31 maggio 2012

- Praga e la via della Magia

















In certe giornate un po’ grigie ad avvolgere, e rendere ancora più seducenti, le vie di Praga è una bruma di mistero. Atmosfere magiche, figure fiabesche e altre demoniache, storie bizzarre e a volte da brivido, vicende epiche e antichi aneddoti a popolare la capitale sono leggende di ogni epoca e per ogni gusto. Come fantasmi aleggiano nell’aria, si insinuano nella storia e la coprono di un velo di mistero. Come spettri burloni (ma non troppo!) strizzano l’occhio al viandante per regalargli di Praga una versione eterea, fluttuante e solo apparentemente candida, proprio come il loro “lenzuolo”, nelle cui pieghe ognuno può leggere la storia che più gli piace. C’è però una storia ufficiale, documentata e scritta nei manuali, che elegge Praga a città magica, protagonista insieme a Torino e Lione del celebre triangolo europeo di magia bianca. E’ una storia che affonda le radici nel lontano ‘500, ai tempi di Rodolfo II, eccentrico sovrano con una passione per alchimia e magia. Tra le personalità eccentriche che il re assoldò e richiamò da tutta Europa, gli astronomi/astrologi Tycho Brahe e Giovanni Keplero, il consigliere di Elisabetta I d’Inghilterra John Dee, il sedicente medium Edward Kelly, l’alchimista Michael Sendivogius ma anche il nostro Arcimboldo, celebre per i suoi ritratti realizzati con frutti, ortaggi e fiori. Inquieta, arrabbiata e delusa, l’anima del re folle ancora vaga e si respira tra i vicoli e negli angoli segreti della Praga magica. Per inseguirla bisogna rintracciare le architetture esoteriche della capitale, percorrere il Vicolo dell’Oro – là dove in minuscole casupole, oggi sede di botteghe artigiane, alloggiavano alchimisti, scienziati, esoteristi e ricercatori di corte -, attraversare il Ponte San Carlo, vagare per il quartiere Mala Strana, addentrarsi nel ghetto ebraico ai tempi governato da quel rabbino Loew cui si deve la leggenda del Golem, gigante plasmato dall’argilla rossa a difesa degli ebrei praghesi dalle persecuzioni dell’epoca.
Oltre la storia c’è di più. Passeggiare per Praga magica è un viaggio nel passato fatto di
saliscendi: un continuo salto dai fatti storici a quelli tramandati, dalla cronaca alla tradizione popolare, dalla scienza alla leggenda. Praticamente ogni pietra della città protegge il suo mistero, custodisce la sua leggenda. Raccontarle tutte sarebbe impossibile. Narrano di re, regine e cavalieri, ma anche di monaci, gente comune, spose e monelli. E naturalmente di maghi, strane creature, geni, ninfe e spiritelli. Tramandano storie d’amore, regalano perle di saggezza e lanciano moniti ma per lo più stuzzicano la fantasia e il battito cardiaco con note tra il macabro e il grottesco: il templare senza testa, il monaco che invece la testa la portava sotto braccio, lo scheletro che nel cranio aveva un chiodo, il boia con la spada, mani mozzate, Faust che aveva venduto l’anima al diavolo. Ma niente paura: basta girare l’angolo ed è girata anche la pagina. Ecco tornare toni fiabeschi, con storie dolci o melanconiche ma pur sempre avvincenti di culle d’oro, monete nello straccio, pesci d’argento, tesori nascosti o dimenticati, lampade miracolose, scarpette di mollica, eroi coraggiosi, e pegni d’amore. Cronaca e invenzione, condanna e speranza, tinte cupe e pennellate rosa si mescolano sulle facciate, sul selciato, nei cortili e nei sotterranei dell’intera capitale, quartiere dopo quartiere. Ovunque si rintracciano leggende antiche che non di rado si dipanano però da episodi di storia documentata, anche cruenti. E che quasi sempre spiegano l’origine dei grandi monumenti cittadini, o comunque dei loro nomi. Ecco allora qualche tappa imperdibile per una passeggiata nel tempo, tra sogno e realtà. La leggenda narra che in via Liliova, nella Città Vecchia, ogni mezzanotte appare un templare senza testa, in sella al suo destriero bianco. Con una mano stringe le redini, con l’altra il suo capo tagliatogli in vita per una grave colpa. Si dice che in punto di morte abbandonò la fede cristiana e che ora vaga in cerca di chi lo liberi dalla maledizione. Ci riuscirà solo chi sarà tanto veloce e coraggioso da strappargli la spada e trafiggergli il cuore. Per ora, però, dell’impavido eroe nessuna traccia.
