27 febbraio 2012

- Prattica dell’Estasi Filosofica



Bisogna eleggere un luogo nel quale non si senta strepito di alcuna maniera, all’oscuro o al barlume di un piccolo lume così dietro che non percuota negli occhi, o con occhi serrati. In un tempo quieto et quando l’uomo si sente spogliato d’ogni passione tanto del corpo quanto dell’animo. In quanto al corpo, non senta né freddo, né caldo, non senta in alcuna parte dolore, la testa scarica di catarro e da fumi del cibo et da qualsivoglia umore; il corpo non sia gravato di cibo, né abbia appetito né di mangiare, né di bere, né di purgarsi, né di qualsivoglia cosa; stia in luogo posato a sedere agiatamente appoggiando la testa alla man sinistra o in altra maniera più comoda... l’animo sia spogliato d’ogni minima passione o pensiero, non sia occupato né da mestizia o dolore o allegrezza o timore o speranza, non pensieri amorosi o di cure famigliari o di cose proprie o d’altri, non di memorie di cose passate o d’oggetti presenti; ma, essendosi accomodato il corpo come sopra, dee mettersi là, et scacciar dalla mente di mano in mano tutti i pensieri che gli cominciano a girar per la testa, et quando viene uno, subito scacciarlo, et quando ne viene un altro, subito anco lui scacciare insino che non ne venendo più, non si pensi a niente al tutto, et che si resta del tutto insensato interiormente ed esteriormente, et diventi immobile come se fussi una pianta o una pietra naturale; et così l’anima non essendo occupata in alcuna azione né vegetabile, né animale, si ritira in se stessa, et servendosi solamente degli istrumenti intellettuali, purgata da tutte le cose sensibili, non intende le cose per discorso, come faceva prima, ma senza argomenti e conseguenze: fatta Angelo, vede intuitivamente l’essenzia delle cose nella lor semplice natura, et però vede una verità pura, schietta, non adombrata, di quello che si propone speculare: perciocché avanti che si metta all’opra, bisogna stabilire quello che si vuole o speculare o investigare et intendere, et quando l’anima si trova depurata proporselo davanti, e allora gli parrà d’avere un chiarissimo e risplendente lume, mediante il quale non se gli nasconde verità nessuna. E allora si sente tal piacere e tanta dolcezza che non vi è piacere in questo mondo che a quello si possa paragonare: né anco il godimento di cosa amatissima e desideratissima non ci arriva a un gran pezzo. In tal maniera che, l’anima pensando d’avere a ritornare nel corpo per impiegarsi nelle vil’opere del senso, grandemente si duole et senz’altro non ritornerebbe mai se non dubitasse che per la lunga dimora in tal estasi si spiccherebbe al tutto del corpo. Perciocché quelli sottilissimi spiriti ne’ quali ella dimora se ne sagliano al capo, e però alcuni sentono un dolcissimo prurito nel capo, dove son gli strumenti intellettuali: e a poco a poco svaporano, i quali se tutti svaporassero, senz’altro l’uomo morerebbe. Et però sono più atti a quest’estasi quelli che hanno il cranio aperto per la cui fessura possono esalare alquanto gli spiriti: altrimenti se ne raduna tanti nella testa che l’ingombrano tutta et gli organi per così gran concorso si rendono inabili. Questa credo che sia l’estasi platonica, della quale fa menzione Porfirio che da questa Plotino sette volte fu rapito, et egli una volta; essendoché di rado si trovan tante circostanze in un uomo: contuttociò in duoi o tre anni potrebbe succedere tre o quattro volte; et quelle cose che allora s’intendono bisogna subito scriverle et diffusamente, altrimenti voi ve le scorderesti, e rileggendole poi non l’intenderesti.
Tommaso Campanella

