24 gennaio 2010

- Il Lavoro in Massoneria


È sorprendente come il concetto di «lavoro» possa ricorrere tanto frequentemente nei rituali e nelle letture massoniche e, al tempo stesso, sia oggetto di tante controversie e incomprensioni. La questione, già a suo tempo sollevata da Guénon, non è di quelle che possano essere considerate d’accademia e riguarda, anzi, direttamente il percorso che il Massone è tenuto a compiere per trasformare la propria iniziazione da virtuale ad effettiva.
Il concetto astratto di lavoro così come lo si intende attualmente è in realtà venutosi affermando solo in concomitanza con la rivoluzione industriale del XVIII secolo. È soltanto quando la produzione è diventata principalmente una produzione di merci che «allora l’astrazione della categoria ‘lavoro’, ‘il lavoro in generale’, il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera». Questa è poi la ragione per la quale «nelle lingue dei popoli antichi o contemporanei, che non hanno spontaneamente sviluppato dei rapporti di produzione capitalistici, esistono raramente termini corrispondenti alle nostre nozioni astratte di lavoro o di lavorare ». È pertanto alquanto paradossale affermare, da un lato, il carattere storicamente relativo del concetto di lavoro e, dall’altro, utilizzare tale concetto per analizzare altre società, pretendendo di uniformare alla mentalità moderna il modo stesso di essere e di concepire l’attività lavorativa di culture e Tradizioni che, con quella moderna, hanno ben poco da spartire. Vero è che al giorno d’oggi si assiste ad una reiterata declamazione dell’importanza e delle virtù del lavoro e ciò non solo in relazione ad una maldigerita assimilazione della lezione marxiana, a torto o a ragione recepita dalla mentalità comune, ma soprattutto, come già rilevava il Guénon in tempi non sospetti, per «l’esagerata sopravvalutazione del concetto di azione in Occidente» che porta a concepire il lavoro in contrapposizione a quella particolarissima forma di agire che è la «contemplazione », a torto assimilata al «dolce far niente ». In realtà, il concetto tradizionale di Lavoro presenta delle strette connessioni con il mondo del Sacro, come si rileva del resto dalla stessa analisi etimologica. «Mestiere» viene da ministerium – opera minore – e si contrappone a magisterium – opera maggiore –, dove in entrambi i casi il termine «opera» rinvia ad un procedimento «operativo», per l’appunto, che è comune «all’Arte» (dell’artista) e al «lavoro» (dell’artigiano). Per «opera d’arte» si intende, etimologicamente, «ciò che è compiuto in conformità dell’ordine».
Via iniziatica
La «conformità» di detto ordine va rapportata alla natura propria di ciascun individuo, per cui si può affermare che «il lavoro non ha valore reale se non quando è conforme alla natura stessa dell’essere che lo compie, se non risulta in un certo qual modo spontaneo e necessario a tale natura, sì da essere il mezzo da questa impiegato per realizzarsi il più perfettamente possibile». Questa è la concezione che sottostà alla teoria dello swadharma degli indù e da cui prende le mosse l’elaborazione aristotelica del cosiddetto «atto proprio» a ciascuna natura. Come noto, le culture tradizionali individuano tre componenti fondamentali - denominati guna in sanscrito – la cui prevalenza relativa in ciascun individuo ne determina il carattere sattwico, rajasico o, alternativamente, tamasico. Per ciascuno dei tre si definiscono tre «vie» o percorsi iniziatici propri, di cui la prima – lo Jnama-marga – si addice alle persone in cui predomina la tendenza ascendente di sattwa e che per le loro caratteristiche sono candidate a ricoprire le funzioni di brahmano, mentre le altre due - il Bhakti-marga e il Karma-marga – sono proprie a quelle persone che ricadono, secondo la ben nota definizione tripartita della società suggerita dal Dumezil, nelle classi dei guerrieri e degli artigiani. Molto significativamente alla prima di queste vie appartiene il dominio del Magisterium, e quindi la conoscenza e la realizzazione dei Misteri maggiori, che caratterizzano l’Arte Sacerdotale propriamente detta; mentre la conoscenza dei Misteri minori – il ministerium – rientra in quella che è l’Arte Regale, la via propria alle altre due classi. Le vie iniziatiche che trovano un supporto simbolico e rituale nell’esercizio di un mestiere – e il cui esempio più rimarchevole è propriamente quello della Libera Muratoria, sono vie essenzialmente karmiche. La pratica dell’Arte Regale, che è conforme alla natura prevalentemente rajasica di queste persone, deve qui intendersi comunque come «preparatoria» nei confronti di un ulteriore proseguimento che, indipendentemente dalle limitazioni esplicate dal proprio guna, deve sempre ritenersi possibile. È importante sottolineare come esista «un rapporto tra i caratteri rispettivi dei tre marga e gli elementi costitutivi dell’essere ripartiti secondo la terna spirito, anima e corpo: la Conoscenza pura è, in se stessa, d’ordine essenzialmente sopraindividuale e cioè, in definitiva, spirituale come l’intelletto trascendente da cui deriva; il carattere nettamente psichico di Bhakti è evidente, mentre Karma, in tutte le sue modalità, comporta necessariamente una certa attività di ordine corporeo…; queste ultime due vie fanno dapprima appello ad elementi prettamente individuali, non fosse altro che per trasformarli alla fine in qualcosa che appartiene ad un ordine superiore; ciò è conforme alla natura di rajas, tendenza che produce l’espansione dell’essere appunto a livello dell’individualità, la quale, non lo si dimentichi, è costituita dall’insieme degli elementi psichico e corporeo».
Arte Regale
La realizzazione di queste possibilità è appunto quanto viene indicato con il termine di opera minore (ministerium) e che ricade sotto il nome di Arte Regale. Questo è anche l’obiettivo preminente del Lavoro massonico, che trova un suo specifico momento di esaltazione nel grado di compagno.
Nel rituale di iniziazione al secondo grado, in una Loggia dove molto significativamente l’Ara adorna di strumenti «operativi» (cazzuola, regolo, maglietto, scalpello, squadra) viene definita «Ara di Lavoro», possiamo infatti leggere come:
«…Fratello, noi siamo innanzitutto dei lavoratori e nel vasto campo del pensiero, nel quale noi lavoriamo con i nostri mezzi e le nostre forze, il lavoratore spesso non raccoglie che sarcasmi e persecuzioni. ...Il lavoro è uno sforzo fatto dalle nostre braccia e dal nostro spirito per ottenere un risultato utile… il lavoro intellettuale … sviluppa tutte le nostre facoltà, ci rivela i segreti della natura…».