Il celebre Ponte Carlo seppe resistere alle numerose inondazioni della Moldava ma quando il sacerdote Giovanni Nepomuceno fu gettato nel fiume, proprio in quel punto crollò l’intera arcata del ponte. Inutili i ripetuti tentativi di ricostruirlo: l’opera dei muratori la notte crollava di nuovo. Un costruttore però si incaponì e, dopo una serie di fallimenti, scese a patti col diavolo promettendogli la vita di colui che per primo avrebbe attraversato il nuovo ponte. Per risparmiare un’anima innocente, però, pensò di ingannare il demonio liberando, all’alba del giorno dell’inaugurazione, un gallo all’imbocco del ponte. Ma il diavolo fu più furbo: si finse muratore, si precipitò dalla moglie del costruttore e le disse di correre al ponte perché a suo marito era capitato un brutto incidente. Il costruttore non poté fermarla e la notte stessa la poveretta morì con anche il bambino che portava in grembo. Pare che l’anima del piccolo abbia volteggiato a lungo sopra il ponte, emettendo starnuti che i passanti riuscivano a udire. Fino a che un giorno d’istinto qualcuno gli rispose “Salute!” e inconsapevolmente liberò la giovane anima, che poté finalmente volare in cielo. Il Muro della Fame, nella Città Piccola, racchiude nel suo nome una storia interessante. Ai tempi di Carlo IV la siccità portò carestia e, di conseguenza, delinquenza. Le carceri esplodevano e allora l’imperatore propose ai disperati che avevano rubato e saccheggiato per sfamare le famiglie un lavoro onesto in cambio non di denaro ma di cibo. Chi accettò fu condotto sulla collina di Petrin per avviare la costruzione della fortezza cittadina. La grande muraglia, conservatasi fino a oggi, sfamò così intere famiglie. Per questo e a causa anche della sua merlatura che ricordava i denti dei poveri affamati, fu battezzata subito Muro della Fame. Un pomeriggio d’estate, Libuse, Premysl e il loro seguito osservavano il panorama dal castello di Vysehrad. Libuse predisse allora: “Vedo una bella e grande città, la cui fama arriverà fino alle stelle. Nel bosco c’è un uomo che sta scolpendo la soglia (ndr: in ceco prah, da cui Praha ovvero Praga) della sua casa. Lì farete costruire un grande castello e lo chiamerete Praha. Così come davanti alla soglia di una casa chinano il capo il re e tutti i principi, anche i più potenti, un giorno si inchineranno davanti al castello e alla città che crescerà sotto di esso”. Così fu: il castello di Praga fu fatto costruire in quel luogo e divenne sede dei principi e in seguito dei re boemi. Ancora oggi davanti alla bellezza della città che porta il suo nome, si inchinano persone di tutto il mondo. Se Praga è da secoli e indiscutibilmente la città della magia, dove si concentrano storie occulte, architetture esoteriche, leggende più o meno verosimili e affascinanti dicerie, il mistero è pur sempre contagioso. Così anche il resto della Repubblica Ceca può vantare racconti e aneddoti tramandati nel tempo, che contribuiscono al fascino enigmatico di un Paese dalle lunghe tradizioni e dalla cultura antica. Tanti gli antichi racconti popolari, ancora tramandati di bocca in bocca, nel resto della Boemia. Sospesi tra fantasia e realtà, sono conditi di poesia, mistero, speranza e un pizzico di umorismo. Uno in particolare aggiunge toni vivaci alla mera cronaca, narrando di un alchimista fasullo che altri non era che quell’Edward Kelley giunto alla corte di Rodolfo II dall’Inghilterra. La leggenda narra che in patria, dove era noto come Talbot e impiegato come medico e scrivano, il truffatore avesse subito l’amputazione delle orecchie per aver falsificato dei documenti ufficiali. Cacciato dalla sua città, Dorcester, approdò in Boemia dove nessuno conosceva le sue vicende, le cui prove erano peraltro ben nascoste da lunghi capelli.