18 febbraio 2012

- ARTURO REGHINI E L’ESOTERISMO

Un’ipotetica storia dei movimenti esoterici in Italia durante il XX secolo – storia ancora tutta
da scrivere e che prima o poi, pur con le inevitabili inesattezze e lacune, qualcuno in futuro
scriverà – dovrebbe assegnare alla figura di Arturo Reghini un ruolo assolutamente centrale in quanto, al di là della sua tutt’altro che trascurabile importanza intrinseca, la biografia dello scrittore e matematico fiorentino attraversa e riassume quasi tutte le più significative esperienze e gli ambienti della sua epoca riconducibili agli interessi esoterici.
La parabola esistenziale di Reghini ebbe inizio, infatti, sotto il segno della variegata reazione al positivismo ed allo scientismo imperanti negli ultimi decenni del XIX secolo: reazione che assunse i connotati dell’intuizionismo bergsoniano e del neo-idealismo in filosofia, dell’irrazionalismo in campo letterario ed artistico, e del neo-spiritualismo nel dominio religioso e mistico. Come per molti altri personaggi nel mondo occidentale, l’approccio di Reghini al neospiritualismo avvenne per il tramite della Società Teosofica e delle dottrine di Helena Petrovna Blavatsky, singolare profetessa di una rigenerazione dell’Occidente materialistico da realizzarsi mediante l’accesso alla sapienza dei grandi maestri d’Oriente, ma si estese ben presto alle più o meno coeve espressioni di un esoterismo soi-disant occidentale, che altro poi non era se non l’occultismo soprattutto francese inaugurato dal “mago” e pseudo-qabbalista Alphonse-Louis Constant, più noto con il nom de plume di Eliphas Lévi, e proseguito dal movimento neo-martinista e neo-rosacruciano fondato da Gérard Encausse (Papus), Stanislas de Guaita e Josephin Péladan. Tuttavia queste esperienze, che negli anni giovanili lo coinvolsero a fondo, tanto da indurlo a dedicarvisi pressoché a tempo pieno trascurando gli studi matematici per i quali aveva dimostrato una precoce vocazione, erano destinate ad essere da lui superate e sottoposte nella maturità ad una critica severa e talvolta spietata. Già intorno al 1907-1910, quando avvenne il suo incontro con Amedeo Armentano, Reghini s’era distaccato dalla Società Teosofica ed andava in cerca di più appaganti prospettive, come attestato dagli articoli pubblicati tra il 1906 ed il 1907 sulla rivista Leonardo diretta dai giovanissimi Papini e Prezzolini. A quel tempo, anche l’esperienza massonica, che a partire dal 1902 lo aveva condotto a transitare tra il Rito di Memphis palermitano, il Grande Oriente Italiano di Malachia De Cristoforis ed il Grande Oriente d’Italia, sembrava almeno all’apparenza esaurita e conclusa, come era avvenuto per un intellettuale di alto profilo come Giovanni Amendola, che in quegli anni gli era stato assai vicino per interessi culturali e spirituali.
Il ricordato incontro con Armentano segnò una svolta definitiva ed il punto di partenza per
un itinerario che il matematico fiorentino seguì coerentemente e senza sbandamenti fino alla morte e che, secondo le sue successive affermazioni, s’identificava con quello della Scuola Pitagorica o Schola Italica, sopravvissuta nascostamente in Italia per oltre duemila anni attraverso un’ininterrotta trasmissione iniziatica e coincidente nella sostanza, se non anche nelle forme simboliche e rituali, con l’ermetismo neo-platonico ed alessandrino e, negli ultimi secoli, con la libera muratoria. Questa sorta di profonda affinità, sostenuta costantemente da Reghini, tra pitagorismo da un lato ed ermetismo e libera muratoria dall’altro, può fornire la chiave di lettura degli scritti reghiniani, che in effetti spaziarono principalmente tra le tre tematiche ricordate. Sempre sotto il profilo dell’esoterismo, il nome di Arturo Reghini è comunque legato alla maggiore esteriorizzazione, avvenuta nella storia italiana degli ultimi tre secoli, del tema della magia che, attraverso alcune riviste – prima Atanòr (1924), poi Ignis (1925) ed infine UR (1927-1928) – e l’ampio saggio introduttivo al De Occulta Philosophia di Enrico Cornelio Agrippa, egli fece riemergere dalle oscure conventicole, ove era rimasto confinato dopo il XVI secolo e dopo il profondo discredito sotto il quale era finito sepolto già dopo la seconda metà del secolo successivo, per riportarlo alla ribalta della cultura d’avanguardia e fino ai margini di quella accademica in termini e secondo modalità espositive non liquidabili mediante semplici scrollate di spalle. La magia da lui riproposta era, infatti, la magia “colta” del Ficino e d’Agrippa, del Bruno e del Campanella, con i debiti rinvii alla letteratura neo-platonica ed ermetica, e non già quella, “volgare” ed arruffona, dell’occultismo francese ed inglese del XIX secolo. Con notevole anticipo rispetto alla “riscoperta” che dello stesso tema avrebbero fatto alcuni decenni più tardi alcuni dei migliori studiosi del Rinascimento, e sia pure per ispirazione e con intendimenti ben altri rispetto a quelli “soltanto” culturali, il Reghini vi si accostò con rigore critico e con impiego di mezzi filologici esemplari per la sua epoca e nel suo ambiente, e senz’altro sorprendenti se si pone mente al suo totale isolamento rispetto alla coeva ricerca universitaria, a quel tempo in Italia attardata nel rimescolamento di triti argomenti e nell’avvilente funzione di retroguardia rispetto ad altri Paesi, e questo quando il conseguente provincialismo ancora non era stato aggravato dalla clausura, per così dire autarchica, determinata dalla dittatura fascista. Né, d’altra parte, proprio in ragione delle ricordate caratteristiche, la magia nell’accezione reghiniana può essere confusa con quella praticata o propagandata nella stessa epoca da altri personaggi, assai diversi tra loro ma più ancora dal Reghini, come Aleister Crowley o Julius Evola, benché siano documentati sporadici contatti con il primo e sia ben nota la collaborazione protrattasi per alcuni anni – tra il 1924 ed il 1928 – con il secondo, soprattutto nella direzione della rivista UR.
Indipendentemente dalla cornice culturale entro la quale si colloca, e per andare più a fondo nella questione della magia, si può concordare con lo Zolla quando afferma che il messaggio reghiniano più autentico consiste nel «tentativo severo e secco, talvolta toscaneggiante con disinvoltura violenta, di delineare l’esperienza centrale, l’estasi filosofica». Il riferimento è alla descrizione del transumanare o del pitagorico abbandono del corpo o della morte iniziatica, che una prima volta il Reghini esemplificò mediatamente attraverso l’integrale citazione di un singolare scritto, La prattica dell’estasi filosofica, attribuito al Campanella e poi, direttamente sebbene in terza persona, in un articolo su Ignis: « se, spenta ogni viltà, se lasciata ogni speranza, rinunciando con assoluta e profonda sincerità a tutto quello che ne fa un individuo umano, ei si riduce, indifferente ma non insensibile, a vivere perinde ac cadaver come un morto ambulante, e di nuovo si affaccia sereno ed impassibilmente all’orlo del pozzo metafisico, sente ancora la misteriosa e paurosa attrazione dell’antro immane, ma non ne subisce più la vertigine. E, sicuro, equilibrato e sereno, procede oltre, senza sottrarsi, senza smarrirsi; e s’interna, gradatamente e tranquillamente profondando. Si lascia afferrare dall’attrazione affascinante e solenne e trascinare invincibilmente giù per le liscie pareti del formidabile santuario, fino alla cripta del Tempio. Ei prova allora la sensazione indicibilmente intima di insinuarsi attraverso una sottile commettitura, che dà sul di dentro; e, sospinto, compresso, svesciato, ne sguscia via internandosi; oltrepassatene le pareti, si tuffa nel santuario, e si inabissa nei penetrali dell’intima sua non impenetrabile natura. Come un morto, penetra nell’invisibile, nell’Ade, e diviene immateriale, a-eides. Talora la misteriosa
attrazione opera in modo così veemente che ci si sente come sradicare, come divellere dai cardini; talora è così rapida che è come un salto, un rapimento; altre volte infine è come un tranquillo salir di marea, è un subentrare alto e fatale, una graduale, purissima, nitida effusione di una chiara alba spirituale, un lento e silente affiorare di una ieratica insostenibile beatitudine». Di codesta esperienza Reghini tornò a parlare alcuni anni dopo in UR e stavolta in termini autobiografici, sia pure sotto il velo del semianominato, come della “coscienza della immaterialità”: «Circa quattordici anni fa stavo un giorno, fermo ed in piedi, sul marciapiede del palazzo Strozzi a Firenze, discorrendo con un amico; non ricordo di che ci intrattenessimo . Era una giornata affatto simile alle altre, ed io mi trovavo in perfetta salute di corpo e di spirito, non stanco, non eccitato, non ebbro, libero da preoccupazioni ed assilli. E, ad un tratto, mentre parlavo od ascoltavo, ecco, sentii diversamente: la vita, il mondo, le cose tutte; mi accorsi subitamente della mia incorporeità e della radicale, evidente, immaterialità dell’universo; mi accorsi che il mio corpo era in me, che le cose tutte erano interiormente, in me; che tutto faceva capo a me, ossia al centro profondo, abissale ed oscuro del mio essere. Fu un’improvvisa trasfigurazione; il senso della realtà immateriale, destandosi nel campo della coscienza, ed ingranandosi col consueto senso della realtà quotidiana, massiccia, mi fece vedere il tutto sotto una nuova e diversa luce; fu come quando, per un improvviso squarcio in un fitto velario di nubi, passa un raggio di sole, ed il piano od il mare sottostanti trasfigurano subitamente in una lieve e fugace chiarità luminosa. Sentivo di essere un punto indicibilmente astratto, adimensionale; sentivo che in esso stava interiormente il tutto, in una maniera che non aveva nulla di spaziale. Fu il rovesciamento completo della ordinaria sensazione umana; non solo l’io non aveva più l’impressione di essere contenuto, comunque localizzato, nel corpo; non solo aveva acquistato la percezione della incorporeità del proprio corpo, ma
sentiva il proprio corpo entro di sé, sentiva tutto sub specie interioritatis. Fu un’impressione possente, travolgente, soverchiante, positiva, originale. Si affacciò spontanea, senza transizione, senza preavvisi, come un ladro di notte, sgusciando entro ed ingrandendosi col consueto grossolano modo di sentire la realtà; affiorò rapidissima affermandosi e ristando nettamente, tanto da consentirmi di viverla intensamente e di renderne conto sicuro; eppoi svanì, lasciandomi trasecolato». È certamente lecito mettere in discussione la natura di esperienze consimili e prospettare la loro ascrivibilità al vasto capitolo dei fenomeni dispercettivi oppure di depersonalizzazione, spesso parafisiologici e quindi di per sé non necessariamente morbosi, ma talvolta registrabili tra la sintomatologia rivelatrice di disturbi neurologici, per esempio comiziali, o psicopatologici su base delirante. Le riserve di natura razionalistica, in materia di esperienze che in qualche modo travalicano e stravolgono la “ordinaria” o “normale” funzione dei sensi, della percezione dell’immagine corporea e dello stato di coscienza, trovano il più delle volte una loro ampia e dimostrata giustificazione di natura clinica (fisio-patologica) e riposano su un sapere reale, scientifico o meramente empirico che lo si voglia considerare. Tuttavia, a meno di non scadere nel pirronismo od in una scepsi del tutto aprioristica, e quindi in un atteggiamento preconcetto ed antiscientifico, le riserve in questione non possono trasformarsi nella pura e semplice negazione della possibilità di evasioni, soprattutto se coscientemente perseguite e metodicamente (idest secondo precise modalità operative) eseguite, dal piano della “realtà” psichica quotidiana od ordinaria. “Uscite dal mondo” di questa natura appartengono ad ogni sorta di tradizione religiosa, mistica od iniziatica. Altro discorso, evidentemente più “tecnico” ed impegnativo, è se poi tutte queste siano conglobabili in un unico genus, ovvero quali siano i tratti distintivi dell’excessus mentis rispettivamente religioso (nel senso di “essoterico”), mistico (nel senso di “passivo” o “devozionale”) od iniziatico (nel senso di “esoterico”). Nel Commento alle massime di Amedeo Armentano pubblicato nelle riviste Atanòr ed Ignis, Reghini fornì inoltre qualche ulteriore elemento chiarificatore sulle tecniche impiegate e sugli obiettivi perseguiti dall’operatività esoterica peculiare della Schola Italica o Pitagorica facente capo a lui stesso e ad Armentano: «Preliminarmente bisogna soddisfare ad alcune condizioni necessarie (ma non sufficienti), e precisamente anzitutto indispensabile liberarsi da ogni credenza, pregiudizio, sentimento, passione, e dalla paura del nulla, ossia dalla paura dell’annichilimento; inoltre [è] necessario dominare il proprio pensiero. Questa