Il testo bene sottolinea come si tratti qui di un «lavoro intellettuale», dove il termine fa riferimento ad una facoltà che né si esaurisce né si identifica con la categoria del mentale, ma che, come evidenzia il Devoto-Oli, fa appello ad una «attività dello spirito», una capacità gnoseologica promanante direttamente dall’intelletto puro, quello, per intenderci, capace di comprensione assoluta e trascendente. Questo è il lavoro che, come ricorda il rituale, è propriamente degno di essere glorificato:
«FF. miei, eleviamo i nostri cuori in un pensiero comune per glorificare il lavoro, che è la prima e la più alta virtù massonica. Lavoro! Dovere sacro dell’uomo libero, forza e concordia dei cuori generosi! …Sii glorificato, o lavoro, sii benedetto dai Figli della Vedova per tutto ciò che di buono ci darai nel futuro.» Il verbo «glorificare» va qui inteso etimologicamente come «esaltare», «innalzare», e in effetti, il lavoro interiore del Massone è quello che gli consente di elevarsi, mutando, per così dire, il proprio stato, passando “dalla potenza all’atto” delle possibilità insite nella natura individuale. I sensi e le arti liberali
Questo «lavoro» si articola sullo sviluppo dei cinque sensi e sulla conoscenza delle sette arti (scienze) liberali — Grammatica, Retorica, Logica, Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia — per la realizzazione di un tempio in conformità ai tre ordini architettonici conosciuti come ionico, dorico e corinzio. Questo richiamo al concetto di «ordine» assume qui una rilevanza tutta particolare e ci riconduce al secondo dei significati poc’anzi ricordati.
L’ordine di cui è questione fa infatti riferimento a quel processo, continuamente riattualizzato dall’operare dell’iniziato, che ha portato alla manifestazione cosmica a partire dal principio supremo. Guénon ricorda che «come è espresso nei libri indù noi dobbiamo costruire, come i deva fecero all’Inizio». Del resto, questo è uno dei significati dell’apertura del Libro sacro in corrispondenza del Prologo del Vangelo di S. Giovanni, dove le prime battute ricordano l’atto di manifestazione dell’Universo ad opera del Verbo. Il richiamo a questo simbolismo condiziona non solo il carattere necessariamente rituale dell’operare, ma sottolinea ulteriormente come si tratti per l’iniziato di riprodurre costantemente in Terra l’Ordine Cosmico. È questo, in fondo, il senso ultimo che spiega la presenza sull’Ara di due sfere: quella celeste e quella terrestre. Spetta al Massone concorrere alla costruzione di quel ponte che le unisce. E così, «quando l’architetto umano imita in tal modo l’operazione dell’Architetto divino, egli partecipa dell’opera stessa di questo in misura corrispondente e in una forma tanto più effettiva quanto più ha coscienza di questa cooperazione; e più egli realizza mediante il suo lavoro le virtualità della propria natura, più si accresce in pari tempo la sua somiglianza con l’Artigiano divino e più le sue opere si integrano nell’armonia del Cosmo».
Tra realtà profana e GADU
Questo rapportare l’opera all’agire del GADU rende ragione del perché il lavoro possa essere «glorificato», cioè «trasformato, quando, invece di essere una semplice realtà profana, costituisce una collaborazione sacra ed effettiva alla realizzazione del piano del Grande Architetto dell’Universo». Perché possa essere tale, il lavoro del Massone deve tuttavia sottostare ad un’altra imprescindibile condizione, quella inerente alla dimensione collettiva dell’azione rituale. Come ben noto, l’obbligo di presenziare ai «lavori » di Loggia è uno di quei doveri su cui insistono tutti o quasi i documenti pervenuti fino a noi. Nella Charta di Bologna, l’articolo III prescrive che il Massone sia presente «nel luogo dove la Società si riunisce e sia tenuto a presentarsi ogni volta e per quante volte gli sarà comandato od ordinato sotto pena di un’ammenda ». Del pari, nel Poema Regius l’articolo 2 ricorda come il Massone «…a tale assemblea deve andare, salvo che non abbia una ragionevole giustificazione»; anche nel Manoscritto Cooke, sempre all’articolo 2, si sottolinea che i Liberi Muratori «non possono essere scusati delle assenze, se non per qualche valido motivo». L’obbligo di frequenza ai «lavori di Loggia» è stato da allora reiterato in tutte le Costituzioni massoniche e la «diserzione dai lavori» è ancor oggi annoverata tra le «colpe» massoniche. L’obbligo di cui è questione, lungi dall’adempiere ad una funzione meramente normativa e burocratica, sottolinea la peculiarità e insostituibilità che la dimensione «collettiva» del lavoro iniziatico assume in Massoneria e più in generale in tutte le iniziazioni di mestiere. Senza nulla togliere all’importanza - che resta decisiva - del lavoro personale di perfezionamento e di meditazione, non ci si stancherà mai dal rilevare come taluni riti e molti aspetti del lavoro massonico siano imprescindibili dalla presenza di un numero adeguato di Fratelli. Così la «comunicazione» di determinate parole e la stessa «iniziazione» a Maestro necessitano del concorso del Venerabile e dei due Sorveglianti, mentre l’iniziazione non può esserci se non alla presenza di almeno sette membri della Loggia. Va da sé, come ricorda il Guénon, che in altre forme iniziatiche, come quelle orientali, le cose stiano in tutt’altro modo e la trasmissione dell’influenza spirituale - che in se stessa, ricordiamolo, costituisce propriamente «l’iniziazione» - può benissimo essere operata semplicemente da Maestro a discepolo; ma è altresì evidente che «una tale differenza di modalità deve implicare conseguenze altrettanto diverse per tutto l’insieme dell’ulteriore lavoro iniziatico». La collettività dei «Fratelli» svolge qui una funzione assimilabile a quella esercitata dal Guru della Tradizione indù e, come questo, agisce non tanto in quanto «eggregoro», bensì perché rappresenta il supporto di un principio trascendente, «il quale solo le conferisce un carattere veramente iniziatico. Si tratta dunque di qualcosa che si può definire come una presenza spirituale… che agisce proprio nel corso e per mezzo del lavoro collettivo». La discesa di questa Shekinah è attestata dalla Kabala e un’ accenno ne viene fatto negli stessi Vangeli, quando il Cristo afferma che «dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro».