Diffidente per natura, l’imperatore volle mettere alla prova le sue doti di alchimista e, una volta analizzata la sua attrezzatura per verificare che non vi fosse già nascosto dell’oro, lo osservò mescolare misture e polveri in un pentolone. Lasciato di guardia fuori dalla stanza mentre Kelley si assentava, l’imperatore al rientro dell’alchimista rimase esterrefatto davanti alle pagliuzze d’oro materializzatesi nel frattempo sul fondo della pentola. In realtà Kelley aveva nascosto un complice, che durante l’assenza dei due sostituì la magica pozione con oro. Conquistata la fiducia dell’imperatore, il truffatore godette di lussi e privilegi e riuscì abilmente a rimandare a lungo la trasmutazione di nuove e maggiori quantità di oro, appellandosi al volere degli spiriti e delle stelle. Quando Rodolfo II perse infine la pazienza, Kelley fu imprigionato in una torre da cui riuscì a scappare con astuzia ma poca fortuna: calandosi dalla finestra precipitò e si ruppe una gamba che gli fu quindi amputata. Graziato, girò la Boemia perpetrando nuove truffe e affari loschi, fino a che incappò nuovamente nella giustizia a Most e, nella prigione locale, si tolse la vita.
Se l’oro si faceva desiderare, l’argento in Boemia era invece una realtà. Attorno alle miniere sorsero città – come nel caso di Kutna Hora, che la tradizione vuole costruita là dove un monaco lasciò la sua tonaca (in ceco “kutna” appunto) a indicare il luogo suggeritogli in sogno per trovare il minerale prezioso - ma anche leggende, aneddoti e racconti. Narrano per esempio di folletti minatori, spiriti buoni delle “montagne d’argento” dalle folte barbe bianche che suggerivano ai minatori dove scavare e preannunciavano crolli o allagamenti. E anche la Moravia meridionale vanta il suo bagaglio di antichi racconti. Si narra per esempio che molto tempo fa, quando le ruote dei carri venivano ancora fabbricate a mano, nel villaggio di Lednice vivesse un carraio di nome Birk, abile artigiano ma anche risaputo millantatore. Un giorno, all’osteria, scommise di essere in grado, in un solo giorno, di fabbricare una ruota e farla rotolare per 60 km fino al capoluogo, Brno. Nessuno gli credette e Birk lasciò tutti di stucco vincendo la scommessa. La sua ruota è esposta ancora oggi nella galleria del Municipio Vecchio di Brno.
Sempre a Brno si tramanda ancora la leggenda del drago, un mostro minaccioso che tormentava la città in tempi antichi. A liberarla fu infine il garzone del macellaio che gettò alla belva un’esca imbottita di calce. Non appena il drago bevve un sorso d’acqua cominciò a gonfiarsi e gonfiarsi, fino a scoppiare. Oggi il drago è uno dei simboli del capoluogo moravo. In città, infine, ancora oggi le campane della cattedrale di Petrov annunciano il mezzogiorno rintoccando un’ora prima. Questa bizzarria è in realtà l’omaggio dei cittadini ai loro antenati che durante la Guerra dei Trent’Anni (1618-1648) difesero Brno dalle truppe svedesi. La leggenda narra che il generale svedese Torstenson, dopo diversi mesi d’assedio, un giorno sentenziò: “Dobbiamo prendere la città prima che le campane della cattedrale annuncino il mezzogiorno”. Così il comandante dei difensori, Raduit des Souches, ricorse allo stratagemma: ordinò di far rintoccare il mezzogiorno già alle 11. Gli svedesi, ritenuto scaduto il tempo massimo che si erano imposti, si ritirarono e la città fu libera. Arcani, leggende, enigmi e luoghi segreti di Praga da sempre affascinano gente comune e turisti ma anche letterati, registi e autori. Ha fatto storia per esempio il saggio “Praga Magica” del boemista italiano Angelo Maria Ripellino (Einaudi, 1973). Il libro conduce per mano alla scoperta di luci e ombre della città, catapultando il lettore nella metropoli di Rodolfo II, degli alchimisti, del quartiere ebraico, del Golem, delle taverne, di atmosfere funebri e tenebrose, di nebbie tremolanti al bagliore dei lampioni a gas.
Sempre di pugno italiano il più recente e fruibile “Misteri di Praga. Un itinerario esoterico nei segreti della città” (Hermatena Edizioni, 2003). La guida “magica” di Morena Poltronieri è perfetta per scoprire la capitale nascosta, riviverne le vicende esoteriche ed entrare nell’anima dei luoghi.


