senato Pitagora riuscì a fondare la sua scuola di iniziati laici che facevano vita comune nell’edificio (chiamato dai crotonesi Tempio delle Muse) senza separarsi dalla vita civile. Per essere ammessi a questa Accademia i novizi dovevano sostenere delle prove, fra queste non era ammessa la lotta corpo a corpo perché Pitagora affermava che era pericoloso sviluppare l’orgoglio e l’odio con la forza e l’agilità: "L’odio ci rende inferiori a qualsiasi avversario". Pitagora osservava i suoi allievi e li studiava anche fisicamente, secondo Origene P. fu l’inventore della fisiognomica. Scuola pitagorica: L’inizio del noviziato PARASKEUE (preparazione) durava da 2 a 5 anni. I novizi o AKUSIOI (uditori) dovevano, durante le lezioni, osservare un assoluto silenzio, non interrompere mai, non esprimere la loro opinione perché non comprendendo ancora l’origine ed il fine delle cose avrebbero ridotto la dialettica a sterile polemica o sofismo. Pitagora cercava di sviluppare negli allievi la facoltà principale dell’uomo:l’intuizione. I pitagorici onoravano i genitori vedendo in loro ZEUS (padre) e CIBELE (madre) genitori del macrocosmo. L’amicizia era un valore fondamentale: "L’amico è un altro te stesso". Le energie individuali erano risvegliate, la morale diventava viva e poetica, la regola accettata con amore cessava di essere una costrizione e diventava l’affermazione di una individualità libera. L’insegnamento morale preparava a quello filosofico. I rapporti stabiliti fra doveri sociali e armonie del cosmo facevano presentire la legge delle analogie e delle concordanze universali. Lo spirito dell’allievo si abituava a ritrovare l’impronta di un ordine invisibile sulla realtà visibile. Veniva insegnata la tolleranza per tutti i culti, l’unità dei popoli nell’umanità, l’unità delle religioni nella scienza esoterica: tutti gli Dei venivano ricondotti ad un Dio unico e supremo. Finito il noviziato gli allievi entravano nella casa di Pitagora e le lezioni erano tenute nel cortile della casa stessa, il termine ESOTERICO significa allievo dell’interno in opposizione ad ESSOTERICO (dell’esterno) a questo punto Pitagora insegnava loro la DOTTRINA DEI NUMERI (dottrina segreta già presente in Egitto ed in Asia). Pitagora trasforma le nozioni numeriche degli Egizi in Teoria Generale e Sistematica dei numeri e delle figure geometriche andando assai al di là degli scopi prevalentemente pratici degli egiziani. Una delle principali affermazioni filosofiche di Pitagora riguarda il numero come ESSENZA DEL REALE concepito in un tutto armonico e perfetto (COSMOS). Il principio è il numero, gli elementi del numero sono gli elementi di tutte le cose, l’universo è armonia e numero. La scoperta che in tutte le cose esiste una regolarità matematica produsse un’impressione straordinaria e portò a quel mutamento di prospettiva che ha segnato una tappa fondamentale nello sviluppo spirituale dell’Occidente. Esempi di leggi numeriche: anno, stagioni, mesi, incubazione del feto, cicli biologici, ecc. I numeri sono principio costitutivo di tutto poichè rendono ragione del perché e come ogni cosa si forma (materia, proprietà, condizioni). Il motivo per cui le cose sono in un modo piuttosto che nell’altro è determinato dalla natura del numero stesso. L’unità è il principio fondante di tutti i numeri, in quanto è ciò che determina il pari e dispari ovvero è ciò che permette di distinguere il limitato e definito dall’illimitato ed indefinito, l’unità è all’origine e fonda la differenza fra finito ed infinito. Partendo dall’opposizione misurabile (finito)/ non misurabile (infinito) si comprende l’intero universo. Pitagora teorizza per la prima volta in modo chiaro quest’idea già presente in forma embrionale nella tragedia: il limite stabilito dalla legge divina non va superato, il destino è garante della legge e della misura. Per questo motivo Pitagora identifica la perfezione con il finito ed il limitato. L’infinito è concetto negativo identificato con l’imperfezione perché rappresenta ciò che, in quanto non misurabile, non è perfettamente conoscibile; il dispari e il pari sono l’opposizione numerica riconducibile a questa prima, fondamentale opposizione. L’opposizione non esclude però la composizione armonica: poiché le cose sono numeri, la loro diversità si risolve in un rapporto, che costituisce armonia. Uno dei caratteri fondamentali dei numeri è infatti l’armonia, cioè proporzione e progressione aritmetico-geometrica; grazie all’identificazione cose/numeri, l’intero universo è armonico. Tale armonia si esprime in accordi musicali. Pitagora spiega l’ordine dell’universo come armonia di corpi contenuti in un'unica sfera che si muovono secondo un sistema numerico; poiché i pitagorici ritenevano che i pianeti fossero separati da intervalli corrispondenti alle lunghezze armoniche delle corde sonore essi ritenevano che il movimento dei pianeti producesse un suono: l’"armonia delle sfere".I numeri derivano da elementi 1) indeterminato 2) determinante. Il numero nasce dall’accordo di elementi limitanti e di elementi illimitati . PARI: indeterminato, femminile, rettangolare: 2 4 6 DISPARI: limitante (più perfetto), maschile, quadrato: 3 5 7Il numero perfetto è 10, numero sacro dato dalla somma dei primi 4 numeri 1+2+3+4 raffigurato con un triangolo perfetto, formato dai primi quattro numeri, ed avente il numero 4 per ogni lato.
TETRAKTYS Pitagora ha una concezione geometrica del numero. Esempio: 1= un sassolino; essendo tutte le figure geometriche formate da questi punti/numeri ne deriva che tutte le cose essendo composte da punti sono composte da numeri quindi sono numeri. Le proprietà dei numeri corrispondono a rapporti etici, ad. es. la giustizia, e esprimono ciò che non è puramente materiale come l’anima e l’intelligenza. Il numero quindi non è inteso come entità astratta ma come virtù intrinseca ed attiva di UNO supremo: Dio di fronte all’armonia universale. La scienza dei numeri è la scienza delle forze vive delle facoltà divine in azione nel macrocosmo e nel microcosmo, spiegandone il gioco, penetrandoli, distinguendoli, Pitagora costruiva una teogonia o teologia razionale. I numeri di Pitagora sono le forze divine del mondo, le forme originarie del grande Tutto e fanno scaturire gli esseri dagli archetipi. 1 Primo = grande Monade: essenza dell’Essere increato, non-manifesto, nascosto nelle cose molteplici. Nella matematica trascendente 0 moltiplicato infinito è uguale a 1. 0 è l’essere indeterminato; anche nei templi veniva raffigurato con un cerchio o con un serpente che si morde la coda, ciò significa che l’infinito è causa del suo stesso moto. Dal momento in cui l’infinito si determina produce tutti i numeri che contiene nella sua vasta unità e che governa in perfetta armonia. Quando Dio si manifesta la grande Monade si trasforma in DIADE (unione fra eterno maschile ed eterno femminile). La Monade rappresenta l’essenza di Dio, la Diade la sua facoltà generatrice, il mondo reale invece è Triplice. TRIADE o legge del ternario = legge costitutiva delle cose e vera chiave della vita. Esempio: uomo = corpo/ anima/ spirito = 3 "senza il corpo etereo quello materiale sarebbe una massa inerte senza vita" San Paolo "il numero tre regna ovunque nell’universo e la Monade è il suo principio" Zoroastro La legge del ternario è una delle basi della scienza esoterica. L’uomo realizza la Divinità solo attraverso il proprio essere (relativo e finito), da qui la differenza fra le religioni: 1) Dio visto attraverso il caleidoscopio dei sensi e l’istinto (Panteismo). 2) Dio visto attraverso la ragione è duplice spirito + materia (dualismo di Zoroastro) 3) Dio visto attraverso il puro intelletto è triplice spirito + anima + corpo (culti trinitari dell’India Brahama+Visnu+Shiva e Cristianesimo Padre+Figlio+Spirito Santo) 4) Dio visto dalla volontà che tutto riassume è unico (monoteismo di Mosè) I principi essenziali sono contenuti nei primi 4 numeri perché addizionandoli e moltiplicandoli si ottengo tutti gli altri.
7 = 3+4 unione dell’uomo (3) con la divinità (4) 10= 1+2+3+4 decade sacra.1= punto 2=linea 3=triangolo 4=piramide Questi numeri sono i principi primi delle realtà ad essi omogenee. Nasce così la teorizzazione del sistema decimale. La parola COSMO è nata dai pitagorici perché: se il numero è ordine (kòsmos) e se tutto è determinato dal numero allora tutto è ordine. Con Pitagora l’uomo ha imparato a vedere il mondo con altri occhi ossia come l’ordine perfettamente penetrabile dalla ragione.COSMOGONIA: Osservare l’universo dal punto di vista fisico e da quello spirituale non significa considerare oggetti diversi, ma guardare lo stesso mondo da due capi opposti. L’evoluzione materiale rappresenta la manifestazione di Dio nella materia attraverso l’anima del mondo che lavora su di essa. Pitagora pone al centro dell’universo il Fuoco (AGNI in oriente). I pianeti ruotano intorno ad esso. La regione sublunare designa la sfera dove si esercita l’attrazione terrestre ed è chiamata "il cerchio delle generazioni" (per noi la terra è la regione della vita corporea). La sfera dei 6 pianeti e del sole corrisponde a categorie di spiriti in linea ascendente fino ad arrivare all’Olimpo o "cielo delle stelle fisse" (sfera delle anime perfette). L’astronomia pitagorica è puramente simbolica: l’universo – dice Pitagora - non è che una forma passeggera nell’anima del mondo della grande Maia. Gli astri e tutti gli esseri sono formati da 4 elementi che rappresentano i 4 stati graduali della materia: terra=solido, acqua=liquido, aria=gassoso, fuoco=imponderabile. Il quinto elemento è l’etere che rappresenta uno stato di materia talmente sottile da non essere più atomica, dotato di penetrazione universale, è il fluido cosmico originario, la luce astrale o anima del mondo. Oltre alla cosmogonia fisica Pitagora si occupa soprattutto della cosmogonia spirituale o METEMPSICOSI (trasmigrazione delle anime): lo spirito attraversa tutti gli stadi della materia per poi ascendere: minerale – vegetale – animale -uomo. La discesa dello spirito viene chiamata cacciata dal Paradiso da Mosè, caduta nel cerchio sublunare da Orfeo. L’uomo risale faticosamente nuove esistenze con l’azione della coscienza diventando così figlio di Dio. L’uomo è dilaniato nella dicotomia anima-corpo. La nascita terrestre è una morte dal punto di vista spirituale e la morte del corpo una resurrezione celeste. L’alternanza delle due vite è necessaria allo sviluppo dell’anima e ognuna delle due è insieme la conseguenza e la spiegazione dell’altra. Chiunque sia penetrato da queste verità si trova nel cuore dei misteri al centro dell’iniziazione. Come la nostra vita terrena è divisa in due parti alterne (sonno/veglia) così l’anima oscilla nell’immensità della sua evoluzione cosmica fra incarnazione e vita spirituale, fra terra e cielo. Le idee innate sono una dimostrazione delle vite precedenti ed anche il senso di giustizia terreno ha un senso solo se rapportato al karma di ognuno di noi. Le vite si susseguono e non si somigliano ma si intrecciano con logica (ripercussione delle vite o karma); in base a questa logica le azioni di una vita si ripercuotono sulla vita successiva. Non esiste parola, non esiste azione che non abbia un’eco nell’eternità. Per Pitagora, che ricorda le sue esistenze precedenti, l’apoteosi dell’uomo è l’attività creatrice della Coscienza Suprema. L’anima diventata puro spirito non perde la propria individualità, ma la compie perché raggiunge il suo archetipo in Dio. Per mettere in opera nella pratica della vita gli insegnamenti di Pitagora gli adepti dovevano radunare tre perfezioni: realizzare la verità nell’intelligenza, la virtù nell’anima, la purezza nel corpo. I Pitagorici introdussero il concetto del retto agire umano come un "farsi seguaci di Dio", come un vivere in comunione con la divinità. Inizio del BIOS THEORETIKOS = vita contemplativa, ossia una vita spesa nella ricerca della verità e del bene tramite la conoscenza. La scuola di Pitagora dura due secoli dal VI al IV sec. a.C. è una setta a carattere religioso con dottrine segrete."I Pitagorici parlarono parimenti di due principi ma s’avvantaggiarono sugli altri in quanto che il limitato e l’illimitato e l’unità non li considerarono come predicati di altre sostanze, del fuoco o della terra o di altra cosa simile; bensì per essi l’illimitato stesso e la stessa unità sono la sostanza di ciò di cui si predicano, per cui, anche, il numero è la sostanza di ogni cosa."