Armonia collettiva
Questa considerazione colpisce in modo particolare se ci si ricorda che la Loggia è costruita a somiglianza del Tempio di Re Salomone e di come, nel Sancta Sanctorum di questi, venisse custodita l’Arca dell’Alleanza - la Shekinah - la «presenza effettiva» della divinità, la cui «discesa » è propiziata - lo rileviamo qui di sfuggita - dall’armonia delle proporzioni architettoniche realizzate nel templum e dalla preliminare invocazione del «nome» cui fa allusione il passo evangelico. Come ricorda Guénon, infatti, «il lavoro di un’organizzazione iniziatica deve sempre essere compiuto in nome del principio spirituale da cui essa procede…, ed è appunto un’emanazione diretta di questo a costituire quella presenza che ispira e guida il lavoro iniziatico collettivo, affinché questo possa produrre dei risultati effettivi nella misura delle capacità di ciascuno di quelli che vi prendono parte».
MARIANO BIZZARRI

18 gennaio 2010

- La Volta Celeste.


La stella. Quest’immagine un tempo accendeva la fantasia dei pittori e dei poeti mentre oggi è oggetto di studio per astronomi e scienziati. Progresso o regresso? Apparentemente si tratta di un progresso. Ma una conquista del sapere è progresso solo agli occhi del volgo.
Ma è poi così importante sapere quanto distano le stelle, da quali gas sono costituite o da quanti milioni di anni esistono? Forse quando sapremo tutto ciò (ma lo sapremo mai o ad ogni risposta che troveremo ci si presenteranno nuovi interrogativi?) saremo più felici? La scienza, si dirà, ha rischiarato le tenebre dell’ignoranza, ha aiutato l’uomo a capire, a sapere! Lo ha dotato di strumenti formidabili, con i quali realizzare sogni ancestrali, come quello di volare, o congegni e macchinari, con i quali rendere più comoda e piacevole la vita. Gli ha consentito di debellare malattie un tempo mortali, di raddoppiare, triplicare, centuplicare la produzione di beni necessari al suo sostentamento. Tutto questo e tanto altro.
Conoscenza oltre la scienza
Ma più si conosce, più si ha la sensazione dei propri limiti. Potrà mai l’uomo saper tutto o ad ogni porta che aprirà se ne troverà davanti altre cento o mille ancora chiuse? E intanto le stelle ci osservano dall’alto impassibili e ammiccanti, col loro sguardo penetrante, che trapassa le tenebre e giunge fino ai nostri occhi, stabilendo con noi un filo invisibile, col quale intrecciamo i nostri sogni e le nostre fantasticherie notturne, come dice Pirandello nella novella La patente a proposito di un giudice che meditava di notte. Chissà se le stelle si sono accorte che l’uomo è cambiato nel corso del tempo (dall’uomo di Neanderthal ad oggi) o se non ci hanno fatto caso? O forse non si sono neppure accorte dell’esistenza dell’uomo, come dice Leopardi nella poesia La ginestra: per le stelle è sconosciuto non solo l’uomo, ma il mondo intero, non solo il mondo, ma il nostro sistema solare. Forse per loro il tempo non esiste. Vivono nella dimensione dell’assoluto, al di là del tempo e dello spazio. Il conoscerle, l’interrogarle, lo studiarle è una fatica tanto sterile, quanto lo sarebbe quella di un insetto che volesse capire il funzionamento di un aereo a reazione! Eppure l’uomo, con la sua debole e fallace ragione, con la quale ha compiuto indubbi progressi e ha assunto un atteggiamento scettico o addirittura pessimistico, l’uomo è sicuramente poco costruttivo. La filosofia e la letteratura propongono dubbi e interrogativi profondi e insolubili, esprimono certamente punti di vista più disincantati e critici, ma è la scienza con la sua umiltà e la sua tenacia ad aver determinato il progresso.
Esiste tuttavia una dimensione nella quale l’uomo non ha sensibilmente migliorato le proprie conoscenze, rispetto al passato: la dimensione del sovrannaturale. L’ignoto, l’eterno, il soprasensibile lo indagavano forse più acutamente Maya, Indiani e Babilonesi, piuttosto che i cultori odierni di astrologia, occultismo o magia. In questa direzione, non è esagerato affermare che siamo ancora al punto di partenza. Il linguaggio dei simboli è per noi ancor oggi più oscuro di quello della matematica o dei segni, grafici, linguistici o artistici che siano.
La Volta del Tempio Massonico
Un Massone non può fermarsi né alla lettura scientifica della volta celeste né all’interpretazione religiosa (manifestazione della grandezza di Dio), ma neppure a quella artistico-poetico-musicale. Quale rapporto stabilire allora con le stelle? Come guardarle? Cosa vederci?
E’ impresa tutt’altro che agevole tentare di trovare delle risposte a tutti questi interrogativi e allora è meglio affrontare il problema per la tangente, anziché frontalmente. Più che fornire risposte, cercherò di delineare percorsi da esplorare, indicare comportamenti da assumere.
Innanzitutto poniamoci alcune domande: perché il cielo stellato figura sulla volta del Tempio massone? Perché la disposizione delle costellazioni non corrisponde alla reale configurazione del firmamento, ma le stelle vi appaiono in posizione confusa e apparentemente casuale? Ecco un paio di domande da cui prendere le mosse per la nostra riflessione. Una possibile risposta è che la volta celeste simboleggia meglio di ogni altra metafora l’infinito e per questo motivo è stata assunta a soffitto del Tempio. L’ascesa dell’uomo – e del Massone in particolare – è verso l’infinito, quindi la volta del Tempio rappresenta un limite all’orizzonte visivo che consente un’apertura all’infinito spirituale. Il disordine col quale sono raffigurate le stelle sta forse a denunciare l’arbitrarietà di certe figure zodiacali che l’uomo ha voluto vedere nel cielo stellato: meglio il disordine casuale che un ordine arbitrario!