30 maggio 2012

- Muro di Lennon


Il Muro di Lennon è un muro che si trova a Praga capitale della Repubblica Ceca. Originariamente esso era un semplice muro della città, ma improvvisamente a partire dagli anni 80 divenne un simbolo di pace e libertà per la popolazione, soprattutto i giovani che iniziarono a riempirlo con graffiti e disegni ispirati a John Lennon nonché con frasi tratte da canzoni dei Beatles. Il regime comunista allora al potere nel paese, ovviamente non gradiva la presenza del muro che era ben presto diventato un fondamentale punto di riferimento dal punto di vista politico e sociale per i giovani di Praga che continuavano a riempirlo di frasi e disegni ai quali ben presto fecero compagnia quelli dei giovani provenienti da ogni parte del mondo che venendo a Praga si sentivano quasi obbligati a far visita al muro che era nel frattempo diventato anche una ricercata meta turistica. Il muro deve il suo nome al fatto che dopo la sua morte, John Lennon divenne un eroe pacifista per i giovani cechi e presto un suo ritratto fu dipinto sul muro assieme a parole delle sue canzoni. Nel 1988 il regime comunista guidato da Gustav Husak tentò di screditare il significato del muro e dei suoi estimatori, dapprima definendo "Lennoniani" i seguaci del movimento pacifista ceco ritenuti violenti, alcolisti, psicopatici e "paladini del capitalismo", nonché ridipingendolo numerose volte, provvedimento che si rivelò del tutto inutile poiché ogni volta che il muro veniva imbiancato, esso veniva prontamente ricoperto da nuove scritte e nuovi disegni. Oggi il muro rappresenta un simbolo universalmente riconosciuto di pace, amore e fratellanza. Il muro è di proprietà dei Cavalieri di Malta che permettono tutt'oggi che esso sia dipinto e scritto e si trova in Velkopřevorské náměstí (piazza del Gran Priorato) nella Mala Strana Città Piccola a Praga.



29 maggio 2012

- Jan Palach






Iscritto alla Facoltà di filosofia dell'Università Carlo di Praga, assistette con interesse alla stagione riformista del suo paese, chiamata Primavera di Praga. Nel giro di pochi mesi, però, quest'esperienza fu repressa militarmente dalle truppe dell'Unione Sovietica e degli altri paesi che aderivano al Patto di Varsavia.
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan Palach si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Rimase lucido durante i tre giorni di agonia. Ai medici disse d'aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono 600 000 persone, provenienti da tutto il Paese.
Jan Palach decise di non bruciare i suoi appunti e i suoi articoli (che rappresentavano i suoi pensieri e i suoi ideali), che tenne in un sacco a tracolla molto distante dalle fiamme. Tra le dichiarazioni trovate nei suoi quaderni, spicca questa:
« Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà »
Non si è mai saputo se davvero ci fosse un'organizzazione come quella descritta da Palach nella sua lettera. È certo però che, grazie a questo gesto estremo, Palach venne considerato dagli antisovietici come un eroe e martire; in città e paesi di molte nazioni furono intitolate strade con il suo nome. Anche il teologo cattolico Zverina lo difese, affermando che "Un suicida in certi casi non scende all'Inferno" e che "non sempre Dio è dispiaciuto quando un uomo si toglie il suo bene supremo, la vita". Questo clima portò a drammatiche conseguenze: almeno altri sette studenti, tra cui l'amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio e si tolsero la vita, nel silenzio degli organi d'informazione, controllati dalle forze d'invasione.
Dopo il crollo del comunismo e la caduta del Muro di Berlino, la sua figura fu rivalutata: nel 1990 il presidente Václav Havel gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà. Nel 1989 gli venne intitolata la piazza nel centro di Praga fino ad allora dedicata all'Armata Rossa. Oggi, molte associazioni studentesche, anche di sinistra, lo ricordano come una persona morta in nome dei suoi ideali, e non sono pochi i circoli di giovani dedicati a Jan Palach.