Cristina Allegretti

15 febbraio 2011

- La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico


No, io lo giuro per colui che ha trasmesso alla nostra anima la tetractys nella quale si trovano la sorgente e la radice dell'eterna natura.
Detti aurei.
Riesumare e restituire l'antica aritmetica pitagorica è opera quanto mai ardua, perché le notizie che ne sono rimaste sono scarse e non tutte attendibili. Bisognerebbe ad ogni passo ed affermazione citare le fonti e discuterne il valore; ma questo renderebbe la esposizione lunga e pesante e meno facile la intelligenza della restituzione. Perciò, in generale, ci asterremo da ogni apparato filolo-gico, ci atterremo soltanto a quanto risulta meno controverso e dichiareremo sempre quanto è sol-tanto nostra opinione o risultato del nostro lavoro. La bibliografia pitagorica antica e moderna è assai estesa, e rinunciamo alla enumerazione delle centinaia di libri, studii, articoli, e passi di autori antichi e moderni che la costituiscono. Secondo alcuni critici, storici e filosofi, Pitagora sarebbe stato un semplice moralista e non si sarebbe mai occupato di matematica; secondo certi ipercritici Pitagora non sarebbe mai esistito; ma noi abbia-mo per certa la esistenza di Pitagora, e, accettando la testimonianza del filosofo Empedocle quasi contemporaneo, riteniamo che le sue conoscenze in ogni campo dello scibile erano grandissime. Pitagora visse nel sesto secolo prima di Cristo, fondò in Calabria una scuola ed un Ordine che Aristotele chiamava scuola italica, ed insegnò tra le altre cose l'aritmetica e la geometria. Secondo Proclo, capo della scuola di Atene nel V secolo della nostra era, fu Pitagora che per il primo elevò la geometria alla dignità di scienza liberale, e secondo il Tannery la geometria esce dal cervello di Pitagora come Athena esce armata di tutto punto dal cervello di Giove. Però nessuno scritto di Pitagora od a lui attribuito è pervenuto sino a noi, ed è possibile che non abbia scritto nulla. Se anche fosse diversamente, oltre alla remota antichità che ne avrebbe ostaco-lato la trasmissione, va tenuta presente la circostanza del segreto che i pitagorici mantenevano, so-pra i loro insegnamenti, o parte almeno di essi. Un fìlologo belga, Armand Delatte, nella sua prima opera: Études sur la littérature pythagoricienne, Paris, 1915, ha fatto una dottissima critica delle fonti della letteratura pitagorica; ed ha messo in chiaro tra le altre cose che i famosi «Detti Aurei» o Versi aurei, sebbene siano una compilazione ad opera di un neo-pitagorico del II o IV secolo della nostra era, permettono di risalire quasi all'inizio della scuola pitagorica perché trasmettono materiale arcaico. Quest'opera del Delatte sarà la nostra fonte principale. Altre antiche testimonianze si hanno negli scritti di Filolao, di Platone, di Aristotele e di Timeo di Tauromenia. Filolao fu, insieme al tarantino Archita, uno dei più eminenti pitagorici nei tempi vicini a Pitagora, Timeo fu uno storico del pitagorismo, ed il grande filosofo Platone risenti fortemente l'influenza del pitagorismo e possiamo considerarlo come un pitagorico, anche se non appartenente alla setta. Assai meno antichi sono i biografi di Pitagora cioè Giamblico, Porfirio e Diogene Laerzio, che furono dei neo-pitagorici nei primi secoli della nostra era, e gli scrittori matematici Teone da Smirne e Nicomaco di Gerasa. Gli scritti matematici di questi due ultimi autori costituiscono la fonte che ci ha trasmesso l'aritmetica pitagorica. Anche Boezio ha assolto questo compito. Molte notizie si debbono a Plutarco. Tra i moderni, oltre al Delatte ed all'opera un po' vecchia dello Chaignet su Pythagore et la philosophie pythagoricienne, Paris, 2a ed. 1874, ed al Verbo di Pitagora di Augusto Rostagni, Torino, 1924, faremo uso dell'opera The Theoretic Arithmetic of the Pythagoreans, London 1816; 2a ed., Los Angeles, 1934, del dotto grecista inglese Thomas Taylor che fu un neo-platonico ed un neo-pitagorico; e tra gli storici della matematica faremo uso delle Scienze esatte nell'antica Grecia, Milano, Hoepli, 1914, 2a ed., di Gino Loria, e dell'opera A History of Greeck Mathematics di T. Heath, 1921. Per la matematica moderna l'unità è il primo numero della serie naturale dei numeri interi. Essi si ottengono partendo dall'unità ed aggiungendo successivamente un'altra unità. La stessa cosa non accade per l'aritmetica pitagorica. Infatti una stessa parola, monade, indicava l'unità dell'aritmetica e la monade intesa nel senso che oggi diremmo metafisico; ed il passaggio dalla monade universale alla dualità non è così semplice come il passaggio dall'uno al due mediante l'addizione di due unità.
In aritmetica, anche pitagorica, vi sono tre operazioni dirette: l'addizione, la moltiplicazione e l'innalzamento a potenza, accompagnate dalle tre operazioni inverse. Ora il prodotto dell'unità per sé stessa è ancora l'unità, ed una potenza dell'unità è ancora l'unità; quindi soltanto l'addizione permette il passaggio dall'unità alla dualità. Questo significa che per ottenere il due bisogna ammettere che vi possano essere due unità, ossia avere già il concetto del due, ossia che la monade possa perdere il suo carattere di unicità, che essa possa distinguersi e che vi possa essere una duplice unità od una molteplicità di unità. Filosoficamente si ha la questione del monismo e del dualismo, metafisicamente la questione dell'Essere e della sua rappresentazione, biologicamente la questione della cellula e della sua riproduzione. Ora se si ammette la intrinseca ed essenziale unicità dell'Unità, bisogna ammettere che un'altra unità non può essere che una apparenza; e che il suo apparire è una alterazione dell'unicità proveniente da una distinzione che la Monade opera in sé stessa. La coscienza opera in simil modo una distinzione tra l'io ed il non io. Secondo il Vedanta advaita questa è una illusione, anzi è la grande illusione, e non c'è da fare altro che liberarsene. Non è però una illusione che vi sia questa illusione, anche se essa può essere superata. I pitagorici dicevano che la diade era generata dall'unità che si allontanava o separava da sé stessa, che si scin-deva in due: ed indicavano questa differenziazione o polarizzazione con varie parole: dieresi, tolma. Per la matematica pitagorica l'unità non era un numero, ma era il principio di tutti i numeri, diciamo principio e non inizio. Una volta ammessa l’esistenza di un'altra unità e di più unità, dall'unità derivano poi per addizione il due e tutti i numeri. I pitagorici concepivano i numeri come formati o costituiti o raffigurati da punti variamente disposti. Il punto era definito dai pitagorici l'u-nità avente posizione, mentre per Euclide il punto è ciò che non ha parti. L'unità era rappresentata dal punto od anche, quando venne in uso il sistema alfabetico di numerazione scritta, dalla lettera A od α, che serviva per scrivere l'unità. Una volta ammessa la possibilità dell'addizione dell'unità ed ottenuto il due, raffigurato dai due punti estremi di un segmento di retta, si può seguitare ad aggiungere delle unità, ed ottenere suc-cessivamente tutti i numeri rappresentati da due, tre, quattro... punti allineati. Si ha in tal modo lo sviluppo lineare dei numeri. Tranne il due che si può ottenere soltanto come addizione di due unità, tutti i numeri interi possono essere considerati sia come somma di altri numeri; per esempio il cin-que è 5 = 1 + 1 + 1 + 1 + 1; ma è anche 5 = 1 + 4 e 5 = 2 + 3. L'uno ed il due non godono di questa proprietà generale dei numeri: e perciò come l'unità anche il due non era un numero per gli antichi pitagorici ma il principio dei numeri pari. Questa concezione si perdette col tempo perché Platone parla del due come pari , ed Aristotele parla del due come del solo numero primo pari. Il tre a sua volta può essere considerato solo come somma dell'uno e del due: mentre tutti gli altri numeri, oltre ad essere somma di più unità, sono anche somma di parti ambedue diverse dall'unità; alcuni di essi possono essere considerati come somma di due parti eguali tra loro nello stesso modo che il due è somma di due unità e si chiamano i numeri pari per questa loro somiglianza col paio, così per esempio il 4 = 2 + 2, il 6 = 3 + 3 ecc. sono dei numeri pari; mentre gli altri, come il tre ed il cinque che non sono la somma di due parti o due addendi eguali, si chiamano numeri dispari. Dunque la triade 1, 2, 3 gode di proprietà di cui non godono i numeri maggiori del 3. Nella serie naturale dei numeri, i numeri pari e dispari si succedono alternativamente; i numeri pari hanno a comune col due il carattere cui abbiamo accennato e si possono quindi sempre rappresentare sotto forma di un rettangolo in cui un lato contiene due punti, mentre i numeri dispari non presentano come l'unità questo carattere, e, quando si possono rappresentare sotto forma rettangolare, accade che la base e l'altezza contengono rispettivamente un numero di punti che è a sua volta un numero dispari. Nicomaco riporta anche una definizione più antica: esclusa la diade fondamentale, pari è un numero che si può dividere in due parti eguali o disuguali, parti che sono entrambe pari o dispari, ossia, come noi diremmo, che hanno la stessa parità; mentre il numero dispari si può dividere solo in due parti diseguali, di cui una pari e l'altra dispari, ossia in parti che hanno diversa parità. Secondo l'Heath questa distinzione tra pari e dispari rimonta senza dubbio a Pitagora, cosa che non stentiamo a credere; ed il Reidemeister dice che la teoria del pari e del dispari è pitagorica, che in questa nozione si adombra la scienza logica matematica dei pitagorici e che essa è il fondamento della metafisica pitagorica. Numero impari, dice Virgilio, Deus gaudet.