Ma torniamo alle stelle. Nel cielo esse rappresentano l’elemento ’vivo’. Si tratta di una vita intesa come evoluzione e movimento, quindi mobilità nel tempo (hanno una loro durata) e nello spazio (i gas da cui sono composte si espandono). Inserite negli spazi siderali vuoti, ne costituiscono la materia vitale, allo steso modo che sulla terra alberi e fiori vivificano l’ambiente naturale. In un certo senso le stelle stanno al cosmo, come i vegetali e gli animali stanno alla terra. Si potrebbe proseguire su questa strada e tentare di dimostrare che, come sulla terra uomo, animali e piante (gli elementi vivi) sono sovrani, così nel cosmo le stelle regnano, ma sarebbe forse un’inutile forzatura. Ci interessa maggiormente esplorare qualche segreto cosmico legato alle stelle, qualche significato nascosto, qualche simbolo.
Fantasia e Filosofia
Partiamo da una considerazione: l’universo è espressione dell’onnipotenza del G.A.D.U. Nell’universo le dimensioni sono abnormi, al limite dell’incommensurabile, dimensioni rispetto alle quali risulta in modo inequivocabile, come si è visto, tutta la piccolezza dell’uomo. Ebbene, tentiamo un’interpretazione diversa. Immaginiamo il firmamento come un enorme scatolone forato, da cui entri una luce esterna, quella di Dio, il G.A.D.U., che abbraccia l’universo. Sì, la scienza si ribella. Pare di avvertire l’indignazione degli scienziati che sono certi che le stelle sono accumuli gassosi giganteschi. La fantasia però può andare oltre le ’certezze’ della scienza e ipotizzare un universo vero, eterno, coincidente con Dio, di cui il nostro è solo una pallida parvenza, brilla di luce riflessa o penetrata dal di fuori (già Platone con il suo Iperuranio aveva inteso qualcosa di simile). Del resto, se al G.A.D.U. riconosciamo poteri illimitati, cosa vieta di pensare che possa trasformare in sorgenti di luce autonoma – e magari conferir loro i caratteri che gli scienziati individuano nelle stelle – dei raggi provenienti da sé o dall’atmosfera che Lo circonda? E se fossero bizzarre mutazioni genetiche di tutti coloro che sono morti, che gli uomini, una volta estinti, ci guardassero dall’alto, si aggiungessero come nuove stelle al firmamento?
Capire le stelle
Non sappiamo, non sapremo mai cosa sono, o meglio cosa significano, le stelle. È certo che sono qualcosa di più (e forse di diverso) rispetto a dei semplici accumuli gassosi. Del resto, le spiegazioni astronomiche non hanno mai soddisfatto la curiosità dell’uomo. Più che al ’che cosa’, l’uomo è interessato al ’perché’. E a questo punto le domande sono molte. Possibile che il creato sia tutto una costruzione perfetta ma senza uno scopo preciso? Siamo proprio sicuri che l’uomo sia l’unico abitante o comunque il destinatario privilegiato di questo immenso e meraviglioso edificio? Non è una casa troppo grande per un inquilino così piccolo? L’ha costruita qualcuno che non la abita o il proprietario ne è anche il principale inquilino? O si è costruita da sé? Forse le stelle sono le discrete e silenziose depositarie di questi segreti. Non quindi semplici accumuli di gas, ma enigmatiche custodi di qualcosa che non conosceremo mai, che la nostra intelligenza non ci permetterà di capire, ma che una folgorazione mentale ci può far intuire e, perché no, sognare. Di fronte all’eterno mistero delle stelle, ogni immaginazione che rechi in sé le dimensioni dell’infinito è appropriata.
Riflesso armonico del G.A.D.U.
Chiudendo gli occhi, guardo le stelle del firmamento: sono infinite nel numero ed enigmatiche nell’aspetto. La loro forma è indecifrabile, sono troppo lontane. Gli astronomi ci dicono che sono vagamente sferiche. Ma sarà poi vero? Se le stelle sono effettivamente un pallido riflesso della perfezione del G.A.D.U., ci è sicuramente concesso di immaginarle come una struttura geometrica che riproduce simbolicamente la Sua perfetta armonia!
I Suoi raggi partono tutti da un unico centro e passano per gli otto punti che rappresentano il ’credo’ massonico. Basta mettersi in contatto con loro e credere fermamente che non sono solo degli astri luminosi, dei semplici ammassi gassosi! Intuiremo allora che sono le virtù divine che giungono fino a noi - attraverso il compiacente ammiccare delle stelle.

FILIPPO DI VENTI

14 gennaio 2010

- I sette principi ermetici del KYBALION.


La Filosofia Ermetica, proveniente dall'antico Egitto e poi ripresa dai Greci, rappresenta una delle principali fonti di conoscenza esoterica nel nostro Occidente. Il Kybalion è uno dei testi fondamentali dell'Ermetismo ed enuncia sette princìpi che costituiscono le leggi di base su cui si fonda la vita dell'Universo e delle sue creature. I sette princìpi fondamentali sono i seguenti: 1) il mentalismo, 2) la corrispondenza, 3) la vibrazione, 4) la polarità, 5) il ritmo, 6) la causa-effetto, 7) il genere. Vediamo ora che cosa significa tutto questo e come si manifesta nella pratica.
1) Il principio del mentalismo. "Tutto è Mente", afferma il Kybalion. Questo significa che la realtà sostanziale che sta al di là di tutti i fenomeni, quelli che la scienza identifica come materia, energia e vita, è l'attività mentale, a sua volta originata dallo Spirito. Ogni cosa che esiste è una creazione della Mente Universale, ed esiste quindi uno Spirito Universale che crea ogni cosa con la propria Mente. Lo Spirito è per sua natura inconoscibile e indefinibile, ma la sua esistenza si manifesta nell'attività mentale creatrice. Dove esiste materia, energia o vita, sappiamo dunque che tutto questo prima di esistere è stato pensato da una Mente. Questo vale sia per il macrocosmo (l'Universo, i grandi sistemi), che per il microcosmo (i singoli esseri viventi, i piccoli sistemi). Il primo principio ermetico fa intendere quanto sia immenso il potere della mente, vero agente creatore e trasformatore di ogni cosa e ogni situazione.