- L’EROS PLATONICO UNA MILLENARIA SCALA PSICOSINTETICA VERSO LA REALIZZAZIONE



L’educazione raffinata e completa (musica, poesia, pittura e ginnastica), la frequentazione di Socrate, la conoscenza dei misteri egizi, fanno di Platone uno dei latori più emblematici di una saggezza perenne. Questa, come un fiume sotterraneo, si è suddivisa in una miriade di rivoli confluendo in culture e tradizioni diverse, emergendo, a tratti, con forza, o inabissandosi, a volte, sotto le macerie di ideologie od eventi storici terrificanti, ma sempre pronta ad elargire i propri splendidi doni a chi si avvicina ad essa con l’intelligenza del cuore. E poiché la Psicosintesi a pieno titolo può ascriversi tra i più significativi emissari di questo magnifico fiume, sarà interessante scoprire quanto vicini siano i paradigmi psicosintetici con il messaggio lasciatoci da Platone circa 2.400 anni fa.
L’importanza, la profondità e l’originalità della riflessione platonica è testimoniata dalla nascita nel linguaggio comune della formula “ amore platonico “ come definizione di un rapporto profondo, di attrazione e di completamento tra due persone al di là di ogni sensualità e carnalità.
E’ importante notare che negli ambienti culturali greci e, anche in parte nell’immaginario collettivo di quella civiltà, era vera l’equazione di bello e buono, la cosiddetta kalokagathia, per cui la misteriosa emozione provocata dalla bellezza, una sorta di sindrome di Stendhal antelitteram, costituiva già di per sé un allertamento e una vivificazione del senso morale, similmente a quanto afferma la Psicosintesi che raccomanda di alimentarsi psicologicamente di ciò che suscita armonia e bellezza per evocare il meglio di noi e degli altri. Su queste basi la grande originalità concettuale del “ vero “ amore platonico, non risiede nel suo essere la definizione di una forma possibile di rapporto tra due persone, ma della sostanza stessa dell’amore. Nel suo aspetto di “energia”, Eros, il più antico tra gli dei, continuamente ed eternamente operante; il più giovane degli dei perché rinasce ogni volta nel cuore di chi ne fa esperienza.
L’amore è l’unico strumento per tentare di abbattere le barriere del nostro piccolo io storico e, attraverso un’ascesi interiore, proiettarsi verso l’estasi della totalità, verso la consapevolezza di essere un unico corpo, un’unica umanità alla costante ricerca della nostra radice metafisica, placando i tormenti dell’inconscia nostalgia dell’interezza e dell’incondizionato.
Diotima, la grande iniziata.
Di grande insegnamento ancora per tutti noi sono le acutissime e toccanti osservazioni di Diotima, la donna di Mantinea, che Platone fa parlare nel suo Simposio. Socrate, protagonista come sempre del dialogo, ricorda come Diotima abbia destrutturato le sue certezze in merito all’amore, asserendo che l’amore non è bello e non è brutto e non è buono né cattivo, ma è un demonio, un demone, un’energia in possesso degli uomini, mortale ed immortale come loro, secondo l’uso che essi ne fanno e l’oggetto verso cui lo dirigono. E’ una sorta di scala a gradini attraverso la quale gli umani possono assurgere alle dimore degli dei e gli dei parlare agli uomini. Ma molti e di diversa natura sono i demoni che contattano l’ uomo. Come non rilevare un riferimento alle spinte energetiche che arrivano dal centro dell’Io e che, grazie alla volontà, ci mettono in comunicazione diretta con il nostro progetto esistenziale, da una parte, e le richieste e i bisogni, invece, che, dall’altra, derivano dalle nostre subpersonalità periferiche?
Diotima continua, per meglio illustrare la funzione e la natura di questa energia dentro l’uomo, raccontando che Eros fu concepito nello stesso giorno in cui gli dei festeggiavano la nascita di Afrodite, la dea della bellezza.
Diotima narra di Eros
Al banchetto era presente Poros, l’Espediente, figlio di Meti, la Prudenza, e quando alla fine della festa, costui ubriaco di nettare si era addormentato nel giardino degli dei, Penia, la Povertà, giunta lì per chiedere le briciole del sontuoso pasto, gli giacque accanto nella notte, concependo Eros. Dunque quest’ultimo è sempre povero e, ben lungi dall’essere tenero e bello, è ruvido e scalzo, privo di dimora fissa. Dorme sulla nuda terra e senza coperte, sdraiato sotto il cielo aperto, sugli usci delle case o per la strada, perché, condividendo la natura della madre, convive con l’indigenza. In compenso, in conformità con la natura del padre, spia l’occasione favorevole per mettere le mani sulle cose belle e buone, perché è coraggioso, impulsivo, veemente. Abile cacciatore, tende sempre una qualche trappola. Appassionato pensatore, capace di trovare soluzioni brillanti per cavarsela, passa tutto il tempo ad amare la sapienza. E’ esperto nei sortilegi, nella preparazione di filtri magici, e di sottili argomentazioni come un sofista.
E’ il caso di ricordare che Poros non è semplicemente, nell’accezione greca, l’espediente truffaldino, ma ha a che fare anche con il concetto di strategia il che evoca subito la Volontà saggia della Psicosintesi. Essa ha il compito di individuare i tempi giusti e gli strumenti giusti nonché le giuste modalità nel raggiungimento di un obiettivo, dopo aver attentamente esaminato il patrimonio psichico e fisico in nostro possesso, talvolta evitando con fare indulgente e sornione le resistenze dell’io storico.