purificazione preliminare, che non ha nulla di moralistico e che è raffigurata ed accompagnata dai riti catartici nelle cerimonie iniziatiche è tecnicamente indispensabile, ed una volta compiuta ne è resa possibile la contemplazione che dà la conoscenza. Per contemplare è necessario essere libero nei sensi. I sensi di cui si tratta sono tutti i sensi, tutti i legami che uniscono la nostra vita animale alla vita. Sono i cinque sensi ordinarii dell’uomo, cui corrispondono organi anatomici a tutti noti, e sono gli altri sensi meno comuni e meno definiti, più difficilmente riferibili e localizzabili ad organi anatomici determinati; e sono anche i sensi della sensualità, da cui provengono i piaceri, ed i dolori, dei sensi. È evidente che per poter contemplare è necessario non farsi dominare dai sensi, perché chi ne è schiavo od anche è semplicemente incapace di astrarre da essi, non può assorbirsi nella contemplazione. Questa libertà va conquistata rimanendo nei sensi, e non fuggendone; accettandoli e non combattendoli; adoperandoli e non rinnegandoli». Il tema, a suo modo focale e continuamente richiamato nell’opera reghiniana, del pitagorismo, richiede a sua volta qualche precisazione. Nell’accezione di Reghini “Pitagora” è, piuttosto che un riferimento preciso, l’evocazione di una tradizione complessiva, misteriosofica (prevalentemente orfico-pitagorica ma anche ermetica) sotto il profilo iniziatico e neoplatonica sotto quello filosofico e metafisico. Inoltre, nella prospettiva continuistica della philosophia perennis o dell’aurea catena iniziatica, in cui implicitamente Reghini aveva collocato la sua ricostruzione del pitagorismo e nella quale i criteri storiografici cedevano di necessità il passo alla logica interna di una “storia sacra” o di uno hieròs lógos, l’obbligo di enucleare sub specie storica, letteraria e filosofica un corpus “autentico” dell’insegnamento di Pitagora, ben distinto dalle aggiunte apocrife stratificatesi per molti secoli, era meno pressante e meno avvertito, e questo tanto più in quanto Reghini preferì esercitare il suo approfondimento sul versante alternativo di una ricostruzione matematica e geometrica, per propria natura almeno in parte sottratta all’esigenza di una puntuale revisione di carattere contenutistico e filologico. Il rilievo mosso non vuol significare che Reghini fosse ignaro delle riserve avanzate dalla critica moderna sui superstiti materiali letterari relativi alla figura di Pitagora ed alle dottrine attribuitegli. Al contrario, codeste riserve furono da lui esaminate e discusse, ma con il limite di una certa riluttanza ad espungere dal corpus pitagorico complessivo questa o quella testimonianza, recuperata o difesa al bisogno mediante brillanti exploits filologici od ermeneutici. Non ci si può nascondere che, al pari degli pseudo-pitagorismi fioriti numerosi nel XIX secolo, anche il pitagorismo reghiniano, se ed in quanto indefinito ed indistinto dal mito della schola e della prisca sapientia italica, trasposto in chiave politica in guisa di retroterra ideologico dell’“imperialismo pagano”, costituì un formidabile anacronismo nell’epoca dei totalitarismi, finendo per avallare, quand’anche in forma ancillare, un progetto politico sostanzialmente di segno opposto a quello caldeggiato dal Reghini, quale fu il fascismo reale della ventennale dittatura: destino, di essere usato in funzione di disegni politici contingenti, cui il medesimo mito era andato incontro al termine della sua ultima grande valorizzazione nel corso del Rinascimento e fino agli strascichi vichiani. Strumentale alle glorie dinastiche del granducato di Toscana nella versione pelasgico-tirrenica (Scipione Maffei, Girolamo Tiraboschi), alla cripto-propaganda babuvista nella versione rivoluzionaria di Sylvain Maréchal, all’esaltazione dello status quo moderato-autoritario del regime bonapartista nella fictio letteraria di Vincenzo Cuoco, all’utopia del “primato degli italiani” nella versione neo-guelfa del Gioberti, il mito a quel punto abusatissimo della Schola italica fu definitivamente riposto tra gli arcaismi inservibili, almeno per quanto riguarda la storia delle idee e della cultura “ufficiale”, per effetto della discutibile operazione di reinserimento del pensiero italiano in quello europeo tentata da Bertrando Spaventa e dai neo-hegeliani dopo il 1860, ma sempre fruibile negli orticelli occultistici e/o sub-culturali. La dichiarata adesione al pitagorismo, ossia ad una complessa tradizione profondamente radicata nell’Occidente, segna peraltro un profondo motivo di discordanza rispetto a René Guénon, nei cui confronti nondimeno Reghini si profilò negli anni ’20 come l’unico interlocutore tra gli alti dignitari della massoneria a livello mondiale e, sotto certi aspetti, sembrò manifestare una profonda affinità. Il principale elemento di alterità tra Guénon e Reghini va colto nel diverso peso accordato alla visione metafisica quale cardine dell’orientamento tradizionale ed iniziatico: mentre per Guénon, infatti, la dottrina metafisica rappresentava il fondamento indispensabile, anche se non sufficiente, per un’effettiva realizzazione spirituale, Reghini riteneva che «può sembrare non necessario costituire e ricorrere a una dottrina metafisica con tanto di terminologia tecnica e tradizionale, e sufficiente costituire invece un centro spirituale dove chi effettivamente sappia dia o possa dare a chi è in grado di riceverlo quel tanto di aiuto che la natura stessa del compito da attuare consente», pur concedendo che «anche se non si voglia riconoscere assolutamente necessaria la ricostituzione di una dottrina metafisica, un ritorno alla tradizione, non vi è in questo, evidentemente, nulla di superfluo, di inutile o di dannoso». Modo garbato, questo, di prender le distanze e di manifestare un diverso indirizzo, tanto più in quanto la dottrina metafisica esposta da Guénon non si esprimeva propriamente nelle forme “occidentali” della tradizione greco-romana coltivata e prediletta da Reghini. Su un piano meno elevato di quello ora considerato ma forse di più immediata percezione, una marcata divaricazione tra lo studioso francese e l’italiano si può cogliere sul tema della magia. Per Guénon, la magia è soltanto una scienza sperimentale, «quantunque sicuramente abbastanza differente da quelle che l’insegnamento universitario conosce sotto tale denominazione. Si tratta di un ordine di cose che in se stesso non ha nulla, assolutamente nulla, di “trascendente”; e se una tale scienza [la magia] può, come ogni altra, essere legittimata dal suo collegamento ai principii superiori, da cui tutto dipende, secondo la concezione generale delle scienze tradizionali, essa non si porrà allora che all’ultimo rango delle applicazioni secondarie e contingenti, fra quelle che sono più lontane dai principii, dunque che devono esser viste come a tutte inferiori. Ora, è evidente che illudersi sul valore di queste cose e sull’importanza che conviene attribuire ad esse ne aumenta considerevolmente il pericolo; è così una vera disgrazia per gli Occidentali, che vogliono ingerirsi a “fare della magia”, la completa ignoranza in cui si trovano per necessità, attualmente e in mancanza di ogni insegnamento tradizionale, di fronte a ciò che con cui hanno da fare in simile caso. Per finirla con la magia e con le altre cose dello stesso ordine, dobbiamo ora trattare un’altra questione, quella dei pretesi “poteri” psichici. Ciò che chiamiamo in tal modo non è in fondo che la facoltà di produrre “fenomeni” più o meno straordinari, ed infatti la maggioranza delle scuole pseudo-esoteriche o pseudo-iniziatiche dell’Occidente moderno non si propone altro; si tratta di una vera ossessione per la gran maggioranza dei loro aderenti, che s’illudono a tal punto sul valore da attribuirsi a questi “poteri” da prenderli come il segno di uno sviluppo spirituale ed altresì del suo scopo, mentre, anche quando non sono un semplice miraggio dell’immaginazione, appartengono unicamente al dominio psichico, che in realtà non ha niente da vedere con lo spirituale, e spesso non sono che un ostacolo all’acquisizione di ogni vera spiritualità». Al contrario, nella visione reghiniana la collocazione della magia era intermedia tra la sfera psichica e quella spirituale, in mancanza di una vera e propria distinzione tra i due àmbiti. In effetti, nelle sue categorie di pensiero, il dominio proprio del para-normale e dei fenomeni extra-sensoriali assumeva un valore particolare ed era sovrapponibile, almeno in parte, alla sfera spirituale. In Reghini, senza dubbio, fortissima fu l’attrazione per la “magia” in tutte le sue forme ed estrinsecazioni e, retrospettivamente, codesta attrazione appare come un indubbio punto debole in un individuo di non comune levatura, come per tanti riguardi egli era. Ma è anche vero che il matematico e filosofo neo-pitagorico fu non primo e non ultimo della lunga catena di vittime, particolarmente numerose negli ambienti dediti all’esoterismo, del fascino per il “soprannaturale”, per il “miracoloso” e per l’“occulto”, che lo condusse all’esperienza, nel complesso per lui negativa e pessimamente esitata, del “Gruppo di UR”, nel cui seno la tendenza “magica” si estremizzò e divenne quasi esclusiva. Ma si deve almeno far cenno, sia pure brevemente, all’impegno del Reghini per una rigenerazione in senso iniziatico ed esoterico della massoneria, nella quale – come si è detto – egli vedeva la continuazione, sia pure deviata e distorta, della tradizione pitagorico-ermetica. Il primo e più corposo tentativo in questo senso lo compì nel 1922 attraverso la pubblicazione del saggio su Le parole sacre e di passo ed il massimo mistero massonico che – bisogna ben dirlo - non suscitò alcun evidente stimolo al recupero del patrimonio simbolico-rituale originario della massoneria operativa, i cui residui erano sopravvissuti nei documenti “non autorizzati” e nei proto-rituali inglesi tra XVII e XVIII secolo che il Reghini aveva per primo in Italia fatto oggetto d’approfondimento e di studio e nei quali aveva indicato le sorgenti alle quali attingere per un rigeneratore ritorno alle origini. Oltre venti anni dopo, caduto il fascismo, ripresentò in versione più meditata e svincolata da polemiche contingenti la propria visione della massoneria come organizzazione iniziatica e dell’iniziazione come via d’accesso al divino. Le 155 pagine del suo ultimo saggio di contenuto massonico – I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica32 - espongono con chiarezza esemplare il suo pensiero e rappresentano, nonostante la concisione, la più “alta” trattazione in materia scritta finora in Italia. L’inizio è folgorante e va dritto in medias res: «la Massoneria ha per fine il perfezionamento dell’uomo», del singolo uomo e non già quello dell’umanità nel suo insieme. È questa la “Grande Opera”, del tutto affine a quella che si propone l’Arte Regia ermetica. Secondo invece la concezione massonica profana e meno antica, il lavoro del perfezionamento va attuato sopra la collettività umana, è la umanità ossia la società che bisogna trasformare e perfezionare; e in questo modo all’ascesi spirituale del singolo si sostituisce la politica collettiva. I lavori massonici acquistano in tal modo uno scopo ed un carattere prevalentemente sociali, se non unicamente sociali; ed il fine vero e proprio della massoneria, cioè il perfezionamento dell’individuo, viene posto in seconda linea, se non addirittura trascurato, dimenticato ed ignorato. La prima alterazione appare in Francia. Il fermento degli spiriti in cotesto periodo, il movimento dell’Enciclopedia, si ripercuotono nella Massoneria che si diffonde largamente e rapidamente: ed accade così per la prima volta che l’interesse dell’Ordine si dirige e si concentra nelle questioni politiche e sociali. Affermare che la rivoluzione francese sia stata opera della Massoneria ci sembra per lo meno esagerato; è invece innegabile che la Massoneria subì in Francia, e sarebbe stato difficile che ciò non avvenisse, l’influenza del grande movimento profano che condusse alla rivoluzione e culminò poi nell’impero. La Massoneria francese divenne e rimase anche in seguito una massoneria colorata politicamente ed interessata nelle questioni politiche e sociali, e si formò quella che da taluni è considerata come la tradizione massonica, sebbene sia tutt’al più la tradizione massonica francese, ben distinta dall’antica tradizione. Questa deviazione e questa persuasione è la causa prima, sebbene non la sola, del contrasto che è poi sorto tra la massoneria anglosassone e la massoneria francese; anche in Italia essa è stata la sorgente dei dissensi massonici di questi ultimi cinquanta anni e della conseguente disunione e debolezza di fronte agli attacchi ed alla persecuzione fascista e gesuitica. L’influenza massonica francese si affermò, dopo la