2) Il principio della corrispondenza. "Come sopra, così anche sotto". Il secondo principio ermetico dice che esiste una precisa analogia tra le leggi che regolano i diversi livelli di esistenza. Si tratta di un principio di fondamentale importanza, perchè ci fa capire come i diversi sistemi, dal più grande al più piccolo, funzionino tutti attraverso le stessi leggi di base. Conoscendo quindi i meccanismi che regolano un sistema conosciuto, possiamo trasporle per analogia ad uno sconosciuto. Questo secondo principio ermetico è una chiave fondamentale per comprendere il funzionamento dei piani di esistenza non materiali e delle scienze occulte in generale, in quanto le correnti energetiche che agiscono sui livelli superiori si comportano nello stesso modo di quelle terrestri conosciute, come ad esempio l'elettricità o il magnetismo.
3) Il principio della vibrazione. "Tutte le cose sono in movimento, tutte le cose vibrano". Questo ormai non è un mistero nemmeno per la nostra scienza, almeno per quanto riguarda la materia. Anche gli oggetti apparentemente solidi sono formati da atomi, i quali sono com'è noto costituiti da particelle in movimento. Il fatto che ci appaiano solidi e compatti dipende dalle nostre limitate capacità di percezione, ma in realtà ogni cosa vibra e possiede una sua frequenza vibratoria, che è inversamente proporzionale alla densità della materia che la compone. Anche il terzo principio ermetico ha una grandissima importanza, in quanto ci permette di comprendere l'interazione tra le diverse frequenze vibratorie attraverso il fenomeno della risonanza. Tutto questo può essere trasposto sui piani di esistenza superiori (eterico, astrale, mentale) grazie al secondo principio ermetico, comprendendo in questo modo le leggi che governano l'interazione tra mente, emozioni, energia e materia.
4) Il principio della polarità. "Tutto è duale, ogni cosa ha la sua coppia di opposti". Il quarto principio ermetico, che richiama il notissimo sistema filosofico taoista basato sull'interazione delle polarità opposte Yin e Yang, spiega tanti paradossi con i quali ognuno di noi si trova continuamente a dover fare i conti. Gli opposti sono complementari, gli estremi si toccano, ogni verità è solo una mezza verità, ogni medaglia ha il suo rovescio, tutto è relativo. Ogni opposto esiste solo perchè esiste anche l'altro, e ognuno ha bisogno dell'altro, contenendolo in sè in potenza. Anche questo principio ermetico ci può far capire molte cose di noi stessi e della vita, soprattutto se lo applichiamo ai piani mentali, emozionali, sociali, relazionali.
5) Il principio del ritmo. "Ogni cosa ha le sue fasi, cresce e decresce, fluisce e rifluisce". Il quinto principio ermetico è strettamente legato al quarto, facendo capire che in tutte le cose c'è un ritmo di alternanza tra due polarità opposte nelle loro molteplici manifestazioni. Ma è legato anche al terzo, in quanto la vibrazione si manifesta come alternanza tra cresta d'onda e cavo d'onda. Tutte le cose crescono e decadono, avanzano e retrocedono, aumentano e diminuiscono. Questa è la vita, nelle galassie come nelle stelle, nell'uomo come nelle piante. Nessuno può pensare di essere sempre sulla cresta dell'onda o di crescere all'infinito, ma la conoscenza di questa legge e del suo manifestarsi in un sistema specifico permette di capire come fare la cosa giusta al momento giusto, in armonia con il fluire e rifluire della vita. In questo è davvero maestra la filosofia taoista con il suo meraviglioso sistema basato sull'alternarsi delle energie prevalenti.
6) Il principio di causa-effetto. "Ogni cosa ha il suo effetto, ogni effetto ha la sua causa, e tutto avviene secondo una legge". La legge di causa-effetto è conosciuta anche dalla nostra scienza, che si limita però ad applicarla soltanto alla materia. La stessa legge vale però su qualsiasi livello di esistenza, facendo intendere che tutto ciò che ci accade in modo apparentemente casuale ha una sua causa antecedente di cui non siamo consapevoli. Il caso è, in realtà, un nome attribuito ad una legge non riconosciuta. A questa legge è legato il concetto di karma, cardine non solo delle religioni orientali ma anche di tutte le filosofie esoteriche di ogni tempo e luogo. Se qualcuno nasce ricco o povero, fortunato o sfortunato, non è per caso ma in conseguenza di una legge di causa-effetto. Questo sesto principio ermetico fa intendere come ognuno di noi è veramente padrone del proprio destino, in quanto il nostro futuro sarà determinato dalle conseguenze delle nostre scelte e non da eventi casuali. Su questo principio, come pure sul quinto e il quarto, si basa anche la dottrina della reincarnazione.
7) Il principio del genere. "Ogni cosa ha il suo genere maschile e femminile, e il genere si manifesta su ogni piano". Il settimo principio ermetico ricorda un po' il quarto, quello della polarità, ma si riferisce al fatto che ogni azione creativa richiede l'interazione del genere maschile con il genere femminile. Sul livello di esistenza fisico la differenziazione tra maschile e femminile si manifesta nella sessualità, ma tale distinzione è presente anche ai livelli superiori ovviamente con modalità ed energie diverse. E' evidente a tutti come per generare un nuovo essere vivente sia necessaria l'unione maschile-femminile tramite l'atto sessuale, ma lo stesso discorso vale anche per qualsiasi altro tipo di creazione, da quella mentale a quella spirituale a quella artistica. Dove c'è creazione c'è sempre l'unione di una componente maschile con una femminile, con le modalità proprie di ogni livello di esistenza.
Gabriele Bertani

10 gennaio 2010

- Giordano Bruno - Il processo.


Giordano Bruno non si reputava eretico; egli sapeva di aver cercato con onestà intellettuale la verità religiosa, credeva in una Divinità panteistica che permea tutto e tutti, lui compreso, e non riusciva a comprendere per quale motivo la Chiesa Cattolica non si comportasse con la medesima onestà e impedisse la libera ricerca di Dio.