La tradizione massonica si conforma a questo riconoscimento del carattere sacro o divino dei numeri dispari, come risulta dai numeri che esprimono le età iniziatiche, dal numero delle luci, dei gioielli, dei fratelli componenti una officina ecc. Dovunque si presenta una distinzione, una polari-tà, si ha una analogia con la coppia del pari e del dispari, e si può stabilire una corrispondenza tra i due poli ed il pari ed il dispari; cosi per i Pitagorici il maschile era dispari ed il femminile pari, il destro era dispari ed il sinistro era pari.... I numeri, a cominciare dal tre, ammettono oltre alla raffigurazione lineare anche una raffigurazione superficiale, per esempio nel piano. Il tre è il primo numero che ammette oltre alla raffigurazione lineare una raffigurazione piana, mediante i tre vertici di un triangolo (equilatero). Il tre è un triangolo, o numero triangolare; esso è il risultato del mutuo accoppiamento della monade e della diade; il due è l'analisi dell'unità, il tre è la sintesi dell'unità e della diade. Si ha così con la triunità la manifestazione od epifania della monade nel mondo superficiale. Aritmeticamente 1 + 2 = 3. Proclo osservò che il due ha un carattere in certo modo intermedio tra l'unità ed il tre. Non soltanto perché ne è la media aritmetica, ma anche perché è il solo numero per il quale accade che sommandolo con sé stesso o moltiplicandolo per sé stesso, si ottiene il medesimo risultato, mentre per l'unità il prodotto dà di meno della somma e per il tre il prodotto dà di più. Modernamente invece è stato osservato che 1, 2, 3 sono i soli numeri interi positivi la cui somma sia eguale al prodotto. Si può anche riconoscere facilmente che l, 2, 3 è la sola terna di interi consecutivi per la quale accade che la somma dei primi due è eguale al terzo; infatti l'equazione x + (x + l) = x + 2 ammette per unica soluzione x = 1. Cosi pure si riconosce subito mediante la raffigu-razione geometrica che la somma di più interi consecutivi supera sempre il numero che segue l'ultimo degli addendi, tranne nel caso in cui gli addendi sono due in cui si ha: 1 + 2 = 3. Concludendo la triade, la santa triunità, si può ottenere solo mediante l'addizione della monade e della diade.
Ottenuto cosi il tre che, considerando la monade come potenzialmente triangolare, è il secondo numero triangolare, si possono ottenere altri numeri triangoli disponendo al di sotto della base il numero tre e si ottiene il numero triangolare 6; e così seguitando disponendo sotto la base quattro punti si ottiene il dieci ecc.
Esso è perciò un quadrato; è il secondo quadrato, perché l’unità è il quadrato di uno. Lo gnomone del quadrato, ossia la differenza tra il 4 che è il secondo quadrato ed il quadrato precedente è 3, il terzo quadrato, ossia come noi diciamo il quadrato di base 3, si ottiene nella raffigurazione geometrica aggiungendo al di sotto ed a destra uno gnomone a forma di squadra composto di 5 punti; e così via si passa da un quadrato al successivo aggiungendo successivamente i numeri dispari. Si vede così che anche i quadrati crescono conservando la similitudine della forma; e, poiché attorno ad un punto si possono disporre quattro angoli retti congruenti ed in ognuno di essi un quadrato, ne segue che, sviluppando omoteticamente rispetto al vertice comune come centro di omotetia i quattro quadrati, si ottiene il riempimento totale ed isotropico del piano mediante quadrati.
Aritmeticamente basta scrivere in una prima riga i numeri dispari, e nella seconda operare come si è fatto per i numeri triangolari per ottenere i quadrati: 1 scrivendo sotto ogni elemento della prima riga la sua somma col precedente. A differenza del numero tre, il numero quattro ammette anche una raffigurazione geometrica spaziale. Precisamente, conducendo la perpendicolare al piano di un triangolo equilatero per il suo centro, vi è su di essa un punto che ha dai tre vertici del triangolo distanza eguale al lato; i quattro punti sono i vertici di un tetraedro, chiamato piramide dai greci , ossia di una piramide regolare a base triangolare, che è la rappresentazione nello spazio del numero quattro. Anche in questo caso è possibile lo sviluppo omotetico rispetto ad uno dei vertici, ossia si può disporre al di sotto della base il numero triangolare consecutivo e si ottengono così i numeri tetraedrici. Lo gnomone del tetraedro è costituito dal triangolare che si aggiunge al tetraedro precedente. Il primo numero tetraedrico è l'unità: il secondo è 4 perché 1 + 3 = 4; il terzo è 10 perché 4 + 6 = 10. Come per delimitare un segmento di retta occorrono due punti, il minimo numero di rette con cui si delimita una porzione di piano è il tre; tra tutti i numeri piani il tre è il minimo; analogamente il minimo numero di piani occorrente per delimitare una porzione dello spazio è quattro; tra tutti i numeri solidi il 4 ossia il tetraedro è il minimo. Secondo Platone (cfr. il Timeo) questo tetraedro o piramide, come egli lo chiama, è l'ultima particella costituente i corpi, ossia l'atomo o molecola della materia. Naturalmente oggi sappiamo che gli atomi o le molecole non hanno questa forma e che non sono affatto indivisibili, ma vale la pena di notare che il corpo che possiede la maggiore saldezza molecolare, ossia il diamante, ha la molecola composta di quattro atomi disposti a forma di tetraedro regolare . Aggiungendo l'unità all'unità si è passati dal punto alla linea, individuata da due punti; aggiun-gendo a questi due punti un altro punto si può passare al piano mediante il triangolo; ed aggiun-gendo ancora l'unità si può passare allo spazio mediante il tetraedro. Ma restando nei limiti dell'in-tuizione umana dello spazio tridimensionale non è possibile aggiungere una unità ai quattro vertici del tetraedro prendendo un punto fuori dello spazio tridimensionale e raffigurare il 5 come una pi-ramide dell'iperspazio avente per base il tetraedro. In altre parole dall'unità si passa al due e si ha la linea, dal due si passa al tre e si ha il piano, dal tre si passa al quattro e si ha lo spazio: eppoi bisogna smettere, si è giunti alla fine del procedimento. Ora, secondo l'accezione aristotelica ed anche semplicemente greca della parola perfezione, le cose sono perfette quando sono terminate, completate: il limite, la fine è una perfezione. Nel nostro caso, siccome il quattro è l'ultimo numero che si ottiene passando dal punto alla linea, dalla linea al piano e dal piano alla spazio, perché non si può raffigurare un quinto punto fuori dello spazio definito dai quattro vertici del tetraedro, il quattro è, nel senso generico greco e pitagorico della perfezione, un numero perfetto. L'assieme della mona-de, della diade, della triade e della tetrade comprende il tutto: il punto, la linea, la superficie ed il mondo concreto materiale solido; e non si può andare oltre. Quindi anche la somma 1 + 2 + 3 + 4 = 10 ossia l'assieme o la quaterna dell'unità, della dualità, della trinità o della tetrade, ossia la decade, è perfetta e contiene il tutto. Ogni assieme o somma di quattro cose è detta con parola pitagorica tetractis; e vi sono varie tetractis; ma questa che abbiamo ora considerato è la tetractis per eccellenza, la tetractis pitagorica per la quale i pitagorici prestavano giuramento. Un frammento di Speusippo osserva che il dieci contiene in sé la varietà lineare, piana e solida di numero, perché 1 è un punto, 2 una linea, 3 un triangolo e 4 una piramide . Filone ebreo , ripetendo concetti pitagorici, dice che quattro sono i limiti delle cose: punto, linea, superficie e solido, e Gemino dice che l'aritmetica è divisa nella teoria dei numeri lineari, nella teoria dei numeri piani e nella teoria dei numeri solidi. La perfezione, ossia il completamento della manifestazione universale, è raggiunta col dieci che è la somma dei numeri sino a quattro. La decade contiene il tutto, come l'unità, che contiene il tutto potenzialmente. Questa constatazione è il risultato del limite posto allo sviluppo dei numeri dalla tridimensionalità della spazio, e si perverrebbe al riconoscimento di questa stessa proprietà del 4 e del 10 anche se la numerazione parlata invece di essere la numerazione decimale fosse per esempio una numerazione a base dodecimale o a base ternaria. Per altro constatiamo la coincidenza. La ragione per cui la numerazione parlata greca, latina, italiana ecc. è decimale, sta nel fatto che l'uomo possiede dieci dita delle mani, le quali sono di grande aiuto nel contare (contare a mena dito) tanto che nella scrittura latina e greca antica l'unità era rappresentata da un dito identificato in seguito con la lettera I. L'ultimo dito è il decimo, e quindi il 10 è perfetto. Il cinque ha nelle due scritture speciale rappresentazione, in greco mediante l'iniziale della parola pente, in latino mediante la palma, o spanna della mano aperta in seguito identificata con la lettera V, poiché presso i latini la scrittura dei numeri precorre la conoscenza e l'uso dell'alfabeto; ed il 10 è rappresentato in greco dalla lettera Δ iniziale di decade e che ha la forma di un triangolo equilatero mentre in latino è rappresentato dalle due mani aperte ed opposte ossia dal segno in seguito identificato con la lettera X. Questi segni bastano nella scrittura greca e latina dei numeri alla rappresentazione o scrittura dei numeri sino al cento, cui provvede in greco l'iniziale H della parola Hecaton, ed in latino un segno in seguito identificato colla iniziale di centum. Tanto la tetractis pitagorica che la numerazione parlata pongono in evidenza l'importanza del numero dieci per vie assolutamente indipendenti. E questa non è la sola concordanza tra il 4 ed il 10 perché la lingua greca forma i nomi dei numeri dal dieci al 99 mediante i nomi dei primi dieci numeri, introduce un nome nuovo per indicare il 100, eppoi un nome nuovo per indicare il mille, ed in fine un nuovo ed ultimo nome per indicare la decina di migliaia o miriade. Questa stessa parola μύριοι, diversamente accentata μυρίοι, indica un numero grandissimo indeterminato. Insomma la lingua greca dispone soltanto di quattro nomi, dopo il nove, per designare le prime quattro potenze del dieci e si arresta alla quarta potenza, come la somma dei numeri interi ha termine col quattro nella tetractis.