rivoluzione e durante l’impero, anche in Italia. La massoneria francese e quella italiana ebbero durante tutto lo scorso secolo intimi rapporti, ed assunsero insieme talora atteggiamento rivoluzionario, repubblicano ed anche materialista e positivista seguendo la voga filosofica del tempo». Il tema, indubbiamente centrale nella sua visione massonica, fu dal Reghini ripreso ed ampliato nel coevo scritto, sollecitatogli dal Parise pressoché in limine vitæ, sul rituale dell’Apprendista libero muratore: «Importa rilevare come nessun rituale massonico abbia mai detto che la massoneria ha per scopo il progresso universale; la massoneria esisteva molto prima che in Occidente si diffondesse la credenza nel progresso universale. Tutti i rituali massonici, antichi e moderni, italiani e stranieri, affermano concordemente, a cominciare dalle Costituzioni originali e fondamentali dell’Anderson (1723), che il fine della massoneria è il perfezionamento dell’uomo, e soltanto in tempi recenti (e più progrediti!) degli sconsigliati e dei profani hanno potuto assimilare e confondere questo fine con il concetto e la credenza nel progresso universale, identificazione assurda che rende ridicolo l’asserito scopo della massoneria. Col tempo e col progresso l’antica definizione dello scopo della massoneria ha subito per incomprensione delle alterazioni, ed i rituali moderni presentano delle varianti apparentemente lievi e sostanzialmente profonde, affermando che lo scopo della massoneria è il perfezionamento degli uomini (confuso con il perfezionamento del singolo), e poichè esso è il perfezionamento dell’umanità (dimenticando quello del singolo) ed in fine che esso è il perfezionamento della collettività umana ossia della società. Sono tutte definizioni cronologicamente posteriori, che risentono delle successive idee e finalità profane, sebbene verbalmente la differenza dall’antica definizione iniziatica sia lieve e passi inavvertita. Soltanto dimenticando il carattere iniziatico della massoneria è possibile disconoscere che il fine della massoneria consiste nella perfezione del singolo, da ottenersi mediante il rito, ossia detto in linguaggio massonico, nella squadratura della pietra grezza e nella sua trasmutazione in pietra cubica della maestria seguendo le regole dell’Arte». Alcuni decenni prima che Baylot pervenisse a formulare la sua teoria della “via sostituita”, Reghini aveva già istituito, e con maggior precisione, il discrimine tra la massoneria iniziatica e tradizionale e le massonerie “moderniste” e pseudo-iniziatiche. Dopo questa premessa, e lasciate da banda una volta per tutte le concezioni profane della massoneria, l’esposizione reghiniana s’inoltrava nell’esame delle dottrine e dei simboli delle tradizioni pitagorica ed ermetica, senza alcuna concessione a fonti e ad interpretazioni diverse da quelle classiche. La disamina condotta in parallelo tra pitagorismo e massoneria evidenziava in modo limpido «il carattere pitagorico, puro ed arcaico di tre simboli fondamentali della massoneria: il Delta luminoso, la stella fiammeggiante e la Tavola tripartita». A sua volta, «il significato simbolico dei numeri sacri “noti ai soli liberi muratori” coincide con la filosofia pitagorica». Infine, altri elementi di carattere pitagorico potevano essere indicati nel mistero, nel silenzio e nella disciplina imposti al novizio, nel legame fraterno simboleggiato dal nastro ondulato. Tutto ciò induceva alla conclusione che «la massoneria con la sua iniziazione cerimoniale si presenta come una continuazione nei tempi moderni dei misteri classici, affidata ad una corporazione di mestiere specializzata nell’architettura sacra». Benché numerose questioni rimanessero (e tuttora siano) aperte - l’origine del simbolismo e dei rituali, i passaggi dell’eventuale trasmissione dai misteri antichi, l’epoca di acquisizione della leggenda di Hiram e delle tematiche legate al Tempio di Salomone, l’eventuale connessione degli aspetti giovannei con i movimenti ereticali del Medioevo - «il simbolismo numerico e geometrico della massoneria è quello pitagorico e siccome è esente da ogni colorazione cristiana può darsi che la fusione del simbolismo di mestiere e del simbolismo pitagorico risalga ad un periodo qualunque post-pitagorico, e certamente non si tratta di innovazione recente ma di caratteristica assai antica». Lo scopo dell’iniziazione era indicato nella palingenesi o trasformazione in senso spirituale dell’uomo, comune al percorso muratorio come a quello ermetico-alchemico ed a quello pitagorico: «Anche il pitagoreismo ha per scopo essenziale questa grande opera di edificazione spirituale che designa col termine di palingenesi. Anche nel pitagoreismo si incontra la difficoltà del mistero e del segreto, aggravata dalla scarsezza degli scritti e documenti pitagorici pervenuti sino a noi. La dottrina pitagorica della palingenesi afferma dunque che l’uomo vivente di vita corporea ha la possibilità di nascere alla vita spirituale prima della morte del corpo, afferma la possibilità di una seconda nascita ad una vita nuova senza attendere che sia terminata la vita umana ». L’approccio di Reghini alla massoneria come organizzazione iniziatica tradizionale da rivitalizzare e da ricondurre alla sua vera natura attraverso il collegamento con una sapienza esoterica veicolata da espressioni élitarie della cultura occidentale risultava fin troppo ostico sia per i gruppi dirigenti massonici maturati nei primi due decenni del XX secolo, imbevuti di positivismo attinto per lo più di seconda e di terza mano, ed avvezzi, sulla scia dei loro predecessori in epoca risorgimentale e post-risorgimentale (mi riferisco alle grandi maestranze succedutesi dal 1860 e fino all’epoca di Lemmi e di Nathan), a considerare l’Ordine muratorio come un succedaneo di formazione partitica o interpartitica con aspirazioni egemonicopedagogiche nei confronti della società civile, sia per i gruppuscoli marginali fideisticamente incapsulati nelle trivialità della sub-cultura occultistica. Il rigoroso discorso riformatore – nel senso molto peculiare di una restaurazione o di un ritorno alle origini – di Reghini non poteva, quindi, trovar ricezione né presso i mediocri politicanti alla guida delle organizzazioni massoniche ormai avviate senza possibilità di ritorno su quella che Jean Baylot una trentina d’anni fa felicemente chiamò, come si è ricordato, “via sostituita” né tra i patetici sectatores dello pseudo-esoterismo occultistico allignanti al loro interno, ossia tra i due estremi tipologici entro i quali si modellava e si differenziava, pur con molteplici varianti, la configurazione del “massone medio impegnato”: figura in ogni caso superiore a quella, probabilmente più frequente e suscettibile d’ibridazione con la prima, del massone a vocazione soltanto affaristico-clientelare, solidaristico-assistenziale, dopolavoristica, conviviale ovvero “carrieristica”, e cioè avida di titoli altisonanti, di sciarpe colorate, di collari e di grembiuli carichi di orpelli da far valere in un vanitoso ed insulso cursus honorum, il più delle volte compensatorio rispetto ad una squallida od insignificante collocazione nella vita “profana” ed in ogni caso fine a se stesso. La cruda e radicale critica reghiniana a concezioni ed a pratiche siffatte svuotava praticamente d’ogni significato e d’ogni positiva valenza la massoneria così com’era o come appariva (per esempio, agli occhi di un Croce o di un Salvemini) e, più ancora, delegittimava in radice ed in modo assolutamente esplicito gerarchie associative fondate su valori diversi da quelli spirituali, assumendo così rispetto ad esse una funzione sostanzialmente eversiva. La critica di Reghini si estendeva anche ai sistemi rituali ad “alti gradi”, dei quali faceva rilevare l’origine recente ed il carattere superfetatorio: «Come è noto, negli ultimi due secoli sono sorti in Massoneria gli alti gradi ed i differenti riti che li praticano. Storicamente la massoneria esisteva prima che sorgessero i riti professanti gli alti gradi . Tutti i riti ad alti gradi, in Italia e fuori, spenti od ancora oggi viventi, poggiano sopra la base comune dei primi tre gradi di apprendista, compagno e maestro. La massoneria si riassume nei primi tre gradi, e dal punto di vista tradizionale del simbolismo iniziatico i rituali dei primi tre gradi presentano un interesse senza confronto superiore a quello presentato dai rituali di tutti gli alti gradi dei varii riti; il che non significa che questi siano sempre privi di ogni valore. Comunque per comprendere la Massoneria, ritualmente e tradizionalmente parlando, è superflua la considerazione dei rituali degli alti gradi e basta quella dei primi tre gradi massonici odierni». Questa dichiarazione di semi-inutilità in senso iniziatico e tradizionale dei sistemi rituali ad alti gradi era tanto più significativa in quanto proveniente da un uomo che ne era tra i più profondi conoscitori e che era pervenuto ai vertici sia del Rito di Memphis e Misraim sia del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Rimane da verificare – ma è quesito cui il tempo s’incaricherà di dare risposta – se l’impegno reghiniano nei confronti della massoneria non fosse originato da un equivoco di fondo: se, cioè, a causa di un formidabile equivoco egli non avesse per avventura confuso le logge massoniche con l’accademia ficiniana o con analoghi cenacoli di raffinati intellettuali. Non desta alcuna meraviglia, pertanto, che scarsissima fortuna incontrò la riproposizione della critica reghiniana una volta caduto il fascismo e ricostituitasi la massoneria, i cui dirigenti scelsero di ricalcare gli sperimentati percorsi su quella che agli occhi del Reghini poteva apparire soltanto come una “via sostituita”. Né può sorprendere, per conseguenza, che personaggi formatisi in prossimità di Reghini e sopravvissutigli per non pochi anni, quali Galliano Tavolacci e Giulio Parise, ben scarsamente poterono operare per assicurare continuità e sviluppo alle premesse da lui tracciate, nonostante che il Tavolacci in particolare fosse pervenuto a ricoprire la massima carica del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Entrambi, e con loro pochi personaggi meno noti, dovettero limitarsi a trasmettere all’interno di cerchie molto ristrette ed attraverso rapporti personalizzati – per dirla in termini cari a Reghini: «da fiamma a fiamma» - la visione di cui erano portatori, senza reale possibilità di incidere in modo significativo sulla massoneria come organizzazione relativamente di massa e sulla sua ormai acquisita fisionomia ideologica e pratica: fisionomia, dopo il 1945 comunque costretta a confrontarsi con un mondo e con una società profondamente mutati rispetto all’epoca prefascista. E sulla figura di Reghini, controcorrente allora come lo era stato un ventennio prima, calò la rimozione del silenzio, interrotto da episodiche rievocazioni parziali o strumentali, paradossalmente più spesso ad opera e nell’ambito dei gruppuscoli occultistici, massonici ed extra-massonici, che nei suoi scritti aveva con tanta allegra ferocia strapazzato e messo alla berlina. La massoneria italiana “ufficiale”, dal canto suo, per i motivi fin qui considerati non dimostrò alcun interesse a riportare in luce un personaggio così scomodo, benché si trattasse, in definitiva, del più lucido ed agguerrito “intellettuale organico” che avesse avuto a disposizione, tra la folla di semplici “compagni di strada” – da Carducci a Bovio, da Pascoli a Quasimodo, da Antonio Labriola a Pettazzoni, per citare soltanto alcuni tra i nomi più significativi nel campo della cultura “profana” – che, per brevi o per lunghi periodi, pure ne avevano infoltito e nobilitato i ranghi ovvero, più di rado, avevano combattuto in suo nome questa o quella battaglia. Un tentativo di indirizzare il Grande Oriente d’Italia diversamente, e secondo vedute almeno in parte affini a quelle di Reghini, fu attuato tra la fine degli anni ’50 ed i primi anni ’60, tra la brevissima gran maestranza di Giorgio Tron ed il primo triennio sotto la guida di Giordano Gamberini. Non per caso ne furono protagonisti, tra gli altri, alcuni discepoli di Galliano Tavolacci e di Giulio Parise. La morte prematura di Tron e la particolare deriva seguita da Gamberini nei due successivi trienni alla guida del Grande Oriente d’Italia vanificarono il suddetto tentativo, portando per contro alle note vicende della gestione di Lino Salvini ed a quelle successive e più recenti. Si trattò di un’azione di vertice, promossa dal concorso di alcuni ristrettissimi gruppi iniziatici, cui accennò brevemente alcuni anni fa, per la parte a lui nota, Augusto Comba in un suo saggio e della quale con tutta probabilità quella odierna è la prima esplicita menzione in una sede pubblica. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia…
NATALE MARIO DI LUCA