Il processo di revisione critica, attualmente in atto, all’interno della Chiesa Cattolica nei confronti dei famigerati comportamenti inquisitoriali, che produssero la condanna di Galileo Galilei, può, forse, evidenziare una certa buona volontà delle gerarchie ecclesiastiche nel riconoscere i propri errori passati e, al contempo, il chiaro imbarazzo di chi si vede costretto a difendere posizioni ormai anacronistiche e irrevocabilmente condannate dalla storia, ma sicuramente non può nascondere il profondo e indissolubile legame che unisce tali eccessi al dogmatismo intransigente di una fede religiosa, quale è quella cattolica, convinta di detenere il monopolio della verità assoluta e rivelata. Infatti, mentre riguardo al processo Galileo il Papa vacilla e sente sulle proprie spalle il peso di tutta la vergogna che deve ricoprire l’ignoranza di una dottrina ormai sconfitta dalla ricerca scientifica, rispetto al processo Giordano Bruno tace e tenta di far dimenticare il rogo sul quale fu bruciato il 17 febbraio 1600 in Campo dei Fiori a Roma, per ordine del successore di Pietro, del rappresentante di Cristo in terra, di quel Clemente (di nome e non di fatto) VIII, il filosofo di Nola. La doppia verità, quella religiosa e quella scientifica, servì a salvare Galileo dal rogo all’epoca del processo e serve oggi alla Chiesa, al di là delle sofisticate ricerche e congetture di Pietro Redondi (P. Redondi, Galileo eretico, Einaudi, 1983) intorno alla vera accusa occultamente mossa dal Collegio romano dei Gesuiti a Galileo, a ritrattare la propria posizione senza minimamente intaccare il proprio dogmatico e fanatico credo. Ben diversa, invece, è la situazione nei confronti di Giordano Bruno, il quale volle entrare nel merito della verità filosofica e religiosa per discutere il magistero stesso della Chiesa. Galileo si occupava di scienza, Bruno parlava di temi religiosi, intendendo per religione la ricerca intorno ai grandi interrogativi esistenziali dell’uomo: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
Il libro di Luigi Firpo
Luigi Firpo affronta con grande rigore storico e fuori dalle contingenti polemiche politiche il processo a Giordano Bruno. Tra il 1948 e il 1949 egli pubblicò in due puntate sulla Rivista Storica Italiana un saggio intitolato Il processo di Giordano Bruno. Tale saggio venne poi raccolto in un libro edito nel 1949 dalle Edizioni scientifiche italiane di Napoli e ora, dopo la scomparsa dell’Autore avvenuta il 2 marzo 1989, è disponibile una nuova edizione del 1993, curata da Diego Quaglioni, ad opera della Salerno Editrice di Roma. Il libro attualmente in distribuzione si apre con un’articolata introduzione di Quaglioni, che inquadra con precisione sia la ricerca dell’Autore, sia le principali problematiche storiche e storiografiche relative al processo in esame, e si chiude con una fedele e voluminosa raccolta di tutta la documentazione processuale ad oggi disponibile. Racchiusa tra questi due estremi è collocato il testo di Firpo, che rende conto delle vicissitudini di Bruno tra l’agosto 1591, anno del suo rientro in Italia, e il 1600, data fatale della sua esecuzione capitale. L’autore sottopone ad esame la denunzia, anzi le denunzie presentate da Zuane Mocenigo all’inquisitore di Venezia Giovan Gabriele da Saluzzo contro Giordano Bruno (maggio 1592); si sofferma con attenzione sulle prime testimonianze e sulla fase veneziana del processo, che termina con la concessione da parte del Senato di Venezia, su richiesta del Sommo Pontefice, dell’estradizione del Nolano e con la conseguente traduzione del medesimo a Roma (febbraio 1593); affronta il tema della seconda denunzia per eresia mossa al Bruno da un ex compagno di cella del periodo di detenzione veneziana, il cappuccino Celestino da Verona (autunno 1593), che verrà poi bruciato vivo in Campo dei Fiori cinque mesi prima del Nolano; quindi analizza le varie fasi del processo inquisitoriale romano, compresa la ricerca dei testi scritti dal filosofo, quali elementi di prova a carico, e la censura dei medesimi, sino a concludere la sua fatica con la sentenza di condanna del Bruno, che con tenace decisione si era rifiutato di riconoscersi eretico sia di fronte alle otto proposizioni sottopostegli dal cardinale Roberto Bellarmino, sia di fronte all’estremo tentativo di ricevere la sua abiura compiuto dal generale Beccaria e dal procuratore Isaresi, confratelli domenicani del filosofo di Nola.
I capi d’accusa
Tra i personaggi del processo spicca per bassezza morale e ottusità intellettuale, come sostiene Firpo stesso, la figura del patrizio veneziano Mocenigo, il quale, dopo aver invitato presso di sé il Bruno per essere erudito nell’arte della memoria, ma in realtà maggiormente interessato a tanto mirabolanti quanto inesistenti segreti di natura magica, deluso e stizzito lo denunzia all’Inquisizione. Giordano Bruno viene accusato di avere opinioni avverse alla S. Fede e di aver tenuto discorsi contrari ad essa e ai suoi ministri; di avere opinioni erronee sulla Trinità, la divinità di Cristo e l’incarnazione, sulla transustanziazione e la S. Messa; di sostenere l’esistenza di molteplici mondi e la loro eternità; di credere alla metempsicosi e alla trasmigrazione dell’anima umana nei bruti; di occuparsi di arte divinatoria e magica; di non credere, infine, alla verginità della Madonna. Appare subito evidente che i capi d’accusa rivolti al Nolano nella prima denunzia da lui subita (ma la situazione non cambia per le successive denunzie e accuse, che sostanzialmente ripercorreranno i medesimi argomenti) riguardano tutti indistintamente un tipo di reato che oggi verrebbe definito d’opinione. Ossia l’Inquisizione della Chiesa Cattolica muove contro il filosofo non per atti da lui compiuti, ma per le idee espresse e cercherà per tutta la durata del processo di indurlo al pentimento e alla ritrattazione. Successivamente un altro personaggio ignobile compare sulla scena processuale: è il cappuccino Celestino da Verona, il quale, convinto erroneamente di essere stato danneggiato nella sua situazione giudiziaria da alcune e non meglio precisate dichiarazioni del Bruno, presenta contro quest’ultimo un’ulteriore denunzia di eresia e di blasfemia.