Una terza constatazione relativa alla decade (e quindi alla tetractis) è la seguente: Dopo l'unità che è potenzialmente poligonale, piramidale e poliedrico di qualunque genere, il primo numero che è simultaneamente lineare, triangolare e tetraedrico, e compare quindi nella irradiazione dell'unità e nella più semplice forma di manifestazione e di concretizzazione dell'unità, è il numero dieci. Esso è il primo numero che compare simultaneamente nelle tre successioni dei numeri lineari, triangolari e tetraedrici.
Una quarta constatazione è fornita dalla osservazione che la lettera delta è la quarta lettera dell'alfabeto greco ed ha la forma di un triangolo equilatero. La lettera D = delta è la quarta lettera anche nell'alfabeto etrusco, latino e fenicio e nei varii alfabeti greci (in uso nei varii periodi); e, sebbene l'ordine delle lettere di un alfabeto non sia un ordine stabilito da una legge di natura, occorre non trascurare questa osservazione per il valore che potevano annetterle i pitagorici o parte di essi. La decade è dunque il quarto numero triangolare ed il terzo tetraedrico ed è rappresentata nella scrittura dei numeri dalla sua iniziale che è la quarta lettera dell'alfabeto ed ha la forma di un triangolo. Il simbolo pitagorico della tetractis, nella sua forma schematica di triangolo equilatero, coincide manifestamente colla forma schematica del delta massonico, ed anche con la forma schematica del delta cristiano simbolo della Trinità. Questa ultima assimilazione vien fatta facilmente, anzi con faciloneria, specialmente schiaffandoci dentro tanto di occhio del Padre eterno. Il carattere cristiano del simbolo massonico non è più tanto appariscente quando; come spesso accade, nel triangolo compare scritto il tetragrammaton, ossia, il nome di Dio in quattro lettere, così designato dai caba-listi con parola greca; e sparisce addirittura quando il triangolo è collocato entro la stella fiammeg-giante a cinque punte o pentalfa pitagorico, come nel frontespizio dell'Etoile Flamboyante del Ba-rone De Tschoudy, cui è attribuito il rituale del 14° grado del Rito Scozzese. Inoltre il delta sacro, che è insieme al sole ed alla luna; uno dei tre lumi sublimi della società dei liberi muratori, come dice il rituale dell'Apprendista, si trova nei lavori di primo grado tra i simboli del sole e della luna dietro il seggio del Venerabile; mentre nei lavori di secondo grado è sostituito dalla Stella fiammeggiante. Le rispettive età iniziatiche dell'apprendista e del compagno corrispon-dono a questa sostituzione. Ne deriva una connessione tra i due simboli; e, siccome senza ombra di dubbio, la stella a cinque punte è simbolo caratteristico tanto dall'antico sodalizio pitagorico che della massoneria, ne risulta confermata la identificazione del delta massonico con la tetractis pita-gorica. Per attribuire un carattere cristiano anche allo stellone a cinque punte non resterebbe che af-fermare che tale era la forma della stella apparsa, secondo il quarto Vangelo, ai tre re Magi, Melchiorre, Gaspare e Baldassarre; ma il quarto Vangelo su questo punto non si pronunzia; e gli altri Vangeli, i tre sinottici, non fanno la minima menzione dei tre re magi. E siccome gli antichi documenti attestano la continuità della tradizione massonica che si richiama a Pitagora, la identificazione della massoneria con la geometria e la pretesa dei massoni di essere i soli a conoscere i numeri sacri, ci pare che la identificazione del Delta massonico con la tetractis pitagorica sia confortata da argomenti di maggior peso che non la identificazione col simbolo cristiano. Tra i simboli muratorii non compare alcun simbolo cristiano, neppure la croce; compaiono invece, ed è naturale, solo simboli di mestiere e simboli geometrici, architettonici e numerici. Se il delta massonico avesse il carattere cristiano esso sarebbe un simbolo isolato, spaesato, di cui non si comprenderebbe la esistenza e la eterogeneità in massoneria.. Insistiamo su questo punto non solamente perché è doveroso per la serietà e la serenità delle indagini critiche non lasciarsi fuorviare da simpatie od antipatie, ma perché l'incomprensione e l'ignoranza in proposito sono antiche ed essenziali, e molti rituali, invece di guidare i fratelli verso la piena intelligenza del simbolismo, contribuiscono in buona o mala fede ad impedire quella interpretazione che è indispensabile per comprendere il senso puramente muratorio del simbolismo. Con questo non intendiamo affermare né scorgere un contrasto tra la tetractis pitagorica o delta massonico ed il simbolo cristiano della Trinità. Tale opposizione del ternario cristiano al quaterna-rio pitagorico fu opera del fanatismo miope dei cristiani dei primi secoli; ed era ingiustificata perché, come vedremo, i pitagorici furono degli esaltatori della triade, e questa loro consuetudine di noverare e venerare in tutte le cose il numero tre li guidò persino nella classificazione dei numeri. Riassumendo, il due si può ottenere soltanto mediante l'addizione, e soltanto mediante l'addizione di due unità. Il tre si può ottenere soltanto mediante l'addizione, in cui almeno uno dei termini è l'unità. Dal quattro in poi tutti i numeri si possono ottenere mediante addizione di termini tutti distinti, dall'unità. La raffigurazione geometrica dei numeri nello spazio tridimensionali ha termine ed è perfetta col numero quattro, e siccome la somma 1 + 2 + 3 + 4 = 10 è anche la nuova unità del sistema di numerazione decimale, ne segue la perfezione del quattro e della decade ed il simbolo della tetractis. Perciò i pitagorici non si occuparono in modo speciale dei numeri maggiori del dieci che si esprimevano nel linguaggio e nella scrittura mediante il dieci ed i numeri precedenti, e per questa ragione, forse, ridussero ai primi nove numeri i numeri maggiori del dieci mediante la considerazione del loro fondo, ossia sostituendo ad essi il resto della loro divisione per nove od il nove stesso quando il numero era un multiplo del nove: resto che essi ottenevano facilmente mediante la ben nota regola del resto della divisione per nove. Poiché lo sviluppo dei numeri per addizione ha termine col quattro, occorre considerare ora lo sviluppo o generazione dei numeri mediante la moltiplicazione. Che i pitagorici siano effettivamente ricorsi a questo criterio di distinzione è certo, perché il numero sette era consacrato ed assimilato a Minerva perché come Minerva era vergine e non generato, ossia non era fattore di alcun numero (entro la decade) e non era prodotto di fattori. I numeri si distinguono quindi in numeri che non sono prodotti di altri numeri ossia in numeri primi od asintetici, ed in numeri che sono prodotti o numeri composti o sintetici. Tenendo conto dei soli numeri entro la decade, i numeri si suddividono in quattro classi: la classe dei numeri primi entro la decade che sono fattori di numeri della decade: e sono il due (che veramente non è un numero) ma compare come fattore del 4, del 6, dell'8 e del 10, il tre che è fattore del 6 e del 9; ed il 5 che è fattore del 10. La seconda classe è costituita dai numeri primi minori del 10 che non sono fattori di numeri minori del 10, ed è costituita dal solo numero sette. La terza classe è costituita dai numeri composti, inferiori al dieci, e che sono fattori di numeri minori del dieci, ed è costituita dal solo numero quattro, che è in pari tempo quadrato del due e fattore dell'8; la quarta classe è costituita dai numeri composti minori del dieci che sono prodotti di altri numeri senza essere fattori di numeri entro la decade, essa è costituita dal sei, dall'otto e dal nove, poiché 2 . 3 = 6, 2 . 2 . 2 = 2 . 4 = 8 e 3 . 3 = 9. Non tenendo conto del 10 e tenendo conto del due si hanno quattro numeri primi: 2, 3, 5, 7 di cui uno solo non produce altri numeri, e quattro numeri composti: 4, 6, 8, 9 di cui uno solo è anche fattore. Vale la pena di osservare come questo criterio pitagorico di distinzione per la classificazione dei numeri entro la decade coincide perfettamente col criterio tradizionale di distinzione cui si attiene il Vedanta per la quadruplice classificazione dei venticinque principii o tattwa, precisamente il primo principio (Prakriti) che non è produzione ma è produttivo, sette principii (Mahat, Ahamkara ed i 5 tanmatra) che sono contemporaneamente produzioni e produttivi, 16 principii (gli 11 indriya, compreso Manas ed i 5 bhuta) che sono produzioni improduttive, ed in fine Purusha che non è né produzione né produttivo. Rimandiamo il lettore in proposito alla esposizione che ne fa René Guénon ne L'uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta, Bari, Laterza, 1937. Questo stesso criterio di distinzione inspira, come ha osservato il Colebrooke (Essais sur la Philosophie des Hindous, trad. Pauthier), la divisione della Natura, fatta nel trattato De divisione Naturae di Scoto Erigena, il quale dice: «La divisione della Natura mi sembra dover essere stabilita in quattro differenti specie, di cui la prima è ciò che crea e non è creato; la seconda è ciò che è creato e crea a sua volta: la terza ciò che è creato e non crea, e la quarta infine ciò che non è creato e nemmeno crea». Naturalmente non è il caso di parlare di derivazione; comunque Pitagora, cronologicamente, precede, non solo Scoto Erigena, ma anche Sankaracharya. Resta così stabilito il carattere tradizionale della dottrina pitagorica dei numeri.