12 febbraio 2012

- Le Donne erano considerate Creature Inferiori



Nel corso di tutta la storia della Chiesa, le donne sono state considerate esseri inferiori per natura e per legge.. La filosofia Greca che venne adottata dal Cristianesimo ,riteneva che le donne fossero inferiori agli uomini secondo natura.. La legge Romana , che diventò la base della legislazione Ecclesiastica, attribuiva alle donne uno stato di inferiorità nella società. Le donne non avevano uguali diritti nella famiglia e nella società civile. Alcuni Padri della Chiesa collegarono lo status di presunta inferiorità delle donne ai testi scritturali: Solo l'uomo, scrissero, è stato creato ad immagine di Dio. Inoltre, Paolo proibì alle donne di insegnare in chiesa. Anche i ‘ Decreti Ecclesiastici’ del primo millennio sono tracce dimostrative della credenza nell'inferiorità delle donne. I Teologi seguirono questa medesima linea , integrando la visione misogina dei Greci e dei Romani, nei loro discorsi teologici. I legislatori canonici formularono la Legge Ecclesiastica sulla base di quella Romana, e sulle asserzioni negative dei Padri della Chiesa e dei Concili Locali. Sulla base di questo scenario, non dobbiamo sorprenderci se scopriamo che la grande maggioranza dei Padri, dei legislatori canonici, dei teologi e dei capi della Chiesa fossero dell'opinione che una 'creatura inferiore' non potesse essere ordinata sacerdote . Ma è anche chiaro che questo tipo di prevenzione sociale e culturale invalida il loro giudizio sulla opportunità dell'ordinazione delle donne. La donna è ‘inferiore per natura’ secondo Platone ed Aristotele. Secondo Platone (427 - 347 a.c.), la donna deriverebbe da una degenerazione fisica dell'essere umano. “E solo i maschi sono creati direttamente dagli dei e sono forniti di anima .Coloro che vivono in rettitudine ritornano in cielo, ma coloro che sono 'vili' o vivono da malvagi si può con ragione supporre trasformino la loro natura in quella di donna in una seconda generazione...” Aristotele (384 - 322 a.c.) considera la donna un essere umano 'imperfetto' . Le donne sono 'maschi sterili'. “La donna, poichè non possiede sufficiente calore naturale, è incapace di 'cuocere' il suo liquido mestruale fino al punto di raffinatura, al quale diverrebbe sperma ( cioè seme). Perciò il suo solo contributo all'embrione è la materia, ed un 'campo' sul quale può crescere". L'incapacità di produrre seme è la sua insufficienza. La ragione per la quale è l'uomo a dominare nella società è la sua superiore intelligenza. Solo l'uomo è un essere umano 'completo'. “La relazione tra maschio e femmina è per natura tale che il maschio è più alto, la femmina più bassa, l'uomo domina e la donna è dominata. La Legge Romana attribuisce alle donne uno 'status' di inferiorità Secondo il codice di famiglia romano, il marito era signore assoluto e padrone. La moglie era proprietà del marito e completamente assoggettata ai suoi ordini . Poteva punirla in qualsiasi modo gli piacesse. Per quanto riguarda i beni di famiglia la moglie non possedeva nulla. Tutti i beni ereditati da lei o dai figli erano di proprietà del marito, compresa la dote che la moglie portava al suo matrimonio. Nel codice civile Romano i diritti delle donne erano limitatissimi. Le ragioni per limitare i diritti delle donne nella legge Romana sono variamente descritte come ad esempio 'la debolezza del loro sesso' o 'la stupidità del loro sesso'. Il contesto chiarisce che il problema non risiede nella debolezza fisica delle donne, ma piuttosto viene percepito come mancanza nelle donne di una corretta capacità di giudizio o incapacità di pensare in maniera logica. Le donne non potevano occupare nessun ufficio pubblico. Le donne non potevano agire in prima persona nella cause giudiziarie, nelle contrattazioni, nelle testimonianze e così via.
Le donne erano assimilate ai minorenni, agli schiavi, ai criminali , agli incapaci e ai muti; a tutti coloro, cioè, il cui giudizio non doveva essere considerato. Per maggiori dettagli ed informazioni, leggi
Il diritto delle Donne nel Codice Romano. I Padri della Chiesa vedevano le donne come esseri inferiori. La tradizione Greca e Romana concepiva la società stratificata secondo gruppi umani superiori ed inferiori. Le donne erano inferiori agli uomini per natura. Tutto questo influenzò profondamente il giudizio dei Padri della Chiesa. Lo stato di inferiorità delle donne venne semplicemente accettato . “Entrambe, la natura e la legge, mettono la donna in condizione subordinata rispetto all'uomo. ” Sant' Ireneo, Frammento n° 32. “E' nell'ordine della natura che le mogli servano i loro mariti ed i figli i loro genitori, e la giustizia di ciò risiede nel principio che gli inferiori servano i superiori....E' la giustizia naturale che vuole che i meno capaci servano i più capaci. Questa giustizia diventa evidente nel rapporto tra gli schiavi ed i loro padroni ,che eccellono in intelletto, ed eccellono in potere.” Sant'Agostino, Questioni sull'Eptateuco, Libro I, § 153.
“Non può esserci dubbio che è più consono all'ordine della natura che l'uomo domini sulla donna, piuttosto che la donna sull'uomo. Questo è il principio che emerge quando l'apostolo (Paolo) dice, 'La testa della donna è l'uomo;' e, 'Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti'. Anche l'apostolo Pietro scrive: ' Sara obbediva ad Abramo, chiamandolo padrone' " Sant'Agostino,
Sulla Concupiscenza, Libro I, cap. 10. “L'Apostolo vuole che la donna sia manifestamente inferiore , in ordine che la Chiesa di Dio è pura” Ambrosiaster, Sulla prima lettera a Timoteo 3,11. “In verità, le donne sono di razza debole, indegne di fiducia , di mediocre intelligenza. ” Epifanio, Panarion 79, §1. La conferma dello stato di inferiorità delle donne si è spesso espressa nella convinzione che solo l'uomo, non la donna, è stato creato ad immagine di Dio.“Tu, donna, hai distrutto così facilmente l'immagine di Dio, l'uomo.” Tertulliano, Sulla eleganze delle Donne, libro 1, cap. 1. “Come, allora, Dio non ha voluto fare tale concessione all' uomo (più che alla donna),sebbene sul terreno di una maggiore intimità, l'uomo sia ' a sua immagine', o lo affatica sulla terra più dura ? Ma se nulla ( è stato concesso ) all'uomo, tanto meno alla donna.” Tertulliano, Il Velo delle Vergini , cap. 10. “ Le donne devono coprirsi la testa perchè non sono ad immagine di Dio... Come qualcuno può sostenere che la donna sia ad immagine di Dio quando si può dimostrare che essa è soggetta al dominio dell'uomo e non ha alcun genere di autorità ? Poichè essa non può insegnare, nè essere testimone in tribunale, nè esercitare la cittadinanza ,nè essere giudice , certamente essa non può esercitare alcuna autorità .” Ambrosiaster, Sulla prima lettera ai Corinti 14, 34. I Padri della Chiesa fecero propria anche la teoria di Aristotele secondo la quale il padre, come essere umano 'pieno', offre il seme, mentre la madre non farebbe altro che fornire il terreno sul quale il seme deve crescere. “Così il terreno, che è l'utero, accetta la radice umana, e la nutre come è suo compito dopo averla ricevuta, e mentre la nutre gli dà un corpo, e lo distingue nelle varie membra.”San Gerolamo, Lettera a Pammachio. “Li ha chiusi da soli con le donne e giustifica il loro abbraccio peccaminoso: ‘Il padre onnipotente ha preso la terra come una moglie, versa su di lei una pioggia fertile, perchè dal suo utero nasca un nuovo raccolto." Il pregiudizio sulla inferiorità delle donne si riflette in alcune disposizioni che hanno emarginato le donne nella prassi della Chiesa. “Se 'la testa della donna è l'uomo' ed è questo ad essere designato al sacerdozio, non sarebbe giusto abolire la creazione , ed abbandonare il capo per andare verso le estremità. Perchè la donna è il corpo dell'uomo, tratto dalla sua costola e sottomesso a lui, da cui è stata separata per la generazione dei figli. E' lui, si è detto a lei, 'che sarà il tuo padrone'. E' l'uomo la parte più importante della donna, essendo il suo capo . Se in base a queste premesse , non le permettiamo d'insegnare , come le si potrebbe accordare, a disprezzo della natura , di esercitare il sacerdozio? Giacchè è l'empia ignoranza dei Greci che li ha spinti a ordinare sacerdotesse per divinità femminili. E' escluso che questo avvenga nella legislazione di Cristo. Se fosse stato necessario essere battezzati da donne, il Signore sarebbe stato senza dubbio battezzato dalla propria madre e non da Giovanni. E quando ci ha inviati a battezzare, avrebbe mandato con noi delle donne a questo scopo. Ma in nessun luogo, nessuna disposizione nessuno scritto , ha deliberato qualcosa del genere; Egli conosceva bene ciò che è conforme alla natura perchè contemporaneamente egli era il creatore della natura e l'autore della legislazione.” Costituzioni Apostoliche, III, n° 9. Lo stesso testo è citato in Statuta Ecclesiae Antiqua cap. 41 ed era ben conosciuto nel Medio Evo . “Alle donne non è consentito di parlare nella Liturgia Divine ,ma secondo le