Processo alle opinioni
Di fronte a questi squallidi personaggi e intenti sorge subito spontanea una riflessione: un processo fondato sulla delazione e sul pentimento di soggetti coinvolti a qualche titolo nella vicenda giudiziaria stessa, come è appunto il processo inquisitoriale in esame, non solo mette necessariamente in pericolo i diritti dell’imputato, ma non fornisce neppure sufficienti garanzie intorno alla ricerca di una verità fattuale e non preconcetta. Tale riflessione potrebbe tranquillamente essere ripetuta per molti processi a noi contemporanei, condotti da una magistratura inquirente, che ha ereditato il ruolo e lo spirito della magistratura inquisitoriale. Il processo contro Giordano Bruno, dunque, non fu solo un processo alle opinioni del filosofo, ma si fondò anche su un sistema probatorio profondamente inquinato dalla violenza di lunghe detenzioni preventive, dall’intimidazione di continui tentativi di costringere il detenuto al pentimento e alla confessione e dal sospetto legato alla delazione anche anonima. Nonostante tutto ciò il modello inquisitoriale non riuscì a produrre una qualche sentenza, se non dopo ben quasi dieci anni di detenzione dell’indiziato. E di indiziato in senso tecnico si trattava, infatti, anche per le leggi dell’epoca, dal momento che tutto il processo fu costruito e tenuto in piedi sulla base di semplici indizi e solo il rifiuto opposto dall’imputato a ritrattare l’elenco di otto capi d’accusa, estratti dagli atti del processo dal gesuita Bellarmino, produsse la sua condanna. In breve, l’Inquisizione era prevalentemente interessata al ravvedimento spirituale del Bruno e quindi cercava una sua piena confessione con relativo pentimento. Di fronte al diniego del filosofo essa trasportò sul piano giudiziario la sua condanna di ordine morale e religioso, ma fece ciò non senza ipocrisia. Ipocrisia che si legge con raccapriccio nella copia parziale della sentenza destinata al Governatore di Roma (8 febbraio 1600). In essa il Tribunale ecclesiastico affida Giordano Bruno al braccio secolare affinché venga punito, con la raccomandazione, però, di mitigare il rigore della legge e di evitare al condannato la pena di morte o la mutilazione. Era a tutti noto, allora come ora, che la consegna al braccio secolare con una sentenza di condanna per eresia come quella comminata al Bruno comportava automaticamente il rogo. A poco vale la riflessione di Firpo secondo la quale la Chiesa Cattolica avrebbe applicato senza preconcetta acredine nei confronti dell’imputato la normativa penale e processuale vigente. È proprio tale normativa, in quanto vigente ed espressione di violenza contro l’individuo, di assolutismo politico e di intolleranza nei confronti delle idee, che suona come irrevocabile condanna della Chiesa romana.
L’estradizione a Roma
Il processo e la relativa documentazione ci forniscono un interessante quadro sociologico della realtà carceraria dell’epoca, ma, soprattutto, delle dinamiche intercorrenti tra i vari personaggi: denunziante e accusato, tribunale e imputato, testimoni, ecc. In particolare, emerge una dinamica tipica dei processi penali: quella relativa alla competenza di giudizio. L’Inquisizione veneziana sosteneva la propria, ma quella romana pretendeva l’estradizione dell’imputato in quanto pubblico e convinto eresiarca, suddito napoletano, religioso regolare e, soprattutto, già inquisito in Napoli e Roma. Il Nunzio Apostolico Ludovico Taverna motivò con tali argomentazioni il desiderio di Papa Clemente VIII di processare il Bruno a Roma. Tuttavia, come scrive Firpo: «Quello che… faceva difetto nel discorso del nunzio era la sincerità, poiché il Bruno non era stato per nulla convinto di eresia dall’unico teste e poteva semmai dirsi parzialmente confesso; inoltre i giovanili processi di Napoli e di Roma riguardavano l’Ordine domenicano e non già l’Inquisizione…» (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno Editrice, Roma, 1993, p. 38) In ogni caso, non fu facile sottrarre a Venezia la giurisdizione: era un problema di prestigio e di sovranità politica della Serenissima. Infatti, mentre in un primo tempo il diniego fu deciso e apparentemente irremovibile, successivamente e solo dopo aver riconosciuto l’eccezionalità del caso, che in nulla intaccava l’autonomia di Venezia, si convenne di concedere quanto richiesto da «Sua Santità come segno della continuata prontezza della Repubblica in farle cosa grata». (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 212) Le ragioni di Stato erano salve sia sotto il profilo della sovranità della giurisdizione veneta che sotto quello dei buoni rapporti con la Santa Sede, ma i diritti dell’imputato erano stati decisamente dimenticati e, comunque, subordinati a ben più rilevanti interessi di natura politica.
Voleva discutere con il Pontefice
È possibile interrogarsi intorno alle motivazioni che resero il Santo Padre (detto con ironia) tanto ansioso di condurre la causa di Giordano Bruno sotto il proprio potere. Del resto, lo stesso filosofo nolano si illudeva di poter ragionare, su un piano di parità, con il Pontefice intorno ai principali temi di filosofia, di teologia e di religione. Forse, proprio questa illusione di poter avere un dialogo sincero con il massimo vertice della Chiesa Cattolica, dialogo dal quale avrebbe potuto scaturire una profonda riforma dal di dentro del Cristianesimo, una sua radicale sdogmatizzazione e razionalizzazione, condusse Bruno in Italia dopo il suo lungo peregrinare nei vari Stati europei. «Nella propria filosofia il Nolano era venuto riconoscendo sempre più distintamente un valore etico-sociale, una significazione di annunzio evangelico e di universale rigenerazione; l’insegnamento diveniva predicazione e apostolato, e la sua opera di rinnovatore della scienza – tollerata, se non applaudita, in Germania – si espandeva in un’azione di riforma religiosa, che le Chiese protestanti mostravano di reprimere con intransigenza non meno rigorosa di quella che lo stesso impulso avrebbe trovato in un paese cattolico. La religione che il Bruno propugna è una religione intellettualistica, naturalistica, semplificata, spoglia di dogmatismi, al fine di sgombrare il terreno da ogni appiglio alle disquisizioni e alle eresie; un deismo fondato sulla carità concorde degli uomini, che più nulla ha di comune con la dottrina rivelata del Cristianesimo. » (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 10) Come poteva sperare Bruno nella benevolenza e nell’onestà intellettuale di un Pontefice e di una Chiesa ormai completamente immersa negli interessi politici terreni, piuttosto che nella ricerca religiosa del trascendente? La domanda non ha facile risposta, entrano sicuramente in gioco le illusioni e la presunzione personale del filosofo, ma soprattutto appare prepotentemente quella profonda e indomabile fede del Bruno nell’universalità del Divino. Quella stessa fede che gli fece gridare contro i suoi giudici la famosa frase, ormai dimostrata non leggendaria, ma storica: «Forse con maggior timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla.»