A.Reghini

13 febbraio 2011

- Pitagora: La Matematica dell'armonia


A Capo Colonna, vicino a Crotone, i greci avevano dedicato a Hera Lacinia un tempio con 48 colonne, allineate secondo la direzione dei raggi del sole nascente. In una notte stellata del mese di maggio le donne della città si recavano in processione al tempio, per chiedere alla dea il dono della fertilità. In epoca bizantina la devozione verso la dea si trasferì a Maria Theotokos, la madre di Dio, ma la tradizione della processione rimase inalterata, e continua ancora oggi. Il maggior vanto storico di Crotone è però, senza dubbio, la scuola che Pitagora di Samo, il grande matematico e filosofo, vi fondò quando vi si trasferì dalla Grecia, verso il 530 a.C. Essa prosperò per una trentina d'anni, fino a che i pitagorici si immischiarono nelle faccénde politiche della città, appoggiando il partito sbagliato. Essi furono perseguitati e cacciati, la scuola fu bruciata, e Pitagora fuggì a Metaponto, dove morì poco dopo. Per commemorare queste disparate memorie storiche, la Provincia di Crotone affianca alla tradizionale processione mariana le iniziative di un singolare "Maggio pitagorico". La manifestazione alterna conferenze su temi matematici e concerti musicali, e culmina il 24 maggio con un "Concerto all'aurora" che si tiene al sorger del sole, alle quattro del mattino, a Capo Colonna. La musica non interviene nel programma in maniera puramente occasionale. Fu infatti proprio una intuizione musicale che permise a Pitagora di formulare quel legame fra matematica e natura che costituisce, probabilmente, la scoperta più profonda e feconda della storia dell'intero pensiero umano. Secondo Giamblico, l’episodio è il seguente. Un giorno Pitagora passò di fronte all'officina di un fabbro e si accorse che il suono dei martelli sulle incudini era a volte consonante, e a volte dissonante. Incuriosito, entrò nell'officina, si fece mostrare i martelli, e scoprì che quelli che risuonavano in consonanza avevano un preciso rapporto di peso. Ad esempio, se uno dei martelli pesava il doppio dell'altro, essi producevano suoni distanti un'ottava. Se invece uno dei martelli pesava una volta e mezzo l'altro, essi producevano suoni distanti una quinta (l'intervallo fra il do e il sol). Tornato a casa, Pitagora fece alcuni esperimenti con nervi di bue in tensione, per vedere se qualche regola analoga valesse per i suoni generati da strumenti a corda, quali la lira. Sorprendentemente, la regola era addirittura la stessa! Ad esempio, se una delle corde aveva lunghezza doppia dell'altra, esse producevano suoni distanti un'ottava. Se invece una delle corde era lunga una volta e mezzo l'altra, esse producevano suoni distanti una quinta.
In perfetto stile scientifico, dall'osservazione e dall'esperimento Pitagora dedusse una teoria; la coincidenza di musica, matematica e natura. Più precisamente, egli suppose che ci fossero tre tipi di musica: quella strumentale propriamente detta, quella umana suonata dall'organismo, e quella mondana suonata dai cosmo. La sostanziale coincidenza delle tre musiche era responsabile da un lato dell'effetto emotivo prodotto per letterale risonanza, dalla melodia sull'uomo, e dall'altro della possibilità di dedurre le leggi matematiche dell'universo da quelle musicali. Poiché nelle leggi dell'armonia scoperte da Pitagora intervenivamo soltanto numeri frazionari, detti anche numeri razionali, ed i rapporti armonici corrispondevano perfettamente a rapporti numerici, Pitagora enunciò la sua scoperta nella famosa massima: tutto è (numero) razionale. Essa codifica la fede nella intelligibilità matematica della natura, ed è il presupposto metafisico dell'intera impresa scientifica, di cui Pitagora è stato appunto il padre fondatore. Più precisamente, "ragione" non era altro che la capacità di esprimere concetti mediante un "rapporto" numerico, come testimonia l'uso dello stesso vocabolo per entrambi i termini, sia in greco (logos) che in latino (ratio). Poiché poi, per i greci, logos significava anche la "parola" stessa, il vocabolo finì per esprimere una triplice coincidenza di linguaggio, razionalità e matematica. Anche questa coincidenza è tuttora viva e vegeta, e il Trattato di Wittgenstein non ne è che l'ultima riformulazione riveduta e corretta. Una scoperta tanto profonda non poteva che far ritenere Pitagora o una vera e propria divinità, ò almeno un depositario della saggezza divina. Il suo insegnamento non poteva essere oggetto di discussione, e a lui si applicò per la prima volta l'espressione ipse dixit. La sua scuola assunse i caratteri di una confraternita religiosa, e gli adepti vennero divisi in due catègorie: gli acusmatici, o uditori, e i matematici, o apprendisti. Ai primi si ammanniva l'insegnamento in maniera esoterica e superficiale, mentre i secondi venivano iniziati all’insegnamento esoterico e profondo.
Un esempio tipico della dicotomia è la teoria cosmologica pitagorica, il cui aspetto esoterico è stato tramandato da Platone nel difficile dialogo Timeo. Mediante misteriose costruzioni basate sui numeri 1, 2 e 3, che corrispondono ai rapporti numerici dell'ottava e della quinta, si arriva alla determinazione dei rapporti: armonici che regolano il moto dei pianeti. Il sistema solare è dunque visto come una lira a sette corde suonata da Apollo, in cui i pianeti producono i suoni che loro corrispondono, e che insieme costituiscono la musica delle sfere. L'aspetto esoterico del modello pitagorico rimase per secoli il punto di riferimento per la cosmologia, tanto che ancora nel 1619 Keplero lo utilizzò nel suo strabiliante libro L'armonia del mondo. In esso egli descrisse le leggi musicali che regolano il moto dei pianeti, specificando che nella sinfonia celeste Mercurio canta da soprano, Marte da tenore, Saturno e Giove da bassi, e la Terra e Venere da alti. E nella terza delle tre famose leggi di Keplero ricompare, miracolosamente, il rapporto di quinta il quadrato del periodo di rotazione di un pianeta attorno al Sole è infatti proporzionale al cubo della sua distanza da esso. Non a caso una delle conferenze del Maggio pitagorico è dunque dedicata a "L'ultimo sogno di Keplero". La svolta fondamentale della fisica moderna, compiuta da Newton nei Principia, corrisponde invece ad un esplicito tentativo di riscoprire l'aspetto esoterico della cosmologia pitagorica, nascosto sotto i "discorsi volgari" della musica delle sfere. Come molti suoi contemporanei, Newton riteneva infatti che la conoscenza fondamentale del mondo, la cosiddetta prisca sapientia, fosse già stata rivelata da Dio ai primi uomini, incisa su due pilastri: essi sarebbero stati riscoperti dopo il diluvio universale di Pitagora ed Ermes Trismegisto, che ne inglobarono la verità nelle proprie filosofie esoteriche. Sia come sia, il fatto è che su queste basi Newton mostrò che la legge di gravitazione universale era implicita nelle leggi dell'armonia pitagorica, e dichiarò che essa doveva quindi già essere nota a Pitagora stesso. Il pitagorismo rimane ben vivo anche nella fisica moderna, e non solo come generica matematizzazione della natura. Anzitutto, se la fisica classica aveva riformulato il motto pitagorico come: “tutto è (numero) reale” o “tutto è (numero) immaginario”, la fisica atomica sembra essere ritornata alla versione originale, in cui sono proprio i numeri interi a determinare le caratteristiche della natura a livello microscopico, attraverso la quantizzazione di quantità che si supponevano continue, prima fra tutte l'energia. Inoltre, nel tentativo più recente di arrivare ad una teoria unitaria della natura, la cosiddetta teoria delle stringhe di Witten, le costituenti ultime della materia vengono non più pensate come punti (im)materiali,ma come pezzi di corda che vibrano in uno spazio pluridimensionale, ed i cui modi di vibrazione (o suoni) costituiscono le particelle elementari. Il che giustifica il titolo “Da Pitagora a Witten” di una delle conferenze del Maggio pitagorico. Anche la storia della musica, come già quella della fisica, ha recepito ed elaborato in maniera profonda il credo pitagorico. Già Pitagora stesso aveva scoperto che la sua teoria musicale aveva qualche problema: infatti i rapporti numerici corrispondenti, rispettivamente, a un tono e due semitoni non coincidevano, e differivano di una quantità piccola ma percettibile all'orecchio, che fu chiamata comma pitagorico. La soluzione matematica del temperamento, che consiste nel dividere l'ottava in due semitoni uguali, fu trovata soltanto nel secolo XVIII e richiese l'assegnazione di un valore irrazionale al semitono. Non a caso la soluzione, che inizialmente generò resistenze vivaci, fu polarizzata dai 48 preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato. Bach era infatti sensibilissimo alla struttura matematica della musica, e opere quali le Variazioni Goldberg, l'Offerta musicale e l'Arte della fuga utilizzano in maniera sistematica trasformazioni geometriche che invertono, ribaltano e dilatano temi musicali. Le stesse trasformazioni, basilari per tutta la polifonia, sono poi state formulate esplicitamente agli inizi del secolo come regole della dodecafonia. Il che spiega la presenza di molte opere di Bach, 1'Offerta musicale in particolare, oltre che di Webern e Berg, nei concerti del Maggio pitagorico.
In conclusione, rimane da notare che il pensiero pitagorico è oggi divenuto la base metafisica della cultura planetaria. La scienza e la tecnologia, che ci piaccia o no, hanno ormai superato tutti i confini geografici e pervaso l'intero globo, si basano infatti proprio su quella coincidenza fra natura e matematica che Pitagora ha per primo saputo intuire e perseguire, rivelandosi più universale e profondo di qualunque altro profeta o pensatore, da Buddha a Cristo, da Platone a Marx.
Il pianeta, ormai unificato dalla scienza e dalla tecnologia, continua ancora a rimanere diviso dalle religioni. Forse anche in questo campo Pitagora, che credeva che Dio fosse semplicemente l'armonia dell'universo, e che la purificazione religiosa si ottenesse attraverso la contemplazione matematica, potrebbe un giorno additare la retta via. La quale è, d'altronde, già contenuta nella versione esoterica del pitagorico inizio del Vangelo secondo Giovanni: "In principio era la Ragione, e la Ragione era presso Dio, e la Ragione era Dio".