parole dell'apostolo Paolo, " restino in silenzio. Non permetto loro di parlare, ma stiano in soggezione, come dice anche la Legge. E se vogliono sapere qualcosa interroghino i loro mariti a casa" .” Concilio Trullano, canone 70. I Teologi riconobbero l'inferiorità della donna. I Teologi del Medio Evo accettarono la filosofia Greca, la legge Romana e gli insegnamenti dei Padri della Chiesa ed i Canoni Ecclesiastici come valide fonti delle loro riflessioni , ereditando così il pregiudizio sull'inferiorità delle donne. “Vi sono tre ragioni per le quali diciamo che è l'uomo l' immagine di Dio e non la donna. Prima fra tutte: Così come c'è un solo Dio e da lui tutte le cose sono nate, così un uomo è stato creato per primo e da lui sono stati nati tutti gli altri . Perciò è questa entità che è a somiglianza di Dio , vale a dire cioè che come tutte le cose procedono da Dio , così tutti gli altri uomini procedono da quest'uomo. In secondo luogo, così come dal corpo di Cristo mentre era addormentato nella morte sulla croce è derivata l'origine della chiesa cioè l'acqua ed il sangue attraverso i quali si esprimono i sacramenti con i quali vive la chiesa ed ha la sua origine e diviene sposa di Cristo, così dal fianco di Adamo mentre dormiva nel paradiso è stata formata la sua sposa quando le fu presa una costola, dalla quale Eva venne creata. I terzo luogo : così come Cristo è capo della Chiesa e governa la Chiesa, allo stesso modo il marito è capo della moglie e la regola e la governa. E' per queste ragioni che solo l'uomo è ad immagine di Dio, e non la donna. E' per queste ragioni l' uomo non deve avere come la donna un segno di soggezione, ma un segno di libertà e di preminenza. ” Ugguccio, Summa, C. 33, q. 5, cap. 13. “Le donne non possono avere alcuna responsabilità pubblica....Le donne non possono avere nessun ufficio civile ....La Natura ha creato le donne perchè partoriscano bambini.... E' l'uomo ad immagine di Dio ... l'utero è il terreno sul quale cresce il seme..., ecc. ” Giovanni Teutonico, Apparatus, passim. “Le donne non possono avere responsabilità maschili. Ciò si applica anche alle donne nobili ed alle badesse...Vi sono diciotto ragioni per le quali le donne sono peggiori dei maschi . .” Enrico di Sergusio, Commentaria, I fol. 173r, 204v. “Le donne non possono ricevere l'ordinazione, perchè l'ordinazione è riservata ai membri perfetti della chiesa , da quando ad altri uomini è stata affidata la distribuzione della grazia. Le donne non sono membri perfetti della chiesa, lo sono solo gli uomini.”“Aggiungi a questo che le donne non sono ad immagine di Dio, ma solo gli uomini”. Guido de Baysio, Rosarium, c. 27, q. 1, cap. 23. “E' conveniente che le donne non posseggano il potere delle chiavi perchè esse non sono ad immagine di Dio, ma solo l'uomo è gloria ed immagine di Dio. Questo perchè la donna deve essere assoggettata all' uomo e servirlo come una schiava, e non può esserci altra strada.” Antonio de Butrio, Commentaria, II, fol. 89r. San Tommaso d'Aquino ha seguito Aristotele nel diffondere la concezione delle donna come risultato di un seme difettoso. Il seme maschile intende produrre un essere umano completo , un uomo, ma se per qualche ragione non vi riesce , allora produce una donna. Una donna sarebbe dunque, un mas occasionatus, un uomo mancato. Essa non è dunque pienamente creata ad immagine di Dio.
“Cosicchè si vede come causata da una natura particolare ( dell'azione del seme maschile), una donna non sia altro che una mancanza ,o una caso negativo. Per il potere attivo dello sperma, esso cerca sempre di produrre qualcosa di completamente uguale a sè stesso, cioè un maschio. Se invece viene generata una donna , questo può accadere perchè il seme è debole, o perchè la materia (fornita dalla femmina) è inadeguata , oppure per l'azione di fattori esterni come l'azione dei venti meridionali che rendono umida l'aria. Ma si vede anche che essendo causata dalla natura universale , la donna non viene generata fortuitamente ma è voluta dalla natura per la procreazione. Ora i progetti della natura provengono da Dio , che è il suo autore . Questo è perchè, quando ha creato la natura, egli ha fatto non solo l'uomo ma anche la donna .”
Summa Teologica, 1, q. 92, art 1, r. “In relazione alla natura spirituale, l'immagine di Dio è nell'uomo ed anche nella donna..In relazione a qualcosa di secondario, è vero che l'immagine di Dio è nell'uomo ed in un certo senso non si ritrova nella donna. Perchè l'uomo è origine e scopo della donna, così come è Dio origine e scopo di tutta la creazione. Per questo l'Apostolo ha aggiunto le parole , ‘ L'uomo è immagine e riflesso di Dio ma la donna è a gloria dell'uomo,’ la ragione di ciò (1 Cor. 11:8f. ): ‘Perchè l'uomo non proviene dalla donna ma la donna dall'uomo . Nè l'uomo è stato creato per la donna ma la donna per l'uomo ” Summa Teologica I, q. 93 art. 4 ad 1. La Legge Ecclesiastica sacralizza l'inferiorità delle donna
La presunta 'inferiorità ' delle donne entrò nella Legge Ecclesiastica specialmente attraverso il Decretum Gratiani (1140), che divenne legge ufficiale della Chiesa nel 1234 , come parte vitale del Corpus Iuris Canonici che restò in vigore fino al 1916.
‘Donna’ significa ‘debolezza di mente’
In tutto una moglie è soggetta a suo marito a causa del suo stato di servitù
La Donna non è stata creata ad immagine di Dio
Le mogli sono soggette ai mariti per legge naturale
Le Donne non possono avere uffici liturgici nella chiesa
Le Donne non possono diventare sacerdoti o diaconi
Le Donne non possono insegnare
Le Donne non possono battezzare
La situazione legale delle donne sotto il Corpus Iuris Canonici (1234- 1916 ) è stato sintetizzata come segue:
“Secondo il principio della Legge Civile, nessuna donna può esercitare qualche ufficio pubblico. La Legge Ecclesiastica egualmente esclude le donne da tutte le funzioni e da tutti gli uffici spirituali.” “Una donna non potrà ricevere alcuna ordinazione ecclesiastica. Se ne dovesse ricevere qualcuna, essa non avrà impresso il carattere sacramentale .” “Nessuna donna, anche se santa, può predicare o insegnare .” “La moglie è sotto il potere del marito, non il marito sotto il potere della moglie. Il marito può punirla. La moglie è obbligata a seguire il marito dovunque egli decida di fissare la sua residenza .” “Una donna è tenuta alla modestia più dell'uomo.” “Una donna è perdonata più facilmente di un uomo per la sua paura . E' dispensata dal viaggio a Roma per ottenere l'assoluzione dalla scomunica.” Il Codex Iuris Canonici, promulgato nel 1916, contiene alcuni canoni che poggiano sulla presunta inferiorità delle donne. “Una moglie che non è legittimamente separata dal marito, ha automaticamente il domicilio del marito”, Canone 93, § 1.
“Solo un chierico [maschio] può tenere il potere dell'ordine o della giurisdizione ecclesiastica , o ottenere benefici e pensioni ecclesiastiche ”, Canone 118.
“[Con riguardo alle confraternite o alle unioni pie fondate per la promozione devozionale o delle opere caritatevoli ], le donne non possono farne parte come membri effettivi ,eccetto che per ottenere le indulgenze e le grazie garantite ai membri maschi ”, Canone 709, § 2.
“Solo i maschi battezzati possono ricevere gli ordini sacri ”, Canone 968, § 1.
“[Nei processi di canonizzazione] ognuno dei fedeli può chiedere che sia aperta una causa ..Gli uomini possono agire in prima persona o attraverso un procuratore , le donne solo attraverso un procuratore ”, Canone 2004, § 1
Il nuovo Codice di Diritto Canonico (1983 ) segna alcuni miglioramenti nella condizione sociale delle donne nella Chiesa. Le discriminazioni basate sul sesso sono state rimosse riguardo al domicilio (c. 104), al luogo di matrimonio (c. 1115) o alla sepoltura (c. 1177). Inoltre : Le donne possono agire come consulenti giudiziari nei tribunali (c. 1421, § 2).
Le donne possono essere autorizzate a predicare nelle chiese (c. 766).
Alle donne può essere affidata la cura pastorale nelle comunità locali (c. 517, § 2).
Comunque, la discriminazione continua ancora in altre aree: “Solo un maschio battezzato può ricevere gli ordini sacri ”, Canone 1024. Questo comporta l'esclusione dal potere di governo nella Chiesa . “In accordo con le prescrizioni della legge ,coloro che hanno ricevuto gli ordini sacri hanno la capacità di potere di governo, come esiste nella chiesa per istituzione divina e chiamato anche potere giurisdizionale ” Canone 129, § 1. “Solo i chierici possono ottenere quegli uffici per il cui esercizio è richiesto il potere dell' ordine o il potere di giurisdizione”, Canone 274, § 1.
Conclusione
E' un fatto che molti Padri della Chiesa , canonicisti, teologi e Capi della Chiesa erano dell'opinione che le donne non potessero essere ordinate. E' innegabile che questa opinione ha riposato, e riposi, sul pregiudizio che le donne fossero creature inferiori. E' chiaro anche che questa prevenzione sociale e culturale ha invalidato il loro giudizio sull'opportunità dell'ordinazione delle donne.