Ritornando all’Eros platonico, Diotima afferma che, a volte, nello stesso giorno, quando i suoi espedienti hanno avuto buon fine, è in fiore, pieno di vita; altre volte, invece, moribondo; ma ecco che nuovamente torna a vivere grazie alla natura paterna, anche se quello che si è procurato gli scorre immancabilmente via dalle mani. Non è mai povero, né ricco, né sapiente, né ignorante. Ama la sapienza, ma non è sapiente, perché è costretto a tendere ad essa senza possederla. Possiede una duplice natura, quella del padre ricco di risorse, e quella della madre continuamente sprovvista di tutto.
Eros e l’umana necessita’.
E’ la mirabile descrizione della condizione umana, una corda tesa tra il divino e la materia, la pienezza e il desiderio continuo, che ognuno di noi ha sperimentato quando si è innamorato di una persona, di un’idea, di un oggetto, tutti surrogati di un’insondabile nostalgia esistenziale che Assagioli ben conosceva e che citava nei suoi scritti e di cui teneva conto nella metodologia terapeutica. Dunque, continua Diotima, l’amore tende alle cose belle che sono anche buone, e quando ne entra in possesso rende l’uomo felice.
Ma non tutti amano le stesse cose e, allora perché, se il bello e buono è unico? Diotima chiarisce, con evidente riferimento per la conoscenza della psicologia attuale, alla storia personale che genera bisogni e dipendenze, che noi chiamiamo con il nome “amore” ogni tipo di particolare attaccamento o desideri,o scambiando una parte con il tutto, con una reiterata ed errata metonimia di pensiero, esattamente come l’artefice di un manufatto viene chiamato creatore. Lo scopo dell’amore è far rinascere nella bellezza sia il corpo che l’anima. Gli uomini, ad un certo punto della vita, sentono, per dirla in termini psicosintetici, che la loro esistenza fisica deve assumere una determinata valenza e dimensione, ispirata dall’anima che sospinge la generazione di questo progetto. Così la Bellezza che ne nasce è Moira, destino, inteso come vera destinazione, anima, essenza metafisica, seme personale, ed Ilizia, liberazione nel parto, attuazione concreta del progetto.
Per queste ragioni tutte le volte che un “essere gravido” si accosta a qualcosa di bello si sente bene nel corpo e nell’anima e si apre, partorisce, riproduce la vita e libera la creatura spirituale che è in sé, contagiando positivamente chi gli è vicino, ma anche coloro ai quali rivolge amorevolmente il suo pensiero.
Questa creazione è un prodotto eterno ed immortale, perché tassello imprescindibile nell’evoluzione dell’intera umanità, e va di pari passo con il desiderio di bene.
L’Amore, forza cosmica
Diotima fa notare che l’amore è una forza cosmica, che ha vari gradi e attraversa tutti i regni di natura. Ciò ben si può vedere nella smania che assale gli animali quando devono accoppiarsi, o quando anche i più deboli e soccombenti tra loro sfidano i più forti, o sopportano i morsi della fame e del freddo per difendere e far sussistere la prole, in un continuo anelito inconsapevole all’immortalità.
Concezione questa perfettamente sovrapponibile alle antichissime dottrine misteriosofiche, riprese anche dall’idealismo schellinghiano e confermate dalla scienza, che afferma che ogni forma di vita nel microcosmo come nel macrocosmo in questo nostro universo è possibile grazie alla legge di attrazione-repulsione tra polarità differenti.
E proprio la manifestazione dell’ energia d’amore segue tale legge che mette in rapporto un soggetto con qualsivoglia oggetto amato, a volte anche con conseguenze non piacevoli o preventivate, ma che ci fanno crescere come persona.
Le analogie con la biopsicosintesi
A questo punto si può cogliere un’altra analogia con la biopsicosintesi di Assagioli. Secondo questa teoria, né il livello corporeo né alcuno altro livello, anche apparentemente basso, dell’espressione umana, va ignorato o sottovalutato, ma che anzi può divenire un utile campo di lavoro per migliorarci ed elevarci.
La contemplazione del sommo bene
Il culmine della manifestazione dell’amore, però, conclude Diotima, avverrà quando, ben oltre ogni desiderio di bene e di bello per tutti gli uomini, si giungerà alla contemplazione del Sommo Bene in sé per sé, del Divino per il Divino, momento in cui l’uomo si spoglia della carne, dei colori dell’esistenza, di ogni riflesso materiale dell’amore per fondersi con l’Assoluto. E’ in questo momento che conquisterà la sua libertà, diventando per i posteri dispensatore di vera virtù, per dirla con Assagioli, quando la sua Volontà sarà diventata una con la Volontà universale. Forse da un’opera scritta oltre due millenni fa, come un dono degli dei che vogliono incoraggiare e supportare gli uomini nel loro faticoso e lungo viaggio di ritorno alle dimore celesti, può arrivare una risposta illuminante ed incoraggiante all’angoscioso interrogativo ben sintetizzato da Melville in “Dopo il festino di piacere”:
Quale cosmica burla o errore dell’Anarca ha spaccato l’essere umano integro e ne ha lanciato i frammenti attraverso la porta della vita?.
Anna Manfredi
da Opus Minimum