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12 febbraio 2011

- SULL'ORIGINE DEL SIMBOLISMO MURATORIO

Nelle brevi notizie di indole storica sopra le «Costituzioni dell'Anderson» abbiamo veduto come anche prima del 1723 si facesse distinzione nelle corporazioni muratorie tra massoneria operativa e massoneria speculativa. E, se può darsi che il manoscritto del Cooke, che risale al principio del 15°secolo, colla espressione speculativa, intenda significare semplicemente la scienza pratica del muratore, è per altro indubbio che, quando cominciarono ad appartenere alle Logge massoniche numerosi accettati liberi muratori, l'espressione di massoneria speculativa servì a designare l'arte o la scienza della edificazione morale e spirituale, e gli strumenti e le operazioni del lavoro muratorio acquistarono od accentuarono il valore di simbolo degli strumenti e delle operazioni di edificazione interiore. Il manoscritto rinvenuto dal Locke (1696) nella Biblioteca Bodleyana e pubblicato solo nel 1748, e che è attribuito alla mano di Enrico VI di Inghilterra, definisce la Massoneria come «la conoscenza della natura e la comprensione delle forze che sono in essa»; ed enuncia espressamente l'esistenza di un legame tra la Massoneria e la Scuola Italica, perché afferma che Pitagora imparò la Massoneria dall'Egitto e dalla Siria, e da questi paesi i Fenici, gli uomini rossi fiammanti, la portarono in Occidente . I più antichi manoscritti massonici offrono un curioso miscuglio di elementi biblici e di elementi pitagorici. Accanto a Tubalcain, ad Hiram, alla torre di Babele ed al Tempio di Salomone si trova in essi menzione di Pitagora, e di Euclide; il manoscritto Cooke dice che la Massoneria è la parte principale della Geometria e che fu Euclide, un sottilissimo e savio inventore, che regolò questa arte e le dette il nome di Massoneria. Ne segue tra le altre che la lettera G entro la stella fiammeggiante indica la geometria e non God, come sostengono certi scrittori e poiché la stella a cinque punte (il pentalfa pitagorico, il pentagramma cabalistico) rappresenta l'uomo, è dunque per virtù della conoscenza della Geometria (o Massoneria) che l'uomo diviene illuminato; perciò la stella fiammeggiante, come dice un antico rituale, è il simbolo del Massone risplendente di luce in mezzo alle tenebre. Il manoscritto della Bodleyana, concordando coi più antichi manoscritti massonici, stabilisce dunque il legame tra la Massoneria e la Geometria pitagorica, la cui conoscenza era indispensabile per entrare nella Scuola Italica. E sebbene l'autenticità di questo manoscritto non sia sicurissima, pure è molto probabile, ed in ogni caso il documento merita considerazione perché l'Anderson, che non lo conobbe, fa peraltro nel suo «Libro delle Costituzioni» espressa menzione dei rapporti interceduti tra Enrico VI e la Massoneria ; e quindi doveva esservene ricordo anche in qualcheduno degli antichi documenti massonici di cui egli si servì per la compilazione del suo Libro. E delle reminescenze pitagoriche nelle «Old Charges» è traccia anche nel più antico rituale stampato (1724) il quale attribuisce un pregio speciale ai numeri dispari, conforme alla tradizione pitagorica . Il simbolismo massonico, oltre ad elementi pitagorici e biblici, è però ricco di elementi e deriva-zioni varie e complesse, cristiane, cabalistiche, ermetiche, eleusine, alchemiche ecc. Noi vogliamo qui limitarci al simbolismo che adopera gli strumenti, i materiali e gli atti della edificazione materiale come simboli di quella spirituale. Il Laurie scrive : «oggi i Misteri di Pitagora sono chiamati i Misteri della Massoneria, perché molti dei loro simboli sono derivati dall'arte del costruire, e perché si crede che siano stati inventati da una associazione di architetti che erano ansiosi di preservare tra loro la conoscenza che avevano acquistata». Ed a provare che i Pitagorici per somministrare istruzione a coloro che erano iniziati nella loro Fraternità usavano dei simboli tratti dall'arte del costruire il Laurie adduce quanto scrive Proclo nel suo commento ad Euclide. Veramente il passo citato del Laurie non parla affatto di sim-boli di carattere muratorio, e l'unico passo di Proclo che potrebbe autorizzare l'affermazione del Laurie ci sembra il seguente: «Anche Platone insegna molte e mirabili sentenze sugli Dei per mezzo delle forme matematiche, e la filosofia pitagorica usando di questi veli copre la sacra disciplina delle sentenze divine» . Come si vede si tratta di un assai generico riferimento ad un uso di forme geometriche come simboli filosofici. Ed infatti una lontana relazione può stabilirsi tra la pietra cubica massonica ed il cubo e la piramide che per Platone se non per i pitagorici erano rispettivamente il simbolo della terra e del fuoco. I greci davano, come noi, il nome di piramide ad ogni poliedro ottenuto proiettando da un vertice un poligono piano, ma la piramide per eccellenza era quella a base quadrata come le piramidi di Egitto. I geometri greci la chiamavano così, dice Ammiano perché a guisa del fuoco si estenuava nel vertice. Ma il Revillout ha mostrato che la parola greca pyramis , usata per la prima volta da Erodoto, è una lieve corruzione dell'egiziano piremus che designa l'altezza della piramide. I platonici ed i neopitagorici vi riconobbero la figura schematica del fuoco; l'etimologia classica, indubbiamente errata, ve li indusse forse in parte e forse anche una qualche nozione di alcune denominazioni date in Egitto alla piramide di Cheope ed altre. La piramide simboleggiò il fuoco ed il cubo la terra ; e nella pietra cubica massonica abbiamo la riunione dei due simboli in un solo. Il fuoco (lo zolfo alchemico), l'elemento spirituale è riunito all'elemento terrestre purificato, alla terra, alla pietra levigata, alchemicamente al sale. Un altro rapporto tra la Massoneria e gli antichi è offerto dalla esplicita ed insistente menzione che gli antichi documenti massonici fanno delle sette scienze liberali; ossia delle scienze del trivio e del quadrivio. Quelle del trivio (grammatica, retorica, dialettica) studiavano il linguaggio, quelle del quadrivio (l'aritmetica, la geometria, l'astronomia, la musica) studiavano il numero. Come è noto non si poteva entrare nella scuola italica senza avere attitudine o conoscenza della geometria; ed il manoscritto Cooke afferma che la geometria è la prima causa di tutte le scienze, cioè delle altre sei. Sopra i rapporti tra Pitagora e la Massoneria molto si è scritto ed i famosi statuti massonici italiani del 1820 fanno risalire la Massoneria al sodalizio pitagorico. Esiste anche un'opera del tedesco Carlo Oppel che ha per titolo «Pitagora e la Massoneria» ma di essa non abbiamo potuto prendere visione; pure crediamo che anche l'Oppel non abbia riscontrato un raffronto specifico tra il simbolismo muratori o ed un analogo simbolismo pitagoreo. Prima del 1717 vi erano in Massoneria soltanto i due gradi di apprendista e compagno. Questi era il vero massone; simboli del compagno sono il pentalfa pitagorico (stella fiammeggiante), la lettera G iniziale di geometria, la scienza base delle sette scienze di cui i rituali prescrivono lo studio al compagno, come ne aveva il dovere il discepolo della scuola italica. A questo si riducono i rapporti, nell'uso del simbolismo muratorio, tra la Massoneria e la scuola pitagorica. Ma non per la natura del simbolismo, sibbene per quella della conoscenza, l'iniziazione massonica si riattacca a quella della antica scuola italica. Il simbolismo muratorio lo troviamo invece nettamente adoperato nel Vecchio e nel Nuovo Te-stamento. Naturalmente, data la formazione semantica del linguaggio, per cui ogni lingua, indipendentemente dal proposito determinato di individui e di scuole, fa uso della metafora e della stessa metafora, non è il caso di esagerare l'importanza di questo fatto, e di scorgervi per esempio la prova che la Massoneria [nel senso ristretto della parola] esisteva al tempo di Isaia, o che Gesù apparteneva all'Ordine. Espressioni come pietra di fondazione, pietra angolare, le fondamenta, la chiave di volta, le colonne ecc. si prestano così facilmente ad essere usate allegoricamente ad esprimere la edificazione morale e spirituale, che non basta l'uso semplice e sporadico di tali espressioni a provare l'esistenza di un vero e proprio simbolismo muratorio. Così sarebbe eccessivo il pretendere ciò a proposito del filosofo e mago neoplatonico, Massimo di Tiro, il maestro dell'imperatore Giuliano, il quale chiama arte reale e pastorale quella che ha per oggetto la condotta del genere umano; oppure a proposito del Tasso di cui ricordiamo il verso (salvo errore nell'Aminta): «Usi ogni arte regal chi vuole il regno».