John Wijngaards

8 febbraio 2012

- Considerazioni della donna nella filosofia e nella letteratura greca

Nella filosofia e nella letteratura greca esistono due opposte considerazioni della donna, l’una presentata da Socrate, l’altra da Aristotele e Esiodo. Socrate offre una valutazione positiva della donna, Aristotele ed Esiodo invece rappresentano il pensiero che svaluta la figura femminile, subordinandola alla famiglia e alla società. Ambigua e ambivalente è invece la posizione di Platone, che, nella Repubblica e nelle Leggi, offre due diverse considerazioni della donna.
Come scrive Eva Cantarella ne “L’ambiguo malanno”, “Socrate […] era particolarmente ben disposto verso le donne e non si limitava a riconoscere astrattamente le loro capacità, ma ascoltava i loro consigli giungendo ad ammettere senza difficoltà che alcune di esse avevano saggezza superiore alla sua”. Si dice infatti che Socrate avesse appreso il cosiddetto metodo “socratico” proprio da Aspasia, concubina di Pericle, che padroneggiava con “rara maestria la tecnica del discorso”. Socrate, anche se non affermava la completa parità tra uomo e donna, era tutt’altro che misogino; infatti per esempio, benché considerasse particolarmente duro il carattere di Santippe, sua moglie, tuttavia davanti ai figli maltolleranti, lo giustificava, affermando che la durezza di quella era dovuta all’ amore che aveva per loro. Quando nel “Simposio” Aristippo gli chiede come mai si sia messo con “la più bisbetica delle creature”, Socrate risponde in modo scherzoso affermando che per diventare buoni cavallerizzi sia necessario esercitarsi con i cavalli più focosi e non con i più docili, perché “se essi pervengono a domare tali cavalli, potranno governare facilmente gli altri”. Una visione opposta della figura femminile è offerta invece dal filosofo Aristotele, convinto della naturale disuguaglianza dei sessi e della superiorità maschile sulle donne, anche nella riproduzione. Egli infatti nella “Riproduzione degli animali” scrive che la riproduzione è comune ad entrambi i sessi: “il maschio è portatore del principio del mutamento e della generazione”, “la femmina di quello della materia”. Tuttavia il maschio e la femmina sono dotati di “una diversa facoltà”, il primo è “attivo” in quanto “atto a generare nell’altro”, la seconda è “passiva” in quanto “è quella che genera in se stessa e dalla quale si forma il generato che stava nel genitore”. Poiché “[…] la prima causa motrice cui appartengono l’essenza e la forma è migliore e più divina per natura della materia, il principio del mutamento, cui appartiene il maschio, è migliore e più divino della materia, a cui appartiene la femmina”. Quest’ultima infatti sia nelle piante, dove non ha esistenza separata dal maschio, sia negli animali, in cui ha esistenza separata, ha bisogno del maschio e non può generare da sé. Il motivo è che l’animale è diverso dalla pianta perché percepisce attraverso la facoltà dell’anima, la cui produzione costituisce lo stesso esser maschio. Se la femmina perciò generasse da sè compiutamente, il maschio sarebbe inutile e, dice Aristotele, “la natura non fa nulla di inutile”. Egli perciò, servendosi di questo principio‐base della scienza, secondo il quale ciò che accade ha sempre una causa, afferma il primato maschile nella riproduzione, estendendolo anche in ambito sociale: l’uomo, attivo per natura, è portato al comando, nella famiglia l’uomo è superiore alla moglie e la comanda. Secondo Aristotele perciò l’inferiorità della donna si fonda su basi biologiche e il rapporto uomo‐donna è interpretato attraverso due delle categorie più importanti della sua filosofia, quella di forma e di materia. L’uomo‐forma fa di ogni cosa ciò che è, e in quanto portatore del seme, è attivo e trasforma la passiva materia femminile naturalmente e ontologicamente inferiore. Nella letteratura Esiodo, sia nella “Teogonia” sia nelle “Opere e i Giorni”, qualifica la donna come colei che, creata dopo l’uomo per volere divino, segna, con la sua venuta, l’inizio del male nel mondo. Nel mito esiodeo la nascita della prima donna è presentata come conseguenza di un dissidio tra Zeus, dio giusto ma inesorabile, e l’astuto Prometeo, sfrontato orditore di inganni. Per punire Prometeo, che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini, Zeus invia tra gli uomini Pandora, la prima donna, come “dono” rovinoso per i mortali. Esiodo offre due versioni di questo mito, una nella “Teogonia”,l’altra nelle “Opere”. Nella Teogonia infatti, la donna è anonima e non si chiama ancora Pandora, essa è l’iniziatrice della stirpe femminile ed è di per sé l’origine di un male, il “bel male”, a cui l’uomo non può sottrarsi. Alla costruzione del flagello, ordita da Zeus, collaborarono Efesto e Atena per mano della quale Pandora venne ornata di attributi femminili, come una veste splendente e fresche corone di fiori intorno al capo. Tuttavia la donna è portatrice di disagio, “grande flagello per i mortali”, “compagna”, per gli uomini, “di imprese penose” e “[…] non di rovinosa indigenza ma d’abbondanza”, in quanto la donna, nella società di Esiodo, non produce ricchezza ma la dissipa. Inoltre, parlando di matrimonio nei versi 602‐13 dice che l’uomo che non vuole sposarsi sarà privo di assistenza da vecchio e lascerà i suoi averi a parenti lontani, chi invece sarà destinato a sposarsi con una donna saggia avrà per tutta la vita in ugual misura bene e male. Ma chi si imbatterà in una donna funesta vivrà un dolore senza fine. Nelle Opere la donna ha un nome, Pandora, la quale dà origine al male non di per sé ma con un gesto colpevole, l’apertura del piqos (l’orcio che contenere tutti i mali del mondo). Nella formazione della donna, Zeus ordina ad Ermes di darle “animo senza pudore” : letteralmente “animo di cane”, infatti, presso i Greci, il cane rappresentava la sfrontatezza e l’indecenza),e “disposizione all’inganno”. Pandora è definita “sciagura per gli uomini che si nutrono del pane” poiché offerta in “dono” da Zeus ad Epimeteo, aprendo il piqos fa disperdere per il mondo quei mali di cui gli uomini erano privi nel tempo precedente,e “versò agli uomini dolorosi affanni”.
Platone assume una posiziona ambigua ed ambivalente riguardo le donne: infatti, se nella
Repubblica egli offre alla donna la possibilità di un ruolo di primo piano e ne riconosce quasi l’eguaglianza con gli uomini, nelle Leggi, invece, sembra fare marcia indietro, in quanto fa emergere un atteggiamento di diffidenza nei confronti delle donne. Nella Repubblica tratta del modello ideale di stato e parte dalla funzione della donna; egli afferma che l’uomo e la donna sono di nature diverse, ma questa differenza è rilevante solo per la parte che riguarda la generazione dei figli. Essa, invece, non ha affatto rilevanza nello svolgimento delle funzioni sociali, se non per la minore forza fisica delle donne; la differenza quindi è solo di tipo quantitativo (la minor forza) e non qualitativo. Inoltre, poiché “le facoltà sono state distribuite in maniera uniforme tra i due sessi, la donna è chiamata dalla natura a tutte le funzioni, proprio come l’uomo”. Vi sono infatti donne dotate per la medicina, per la musica, per l’atletica e perché no, anche per custodire la città, le quali potrebbero condividere l’educazione e i privilegi dell’uomo. Platone perciò nella sua città ideale considera di far accedere la donna ai due campi che sono da sempre solo appannaggio degli uomini: la guerra e la politica. La rivoluzionaria immagine della donna che Platone propone nella Repubblica sicuramente si applica soltanto alle mogli del gruppo dominante della città, mentre le altre mogli, come quelle dei lavoratori, non sono nemmeno menzionate. Nelle Leggi Platone si allontana dal modello ideale per concepire, invece, una città realizzabile e, benché rinunci al comunismo della Repubblica, tuttavia non smette di considerare la figura femminile anche perché “le donne costituiscono la metà della popolazione cittadina”. Affermando la necessità per cui “[…] la donna nella misura del possibile, condivida i lavori dell’uomo, sia nell’educazione, sia in tutto il resto”, Platone ripropone la sue convinzioni sulla condivisione della attività maschili da parte della donne anche nel suo “secondo” modello di Stato, pur con un arretramento complessivo. Anche se partecipano all’educazione e alla vita della città, non ricevono la stessa educazione dell’uomo e, benché si riconosca alla donna il diritto ad un’attività pubblica e della magistrature femminili (ispettrici dei matrimoni, ispettrici dell’educazione infantile) tuttavia non accedono alle stesse funzioni degli uomini. In guerra hanno una parte, ma si tratta di una parte passiva in quanto possono dedicarsi all’attività bellica ma non partire per delle spedizioni militari. Inoltre, con il ristabilimento della monogamia, la donna è sottoposta all’autorità del marito, le cui cure mirano soprattutto ad assicurare la nascita, nelle migliori condizioni, di figli legittimi. Infine, se nella città ideale della Repubblica la donna custode era dispensata da qualsiasi attività domestica, nella “seconda” città, quella delle Leggi, la donna è essenzialmente la padrona di casa. Nonostante tutto questo, Platone rompeva con i valori tradizionali e, benché sia teorico di una città “totalitaria”, è anche il primo che assegna alla donna un posto nella città, cessando di farla appartenere completamente e solamente alla sfera privata. Nonostante le varie, divergenti considerazioni dei più noti filosofi e letterati della Grecia classica sulla figura femminile, nella mentalità greca collettiva non è prevalsa la posizione più o meno positiva di Socrate e Platone, bensì quella sostanzialmente misogina di Aristotele, che infatti trovava maggior corrispondenza nella coscienza sociale.
Giulia Ghidini,
Alessandra Garioni
Stefano Devoti

7 febbraio 2012

- Identità Del Grande Oriente D’Italia




La Massoneria del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani è un Ordine iniziatico i cui membri operano per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo e dell’umana famiglia.

La natura della Massoneria e delle sue istituzioni è umanitaria, filosofica e morale. Essa lascia a ciascuno dei suoi membri la scelta e la responsabilità delle proprie opinioni religiose, ma nessuno può essere ammesso in Massoneria se prima non abbia dichiarato esplicitamente di credere nell’Essere Supremo.

La Massoneria non è una religione né intende sostituirne alcuna: non pratica riti religiosi, non valuta le credenze religiose, non si occupa di nessun tema teologico, non consente ai propri membri di discutere in Loggia in materia di religione.

La Massoneria lavora con propri metodi, mediante l’uso di Rituali e di simboli coi quali esprime ed interpreta i princìpi, gli ideali, le aspirazioni, le idee, i propositi della propria essenza iniziatica.

Essa stimola la tolleranza, pratica la giustizia, aiuta i bisognosi, promuove l’amore per il prossimo e cerca tutto ciò che unisce fra loro gli uomini ed i popoli per meglio contribuire alla realizzazione della fratellanza universale.

La Massoneria afferma l’alto valore della singola persona umana e riconosce ad ogni uomo il diritto di contribuire autonomamente alla ricerca della Verità. Essa inizia soltanto uomini di buoni costumi, senza distinzione di razza o di ceto sociale.

I Lavori di Loggia sono di natura strettamente riservata ma non segreta

Il Massone è tenuto ad osservare scrupolosamente la Carta Costituzionale dello Stato nel quale risiede o che lo ospita e le leggi che ad essa si ispirino.