Libera ricerca - non eresia
Giordano Bruno non si reputava eretico; egli sapeva di aver cercato con onestà intellettuale la verità religiosa, credeva in una Divinità panteistica che permea tutto e tutti, lui compreso, e non riusciva a comprendere per quale motivo la Chiesa Cattolica non si comportasse con la medesima onestà e impedisse la libera ricerca di Dio. «Si genera in lui la persuasione di essere vittima di una congiura di teologi che vogliono far passare per errore quello che tale non è, o almeno mai fu definito, ed egli sente che l’opinione sua vale la loro e non vuole accettare la sentenza; nega perciò di aver mai sostenuto eresie, non riferendosi insensatamente alla massa delle accuse del processo, ma al ristretto elenco di tesi filosofiche condannate, e rifiuta di rinnegarle non per ostinazione assoluta, ma per non soggiacere a quello che gli pare un sopruso; si appella con gli ultimi memoriali al Papa, sperando che Clemente VIII potesse intervenire, giudice imparziale, in una disputa nella quale Giordano vede se stesso e i membri del tribunale in qualità di contendenti, eguali affatto per autorità e dignità.» (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, pp. 110-111) Il Nolano si propone come paladino della libera ricerca individuale in materia filosofico- religiosa e spera nel Papa come vero e imparziale garante di Dio in terra, come sacerdote di una religione senza interessi terreni. Mai errore fu più fatale ad un uomo! Egli non si avvide di non avere di fronte una religione con interessi puramente trascendenti, ma un vero e proprio Stato votato all’egemonia politica nel mondo. Il tribunale, nel quale discuteva la propria posizione filosofica, il proprio credo religioso e nel quale riceveva contestazioni, proposizioni da abiurare e a sua volta presentava memoriali, rifiutava pentimenti e ritrattazioni, non era né l’università di Oxford né quella di Wittenberg, ma semplicemente l’Inquisizione, ossia uno strumento mondano di controllo, condizionamento e repressione dei sudditi e del loro pensiero. Bruno viene macinato lentamente nell’arco di quasi dieci anni da questa macchina mostruosa presieduta dal Papa dei cattolici. Non solo Clemente VIII non è garante di libertà, ma, al contrario, è il capo politico di uno Stato e di un partito votati al mantenimento della realtà sociale esistente all’epoca nella penisola italiana e nel mondo cattolico, è il custode di un’ortodossia religiosa che non intende lasciare nessuno spazio alla libera ricerca individuale, è il rappresentante di una casta sacerdotale che si è organizzata e istituzionalizzata per meglio tutelare i propri privilegi e il proprio potere su altri uomini e sulle loro idee.
Condanna della Chiesa-Stato, non della religione
In questo quadro risulta chiaro l’errore di Bruno; non era un errore di natura teologica, ma di natura socio-politica. Egli credeva di aver di fronte una religione e invece aveva di fronte uno Stato. Perché dichiararsi eretico se non si riconosce alla religione istituzionalizzata il diritto di definire un vero ortodosso? Perché sottomettersi a chi non possiede nessun diritto superiore a quello proprio di qualsiasi uomo di definizione della verità? Perché pentirsi se l’errore è opinabile? In breve, il Nolano contestava alla Chiesa il potere di definire l’errore filosofico-religioso e quindi la legittimità di formulare una qualsiasi condanna. E Bruno avrebbe avuto ragione se effettivamente si fosse trovato di fronte ad una vera religione alla ricerca di Dio e tollerante delle ricerche esistenziali di tutti i figli di questo Dio, ma per sua sfortuna egli invece cadde nella trappola tesa da uno Stato teocratico, organizzato e agguerrito per conseguire l’egemonia sul mondo, che, come ogni vero Stato, utilizza il proprio ordinamento giuridico e i propri tribunali per legittimare gli atti di forza che compie. La legittimità della condanna del Bruno, dunque, proviene non dalla presunta verità, detenuta da una qualche religione e, in particolare, da quella cattolica, ma dall’ordinamento giuridico intollerante di una Chiesa-Stato, quella romana, che intese imporre il proprio credo ideologico anche con la forza. Firpo riconosce, come si è già detto, a questa Chiesa-Stato l’applicazione nel processo a Bruno dell’ordinamento giuridico vigente all’epoca nei processi inquisitoriali e, in tale modo sembra voler legittimare formalmente l’operato di tale tribunale. Ma ciò che è in discussione nel nostro caso non è la legittimità giuridica di un provvedimento statale, bensì la legittimità religiosa di un comportamento contro la libertà dell’uomo e delle sue idee. Forse, e ne dubito, la Chiesa potrà essere assolta, in quanto Stato, dall’avere ucciso Giordano Bruno, ma sicuramente dovrà essere condannata come religione per questo delitto.
La Chiesa atea…
Il timore che Bruno legge nei volti dei suoi giudici mentre pronunziano la sua sentenza di morte probabilmente non è politico - la Chiesa era allora trionfante e potente -, ma soprattutto religioso. Non poteva sfuggire a quei giudici che il loro potere di condanna era meramente terreno e che il prevalere della cristallizzazione istituzionale e del fine politico nella Chiesa Cattolica non avrebbe potuto produrre altro che la fine del sentimento religioso, la fine, appunto, del Cattolicesimo come religione. Forse, una religione rivelata può anche presumere di detenere la verità, ma certamente tale possesso non può giustificare la soppressione fisica di colui che a sua volta cerca la propria strada verso la divinità. Non si tratta, in questo caso, di semplice carenza di tolleranza laica, ma di vera e propria contraddizione sul piano religioso. La scintilla divina che Giordano Bruno presuppone esistente in ciascuno di noi viene, da quei giudici, negata e Dio ridotto all’idolo, al totem legittimante i comportamenti della Chiesa-Stato. Bruno non teme la morte sul rogo perché crede «che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo a ricongiungersi all’anima universale». (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 104) Quei giudici, quella Chiesa, invece, temono la morte poiché non credono né in un Dio universale, né nell’anima individuale, espressione di questo Dio; temono la morte perché sono profondamente atei e sanno che la loro sentenza manifesta, svela al mondo questo loro ateismo, questa loro profonda, radicata e intollerante sfiducia nella divinità e nell’uomo libero.
Morris Ghezzi