E così pure sarebbe eccessivo ritenere che si faccia uso di simbolismo muratori o vero e proprio in quei passi del Vecchio e del Nuovo Testamento dove si parla di edificazione spirituale, e si fa uso delle espressioni: tempio, pietra angolare e consimili. San Paolo nella seconda epistola ai Corinti , paragona i Corinti al tempio (naos, tempio, nave) dell'Iddio vivente. La frase di Matteo che dice: Tu sei Pietro e sopra questa pietra io edificherò la mia chiesa; ed il passo di Matteo 7,24 non hanno in proposito maggiore importanza. Un uso più vicino al simbolismo muratorio si ritrova invece nel passo della prima epistola di San Pietro (2, 8) che dice: «la pietra che gli edificatori hanno riprovata è divenuta il capo dell'angolo, e pietra di incappo e sasso di intoppo»; ed il passo di Isaia (28, 16) sopra la pietra angolare citato da San Pietro (I, 2, 6) e da San Paolo (agli Efesi 2, 19, 22) che fa uso ampio ed esplicito del simbolismo della pietra angolare e del tempio del Signore. La ragione della denominazione pietra angolare riferita a Gesù ce la dice Origene :« Lapis angularis, è chiamato, vel quia duos parietes e diverso, id est, de circumcisione et praeputio venientes in unam fabricam Ecclesiae jungit; vel quod pacem in se angelis et hominibus fecit». Non traduciamo in omaggio alla religione della foglia di fico oggi dominante. Solo quando tale simbolismo si precisa, si accentua ed acquista un carattere sistematico e l'aspetto di gergo professionale, è il caso di parlare di un vero e proprio simbolismo muratorio. E questo è il caso del simbolismo massonico quando usa i termini: pietra grezza, pietra polita, pietra cubica, tagliatura e squadratura della pietra per la edificazione del tempio di Salomone ecc. Così pure quando l'arte muraria non si limita ad edificare in base alle sole considerazioni di stabilità e di estetica, ma per mezzo delle configurazioni e dei rapporti delle varie parti dell'edificio pensa ad esprimere concetti e sentimenti filosofici e religiosi, allora essa si eleva ad arte muratoria, ed assurge alla dignità dell'esoterismo. Simile carattere deve avere avuto od acquistato in tempi abbastanza remoti presso le corporazioni muratorie tutta la leggenda della costruzione del tempio di Salomone di Gerusalemme. Di fatti già nella Bibbia ed in generale nell'ebraismo Salomone è rinomato per la sua straordinaria sapienza; egli fu il re savio per eccellenza e la sua sapienza è detto avere sorpassato anche quella degli Egizii . Essa diviene poi proverbiale nella letteratura cristiana, specialmente in quella apocrifa, e nella letteratura araba, e diventa addirittura leggendaria nel medio evo. Tra gli apocrifi della Bibbia un libro intitolato «La sapienza di Salomone», opera di Filone Ebreo o di qualche alessandrino, identifica questa sapienza con Dio e con il Logos e dice che pervade tutte le cose e non è soggetta ad interruzioni nella costanza della sua influenza; in un passo famoso dice che essa attraversa tutte le cose a cagione della sua purezza, e che in tutti i tempi entrando nelle sante anime le fa amiche di Dio e dei profeti . Ed alla sapienza di Salomone si attribuisce di buon'ora il carattere magico; p.e. secondo una assai interessante leggenda cabalistica Salomone ordinò ad un demonio di portare Hiram, re di Tiro, nei sette compartimenti dell'inferno, e questi al suo ritorno rivelò a Salomone tutto quello che vi aveva veduto. E questo carattere gli è attribuito nelle numerosissime opere arabe che si occupano di Salomone; p. e. nelle «Mille e una notte» egli è ricordato come dominatore dei demoni per mezzo del suo anello magico. Le famose «Clavicole di Salomone» così diffuse nel Medio Evo ed ancor oggi popolari nelle campagne ne fanno il prototipo del mago e del sapiente . Rivestito di questo carattere si ritrova anche nella tradizione muratoria. Il tempio di Salomone è il tempio della saggezza; e non è perciò da stupire se ancor oggi si lavora alla sua edificazione. I più antichi documenti massoni ci si occupano diffusamente della costruzione del tempio di Salomone; e, dato questo suo carattere allegorico, furono bene inspirati quei fratelli che vi si riferirono nel comporre il rituale del terzo grado. Ma per trovare l'allegoria architettonica in senso spirituale, più o meno chiaro ed accentuato, è necessario dai tempi biblici e pitagorici venire a tempi assai più recenti. Il Rossetti, il patriota italiano esule a Londra per motivi politici e religiosi, dedica un intero capitolo del 3° volume della sua opera principale a ricercare l'uso del simbolismo architettonico e muratorio da parte degli scrittori medioevali. Egli ricorda il «De Compendiosa Architectura et Complemento Artis Lullii», e gli scritti di Francesco Colonna, nato poco oltre il principio del quattrocento, il quale annotando il Roman de la Rose lo definisce un trattato di «amore e architettura», dove le due parole vanno intese nel senso convenzionale del linguaggio allegorico. Ed il Rossetti rileva la curiosa identità tra l'espressione dantesca che chiama «cieco carcere» l'inferno e «miro ed angelico tempio» il paradiso, e la frase stereotipa del rituale massonico secondo la quale nelle logge «on bâtit des temples à la vertu, et l'on creuse des cachots pour le vice». Un uso molto più esplicito ed ampio di due elementi essenzialmente muratorii, insieme associati, come simboli della grande opera della palingenesi iniziatica è stato fatto dal Cardinale Niccolò di Cusa. Il Rossetti, che pure è andato a pescare i suoi documenti col lanternino, non ne fa alcuna menzione né ci consta che la cosa sia stata rilevata da altri. Per questa ragione e per l'importanza di questi passi, ne daremo l'esatta traduzione dal testo latino. Il Cusano, tedesco di nascita, nato a Cues presso Treviri nel 1401 e morto nel 1464, fu uomo di immensa erudizione, e fu un ardente seguace della filosofia pitagorica. A lui si inspirò e si conformò in gran parte un altro grande pitagorico, frate Giordano Bruno da Nola. Tra le altre cose pare che il Cusano sia stato il primo tra i moderni a sostenere la teoria eliocentrica, riprendendola appunto da Filolao e dai Pitagorici. I due passi che seguono fanno parte ambedue delle «Excitationum ex Sermonibus» del Cusano ; e vi si fa uso di un simbolismo simultaneamente cabalistico, pitagorico, platonico, cristiano e muratorio. «Poiché il tempio; dice il Cusano, ivi (cioè a Gerusalemme) edificato da Salomone non fu altro, che il luogo per la visione degli dei, il quale il principe dei sacerdoti consultava, dove si tenevano in scritto i responsi dei profeti, dai quali i sacerdoti investigavano le cose occulte». Ed ecco il secondo brano, che segue alla stessa pagina poco dopo: «L'anima zelante, che viene scelta in sposa per il figlio di Dio, il quale abita l'immortalità, ossia la celeste incorruttibilità, affinché sia gloriosa e degna, si conforma in questo mondo alle leggi ed ai costumi dello sposo e si adatta alla trasmigrazione, come vengono levigate le pietre (sicut lapides poliuntur) che devono essere trasportate all'edificio del tempio di Gerusalemme dove è la visione di Dio. Ed affinché tutte le pietre abbiano la debita misura, il maestro discende da Gerusalemme ai rudi monti del deserto, e le forma e poi le taglia per addurle e collocarle nel santo edificio. Così la sapienza di Dio discende dal cielo nella carne, e sceglie la sposa che lavi col suo sangue, affinché sia sposa, e conosca (di essere) grandemente diletta dallo sposo, che si dette in morte per essa. Ma la sposa zelante chiamata alle nozze dell'agnello, vale a dire del suo sposo immacolato, non può celebrare le nozze se non in Galilea, vale a dire in trasmigrazione. È necessario dunque che si dimentichi del padre, e che esca dalla sua terra e dalla sua famiglia paterna e segua il re che concupisce la sua bellezza: come in questo mondo le spose quanto più sono nobili, a tanto più distanti sposi vengono spesso trasferite». La traduzione, se non è bella, è però fedelissima e permette di pesare il valore ed il senso di tutte le espressioni usate in questo esuberante simbolismo. Sono queste le mistiche nozze del re e della regina, del Sole e della Luna, da cui nasce la pietra filosofale o pietra cubica, che fa parte integrante del dificio santo di Gerusalemme. Il maestro scende da Gerusalemme nel deserto (l'aspro diserto, la diserta piaggia dantesca), trae di tra i ruvidi massi (le pietre gregge) la pietra, la leviga, la purifica, le dà la debita conformazione, la rende atta alla trasmigrazione dal deserto al tempio dove si ha la visione di Dio, la stacca dalla sua terra e dal suo luogo natale e la colloca nel santo edificio. Così la sapienza discende dalle regioni celesti nella carne (verbum caro factum est), muore alla pura vita incorporea per immedesimarsi alla vita corporea di quella sposa che ha scelto, e che purifica col sangue che sparge per lei, il sangue dell'agnello immacolato, cioè vissuto sino ad allora nelle pure regioni spirituali. Così il re preso di amore per la bellezza di una anima nobile la trasporta tanto più lungi da terra quanto più essa è di nobile natura. Queste nozze del Cusano sono conformi alla dottrina cabalistica per la quale: «Anima plena su-periori conjungitur» , ed alla concezione dell'amore platonico secondo il quale vi sono quattro specie di furore divino, e la quarta che è di Venere e di Amore, è la meglio; la quale Venere Urania, dice Platone, non è lasciva manco per ombra . È un argomento questo su cui si sono dette e si dicono un sacco di sciocchezze da coloro che, per essere meno affini di gran lunga agli angeli che non ai porci, non sanno levare il naso dal trogolo in cui si godono rimestare il grifo. E perciò non ragioniamone, ma guardiamo e passiamo. L'identificazione dell'uomo e più specialmente della carne colla terra, e quindi colla pietra, è antichissima. L'etimologia stessa della parola homo, humanus da humus, cui corrisponde in ebraico quella di Adam lo prova; ed il Cardinale di Cusa teneva certo presente il racconto biblico della creazione dell'uomo dal fango. Egli era, come appare anche dai passi riportati, assai eclettico nei simboli che adoperava, e inoltre doveva certo parlare non per semplice erudizione. Cardinali così illuminati fanno onore alla Chiesa cui sono appartenuti, ed è giusto riconoscerlo. Non sappiamo però quanti ne annoveri oggi il Sacro Collegio; e, salvo il debito rispetto, ci pare che da un bel po' di tempo, nella vigna del Signore, di queste piante si sia perduto sin anco il seme. In compenso, prospera la mala erba di Santo Ignazio. Questo simbolismo muratorio adoperato dal Cusano, che era arcivescovo di Treviri, proprio nel periodo della grande attività delle corporazioni muratori e nella costruzione delle grandi cattedrali di Colonia, Strasburgo ecc. della regione renana, presenta allo storico della Massoneria più di un lato degno di riflessione. Le corporazioni muratorie erano allora in qualche modo dipendenti da questi alti prelati che le chiamavano al lavoro, e l'associazione dei due concetti di edificazione materiale e spirituale doveva attuarsi naturalmente per la collaborazione degli uni e degli altri. Alcuni simboli, strettamente muratorii, furono pure usati dagli alchimisti. Un manoscritto alchemico della Biblioteca dell'Arsenal contiene questo racconto del viaggio simbolico di un adepto: «Con la protezione dell'Altissimo tetrapentagrammaton, di cui la sovrana bontà mi ha conservato sempre questo prezioso mezzo (milieu) quod tenuere beati, nel mio pellegrinaggio laborioso tra il cielo ed il globo pietroso ho respirato e trovato il mio nutrimento tra i due poli artico ed antartico, nel sommo dei cieli e nella sfera di Saturno, nel cospetto molto benefico di Venere. Grazie alla favorevole introduzione di Mercurio, mi sono visto condotto nel gabinetto del Sole... dove ho riconosciuto che la vera e maestra pietra angolare e cubica è la base ed il vero centro della luce, che esce per se stessa dalle tenebre di questo sasso bianco, di questa unzione che insegna tutte le cose, di questa saggezza celeste