La Massoneria non permette ad alcuno dei suoi membri di partecipare o anche semplicemente di sostenere od incoraggiare qualsiasi azione che possa turbare la pace e l’ordine liberamente e democraticamente costituito della società.

La Massoneria è apolitica. Essa impone ai suoi membri i doveri di lealtà civica, riserva loro il diritto di formarsi la propria opinione riguardo agli affari pubblici, ma né in Loggia né in qualsiasi altro momento dell’attività massonica è consentito loro discutere in materia di politica.

I Massoni hanno stima, rispetto e considerazione per le donne. Tuttavia, essendo la Massoneria l’erede della Tradizione Muratoria operativa, non le ammette nell’Ordine.

Ogni membro, al fine di rendere sacri i propri impegni, deve aver prestato Solenne Promessa sul Libro della Legge da esso ritenuta Sacra.



6 febbraio 2012

- LEUCIPPO DI MILETO

"Nulla avviene a caso, tutto secondo ragione e necessità". Si può parlare di un "caso" Leucippo, dal momento che di questo filosofo si sono dati riferimenti, non solo di natura biografica, contrastanti tra loro. Aristotele, quando parla di Leucippo, lo pone sempre in coppia col suo "collega" Democrito, col quale sarebbe stato il fondatore dell’atomismo: da ciò sembra che Leucippo – già presso Aristotele – fosse figura dai contorni molto sfumati. Secondo quanto afferma Diogene Laerzio (Vite dei filosofi X 13), Epicuro mise in dubbio l’esistenza stessa di Leucippo, mentre Aristotele in più opere (Metaphysica, De generatione et corruptione, De caelo, De anima) e Teofrasto (370-287 a.C.), la cui dossografia è la fonte per lo stesso Diogene Laerzio in IX 30 sgg., attestano sia la dottrina che la storicità della figura di Leucippo. Hermann Diels in Die Fragmente der Vorsokratiker, II, 80, raccolse le opinioni divergenti degli autori antichi e spiegò tale problematicità verificativa con la formazione nel IV secolo a.C. del corpus democriteum, la raccolta dell’insieme degli scritti di Democrito, in cui furono incluse anche le opere di Leucippo, ingenerando da allora in poi una confusione fatale tra le dottrine rispettive di Leucippo e Democrito, confusione che mise in dubbio l’esistenza stessa di Leucippo. Riunificando i dati tratti da Diogene Laerzio, Aristotele e Simplicio (Physica), pare che Leucippo sia stato più giovane di Parmenide, scolaro di Zenone, maestro di Democrito e contemporaneo di Empedocle e Anassagora. Per ciò che concerne l’opera scritta di Leucippo, abbiamo il Papyrus Herculanensis (un papiro greco scoperto a Ercolano nel 1752 contenente testi filosofici epicurei) che, nell’edizione del 1768 (coll.alt. VIII 58-62) fr. 1, sostiene: "... scrivendo che... le stesse cose erano già state dette in precedenza nella Grande Cosmologia, che dicono essere opera di Leucippo. Ed è deplorato per essersi attribuito talmente le altrui dottrine, non solo ponendo nella Piccola Cosmologia le dottrine che si trovano anche nella Grande..."; e abbiamo Aezio, ed. Diels, I 25, 4 (Doxographi graeci 321), il quale dichiara: "Leucippo dice che tutto avviene secondo necessità e che questa corrisponde al fato. Dice infatti nel libro Dell’intelletto: Nulla si genera senza motivo, ma tutto con una ragione e secondo necessità". Dalla testimonianza di Aristotele e Teofrasto si evince che Leucippo sia stato il primo a formulare le teorie atomistiche che Democrito in seguito sviluppò, soprattutto tramite l’uso di certi termini, attribuiti dagli studiosi all’opera Grande Cosmologia mai citata da Aristotele, quali "atomi", ossia parti indivisibili, grande vuoto, corpi solidi), scissione, misura, contatto reciproco, direzione, rimescolamento, vortice. Riassumendo, Leucippo avrebbe considerato la natura legata alla matematica, l’essere come un composto molteplice e materiale di atomi infiniti, ma non infinitamente divisibili, e il non essere come il vuoto in cui vengono a muoversi gli atomi. La visione leucippea sarebbe quindi deterministica e meccanicistica, da qui la spiegazione dell’origine dei mondi attraverso il vortice, che determinerebbe la scissione degli atomi più pesanti dai più leggeri, e la formazione della Terra in seguito alla forza centripeta che raccoglierebbe questi atomi pesanti. Circa l’ordinamento degli astri, Diogene Laerzio (IX, 33) riepiloga così la teoria di Leucippo: "L’orbita del sole è la più esterna, quella della luna è la più vicina alla terra, mentre quelle degli altri astri sono in mezzo a queste due".
I PRINCIPI DELL’ATOMISMO DEMOCRITEO E LEUCIPPEO
Anche gli atomisti, come già Anassagora, assumono come struttura della realtà invisibile ad occhio nudo un’infinità di principi, ancorché questi non siano infinitamente divisibili: se infatti tutto fosse divisibile all’infinito, allora il mondo avrebbe dovuto cessare di essere già da tempo. I principi primi della realtà come li intendono gli atomisti debbono essere pieni e privi di parti: tali sono quelli essi definiscono, ovvero – letteralmente - "corpi non ulteriormente tagliabili", costituenti la struttura profonda del reale. Questi "atomi", per potersi muovere e per consentire la generazione e la corruzione dei composti, devono avere uno spazio entro cui muoversi ed è per questa ragione che gli atomisti introducono come secondo principio il vuoto, condizione imprescindibile del moto atomico. Gli stessi aggregati non sono che unioni di atomi e vuoto: il che è provato dal fatto che, consumandosi, i corpi cedono atomi e, perché ciò possa avvenire, dev’esserci il vuoto. Con terminologia eleatica, Democrito chiama gli atomi e il vuoto rispettivamente "essere" e "non essere"; egli asserisce poi – riprendendo l’antitesi sofistica - che la conoscenza intellettuale (avente come oggetto gli atomi e il vuoto) è (secondo natura), mentre quella degli aggregati è (secondo convenzione). Sicchè secondo natura conosciamo gli atomi e il vuoto, secondo convenzione il bianco, il profumato, ecc. Le cose che costantemente esperiamo non sono dunque la verità, ma mera parvenza. Essendo gli atomi infiniti, infiniti saranno anche i mondi che dalla loro aggregazione trarranno origine, cosicché gli atomisti possono relativizzare la vita che conduciamo sul nostro e possono inoltre evitare di far ricorso a cause extra-materiali. Incarnando in sé l’essere parmenideo (ed essendo dunque immutabili, eterni, incorruttibili), gli atomi come si distinguono fra loro? Per Empedocle e Anassagora, i principi si differenziano qualitativamente, il che tra l’altro spiega perché i corpi composti presentino qualità; per Democrito (e forse per Leucippo) invece – stando a quel che riferisce Aristotele – gli atomi si differenziano fra loro per caratteristiche quantitative. Per far luce su questo punto della dottrina atomistica, Aristotele esemplifica servendosi delle lettere dell’alfabeto, che egli chiama: e sono anche gli "elementi", con la conseguenza che gli atomi sono un po’ come le lettere dell’alfabeto e il mondo che ne risulta si presenta come una sorta di libro le cui lettere sono gli atomi. Per forma gli atomi si distinguono fra loro come la A si distingue dalla N; per ordine come AN da NA; per posizione come Z da N. Si tratta evidentemente di differenze puramente geometriche, con caratteristiche misurabili. Tuttavia gli atomisti si spingevano oltre: pare infatti che, poste queste tre differenze di base, essi asserissero che gli atomi sono dotati di un numero incalcolabile di differenze, a tal punto che essi finiscono col riconoscere – il che costerà loro la derisione da parte dei suoi avversari – l’esistenza di atomi di forma uncinata. Il problema cui l’atomismo è chiamato a rispondere è che, se gli atomi sono quantitativamente connotati, come si spiega che poi noi percepiamo qualitativamente i composti? Perché, se la rosa non è che un aggregato di quantità, noi la percepiamo rossa, profumata, ecc? Per render conto di ciò, l’atomismo spiega le qualità come epifenomeni delle quantità, cosicché il bianco deriverebbe da un assetto casuale dato dall’unione di atomi: la rosa non è che un aggregato di atomi quantitativamente connotati che però, colpendo i nostri organi di senso, generano impressioni qualitative (il profumo, il colore rosso, ecc). Un altro problema su cui l’atomismo deve affaticarsi riguarda la natura stessa degli atomi: se essi sono corpi invisibili e indivisibili, allora non avranno parti e saranno come enti geometrici; ma allora come è possibile ch’essi, privi di parti, si aggreghino e formino corpi divisibili costituiti da parti? Come possono muoversi? L’atomismo sostiene che gli atomi sono ab aeterno dotati di moto (il che implica il vuoto in eterno) e, più precisamente, si muovono in qualunque direzione senza tregua, con la conseguenza che possono casualmente incontrarsi e aggregarsi (ciò nel caso in cui le forme siano compatibili, come ad esempio quando si incontrano atomi ad uncino e atomi ad anello). A regolare il moto degli atomi non è una forza esterna o una divinità: l’unica legge (se in questo caso di legge si può parlare) regolante il loro movimento è il caso, non già nel senso ch’essi si muovano senza causa, bensì nel senso che il loro è un moto spontaneo, scevro di finalità e non extra-naturale: è un moto che tiene conto della legge per cui il simile attira il simile. Tutto risponde ad una ragione e ad una ferrea necessità. Oltre a negare la causa finale, l’atomismo nega quella efficiente – nota Aristotele -, giacchè essa non è se non una proprietà della materia. Per l’atomismo nulla avviene a caso, tutto avviene secondo una ragione. Questa osservazione può essere provata: a questo scopo non basta accontentarsi dell'osservazione della molteplicità dei fenomeni, ma occorre risalire mediante un procedimento intellettuale alla conoscenza di ciò che non è visibile. Gli oggetti che noi percepiamo ci appaiono caldi o freddi, amari o dolci, ma queste qualità appartengono alla sfera di quello che la cultura del v secolo a.C. raggruppava sotto la categoria del ossia di ciò che è variabile, convenzionale, instabile, contrapposto al piano stabile e immutevole della natura.
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