che assiste continuamente il trono dell'Altissimo, da cui esce questo olio di gioia, questo balsamo di vita triangolare...». Il Jacob, da cui riportiamo il passo, non indica il tempo cui appartiene il manoscritto, di modo che si potrebbe forse dubitare della sua antichità; ma un po' per lo stile ed un po' per altre ragioni lo si può fare risalire al settecento. Analogia ed identità tra il simbolismo massonico e quello alchemico si riscontrano facilmente nelle opere degli alchimisti. Michele Sendivogio, detto il Cosmopolita, morto ottantenne nel 1646, paragona ad una via reale (via regia) quella seguita dalla santissima arte filosofica o scienza reale. Nel suo «Novum Lumen Chemicum» mette il chicco di grano in relazione colla putrefazione e colla resurrezione ed altrettanto fa l'anonimo Philalete in tutto il XIII capitolo dell'«Introitus apertus ad occlusum Regis Palatium», scritto nel 1645. In queste mirabili opere di antichi iniziati il chicco di grano ha il medesimo valore allegorico che riveste nei misteri egiziani, in quelli eleusini, nella tradizione massonica; e che è racchiuso nel carattere intenzionalmente duplice, ermetico ed eleusino, della parola di passo del secondo grado m∴, conformemente al significato ebraico ed a quello greco della parola, come sulla scorta dell'Hutchinson abbiamo mostrato altrove . Il sangue versato dall'agnello del Cusano è il sangue che viene trasudato dalla pietra cubica. «Beato te, dice il Sendivogio , se tu sai che il sangue dello Zolfo è quella virtù e sincerità intrinseca che converte e congela l'argento vivo (il mercurio) in oro». Perché, è detto poco dopo, «lo zolfo è più maturo degli altri principi, ed il Mercurio non si coagula se non collo zolfo. Quindi tutta la nostra operazione in questa parte non è se non di sapere fare uscire dai metalli lo zolfo col quale il nostro argento vivo si coagula in oro ed argento nelle viscere della terra: il quale zolfo in questa opera viene tenuto al posto del maschio, e quindi più degno, ed il Mercurio al posto della femmina. Dalla composizione e dall'atto di questi due si generano i Mercurii dei filosofi»; e così si penetra nel chiuso palazzo del re del Filalete , del Cusano e del Sendivogio . La squadra ed il compasso erano simboli usati dagli alchimisti sino dai primi del settecento. In un'opera edita a Francoforte nel 1618 (Joannis Danielis Mylii Tractatus III seu Basilica Philosophica) è rappresentato entro l'uovo filosofale l'ermafrodito ermetico o Rebis. Una figura umana bicipite (una testa maschile, l'altra femminile) tiene nella destra un compasso, nella sinistra una squadra, sta dritta sopra un dragone, e questo sta sopra un globo terrestre alato, in cui è inscritto un triangolo ed un quadrato. Questo Rebis dice il Filalete è la materia nella prima opera ed è rem ex re bina confectam juxta poenam: Res rebis est bina conjuncta, sed tamen una. Pochi anni dopo la morte del Sendivogio fu pubblicato a Parigi (1660) uno scritto famoso per i seguaci dell'Arte, le «Dodici chiavi della filosofia», composto probabilmente da Basilio Valentino. Al principio di questo libro, scrive il Silberer , si vede una magnifica incisione in rame, di cui è evidente l'affinità col simbolismo massonico. Come complemento al simbolo del sale, rappresenta-to dalla pietra cubica, e collocato proprio a pie' di pagina, si trova un chiaro accenno alla terra ed alle cose terrestri; la rettificazione del soggetto (l'uomo) trattato nell'arte si effettua difatti attraverso la prova degli elementi terrestri, conformemente ai precetti degli alchimisti, i quali chiamano Vitriol l'inizio dell'opera e danno la forma di una massima alle iniziali di questa parola: «Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem». Poco sotto il centro dell'incisione trovasi il simbolo alchemico del Mercurio con a destra il sole ed a sinistra la luna; e sopra il Mercurio il simbolo dello zolfo, ossia un triangolo equilatero dalla cui base pende una croce. Nell'interno del triangolo una Fenice si solleva dalle fiamme; e sopra il vertice del triangolo sta in piedi Saturno incoronato, colla falce nella destra ed un compasso nella sinistra. Il sale, il mercurio e lo zolfo furono, dopo Paracelso, i tre simboli fondamentali della alchimia. In questa incisione di Basilio Valentino tutto poggia sopra la pietra cubica. Sopra di essa, e sotto l'influsso del sole e della luna si forma il mercurio, che unisce la pietra cubica allo zolfo, entro cui la Fenice risorge dalle fiamme. Sta in sommo Saturno che tiene in mano la falce del tempo ed il compasso dell'eternità. La proprietà del Mercurio (l'argento vivo mobile come il pensiero) di fissarsi e di amalgamarsi coll'oro (il sole) e coll'argento (la luna) ne fa un simbolo alchemico preciso ed efficace, perché come abbiamo cercato di esporre altrove la grande opera si attua mediante l'amalgama, l'assimilazione della coscienza individuale in quella non differenziata. Il Rosacroce Joachim Frigerius nel suo «Summum bonum» (Oppenhemii 1629) parla continuamente del lapis dei filosofi e dice che «la pietra spirituale è Cristo che riempie tutte le cose, e quindi noi siamo le membra della pietra spirituale e conseguentemente siamo delle pietre viventi, tratte da questa pietra universale. Perciò non soltanto a Pietro ma ad ogni uomo cristiano compete il nome di Cephas» . Ed il grande filosofo rosacroce Robert De Fluctibus (Fludd) attribuisce l'invenzione della musica a TubalCain, ben noto in Massoneria, mentre il Borrichius pone la culla dell'alchimia nell'officina di TubalCain . Ricordiamo poi che Elias Ashmole, rosacroce, alchimista, ed autorevole massone, pubblicò il suo Fasciculus Chemicus sotto lo pseudonimo di Jacques Hasolle nel 1650, ed il «Theatrum Chemicum Britannicum» a Londra nel 1652. Egli era stato iniziato in Massoneria nel 1646. Ed infine ricordiamo che un vecchio libro avente per titolo: L'Adepte moderne, ou le vrai secret des FrancsMaçon, Londres 1747, non si occupa affatto di massoni, ma solo della trasmutazione dei metalli. Ma sui rapporti tra alchimia e massoneria avremo occasione di tornare e per il momento rimandiamo il lettore alle opere del Wirth, del Höhler, del Silbèrer, del Katsch e dello Tschoudy . Un tempio che ricorda quello massonico viene sommariamente descritto da Giordano Bruno nel De Monade, Numero et Figura nel capitoletto intitolato Urbs Cabalistica e che principia coi seguenti versi: Descripsit seclum, tetradis sub lege propheta, cui Domus est Quator laterum; Templumque quaternis cornibus adsurgens. Quadruplo ordine adesse columnas ad Quator coeli plagas, ... (Opera latina - Napoli 1884 - Vol. I, Pars II, pag. 385). E così pure sotto molti rispetti ricorda quello massonico e quello di Salomone il tempio della Città del Sole di Tommaso Campanella; ed il grande sacrificio che vi si compie e di cui Campanella fa la descrizione non è altro che la figurazione della suprema iniziazione . Il filosofo italiano scrisse verso il 1602, nel carcere, questo viaggio all'ideale città del sole che egli vagheggiava. Circa venti anni più tardi un grande filosofo inglese, Francesco Bacone, poco prima di morire, scriveva la nuova Atlantide, dove in modo consimile egli immagina di pervenire dopo un grande viaggio nella lontana isola di Ben Salem dove una umanità vive secondo un regime sociale e civile dall'autore esaltato. Come abbiamo accennato nel breve studio sopra le Costituzioni dell'Anderson, comparso in un numero precedente della Rassegna, varii autorevoli scrittori massonici fanno risalire ai rosacroce pel tramite della Nuova Atlantis di Bacone il nuovo spirito universale ed asettario impresso all'Ordine dai riformatori del 1717. Certo il grande rinascimento scientifico e filosofico del settecento, di cui Bacone fu magna pars, doveva esercitare una qualche ripercussione anche nel seno della Massoneria speculativa. Il severo spirito scientifico di Bacone e l'ampia visione umanistica che informa la Nuova Atlantide, la filosofia socratica propugnata nel Pantheisticon e nelle Letters to Serena del Toland, cui facevano capo i più eletti ingegni dell'Inghilterra (1720) e lo spirito libero con cui il Dupuy nel suo «Traitez concernent l'Histoire de France - 1651» trattò della storia e della condanna dei templari, dovevano certo promuovere la idea di una nuova società umanitaria in luogo dell'antica Massoneria cristiana ed anche suggerire l'adozione di simboli tratti dal paganesimo e dall' ebraismo. Ma oltre a questo legame ideale, vi sono altre cose più determinate in comune alla Massoneria ed alla Nuova Atlantide di Bacone. Gli abitanti dell'isola di Bensalem «grazie alla loro solitaria situazione, ed alle leggi del segreto verso i viaggiatori ed alle rare ammissioni di stranieri, conoscono bene la maggior parte del mondo abitabile, e sono essi stessi non conosciuti». Questa era esattamente la situazione dei Rosacroce, e in generale di ogni società segreta seria. Nel regno di Bensalem esiste una Società della casa di Salamon, composta di uomini savi, la quale casa o collegio costituisce l'occhio diritto (the very eye) del reame. Il governatore della casa degli stranieri, fornendo delle spiegazioni agli avventurosi viaggiatori, così si esprime in proposito: «Circa 1900 anni or sono regnò in quest'isola un re, la cui memoria più che tutte le altre onoriamo; non in modo superstizioso ma come un istrumento divino benché uomo mortale. Il suo nome era Solamone, e noi lo stimiamo come il legislatore della nostra nazione... Tra gli atti eccellenti di questo re uno ebbe sopra tutti preminenza. Fu l'erezione e la istituzione di un ordine, o società, che noi chiamiamo Casa di Salomone, la più nobile fondazione, pensiamo, che sia mai stata sopra la terra, e la lanterna di questo regno. Essa è dedicata allo studio delle opere e delle creature di Dio. Alcuni pensano che essa porta il nome del fondatore alquanto corrotto, perché dovrebbe essere la casa di Salomone; ma i documenti lo scrivono come è detto. Ed io penso che sia così denominata dal re degli Ebrei, che è famoso presso di voi e non è straniero per noi, perché abbiamo alcune delle sue opere che voi avete perduto: precisamente la Storia Naturale che egli scrisse di tutte le piante, dal cedro del Libano al muschio che cresce dai muri, e di tutte le cose che hanno vita e moto. Questo mi fa pensare che il nostro re, trovandosi a simbolizzare (ossia a concordare) in molte cose con quel re degli Ebrei (che visse molti anni prima di lui) lo onorò col titolo di quella fondazione. Ed io sono tanto più indotto ad essere di questa opinione perché nelle antiche memorie trovo che questo ordine o società talvolta è chiamato Casa di Salomone e qualche volta il Collegio dei Lavori dei sei giorni, per mezzo di che mi persuado che il nostro eccellente re aveva imparato dagli Ebrei che Iddio aveva creato il mondo e tutto quello che vi è dentro nello spazio di sei giorni; e perciò egli istituì quella casa per scoprire la vera natura delle cose (dimodo che Dio potesse avere la maggior gloria nella loro fabbricazione e gli uomini il maggior frutto nel loro uso), e le diede anche il secondo nome» . Ed infine Bacone fa dire personalmente al «padre della casa di Salomone»: «lo scopo della nostra fondazione è la conoscenza delle cause e dei movimenti segreti delle cose; e l'allargamento dei limiti dell'impero umano, per effettuare tutte le cose possibili». Lo scopo attribuito da Bacone alla sua casa di Salomone è lo stesso, anche nella espressione adoperata, con lo scopo e la definizione della Massoneria data dal manoscritto della Bodleyana. Notevole è pure la asserzione della esistenza di una sapienza arcana di Salomone nota solo ai fratelli del Collegio di Salomone, ed il perseguito allargamento dei limiti della potenza umana per effettuare tutte le cose possibili. Questi sono gli elementi essenziali per misurare quale legame spirituale leghi la Massoneria, attraverso l'opera dei riformatori massonici di due secoli or sono, alle idee di Francesco Bacone ed alla sapienza della misteriosa fratellanza dei rosacroce.
Arturo Reghini