20 maggio 2012

- Opus Minimum - Solstizio d’Estate 2012 -


Solstizio d’Estate  2012


IL LABIRINTO, un segno, per la mente
un simbolo, per la psiche                                                          1
Stelio Calabresi

Il Flauto Magico                                                                        20
Giuseppe Rausa                 Conservatorio Nicolini, Piacenza

Juliette delle erbe                                                                     27
Fulvia Marino                                                             Redazione

A Napoli, la Tradizione Ermetica                                          34
Sigfrido Hobel                       R:.L:. Arcadia 1161 GOI, Napoli

Si diceva in giro che il Principe…                                         43
Paolo Aldo Rossi                                                             Airesis

Massoneria
e “Cristianesimo senza Cristo”                                    
           61
Lino Sacchi                   R:.L:. Pedemontana 696 GOI, Torino
Per Info

lab.ermetico.filosofico@gmail.com"












19 maggio 2012

- Brindisi: Gran Maestro Raffi (GOI), ferma condanna per il vile attentato. Inaccettabile morire davanti a una scuola



“Ferma condanna per un attentato vile e senza onore: il sangue dei giovani grida verità. Esprimiamo profondo dolore per la morte di Melissa e vicinanza forte alle sue compagne che stanno lottando per la vita. E' inaccettabile morire davanti a scuola, vittima di una violenza senza fine. Nei periodi bui si vuole colpire la cultura e i giovani che sono la voce della legalità”. Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, esprime il cordoglio dell'Obbedienza di Palazzo Giustiniani per il tragico attentato avvenuto questa mattina all'istituto professionale di Brindisi 'Morvillo-Falcone', costato la vita alla sedicenne Melissa Bassi. Sette i feriti, tre in prognosi riservata.

“Senza un briciolo di umanità, è stata colpita una scuola che porta avanti progetti di legalità e lotta alla mafia – sottolinea Raffi – noi siamo al fianco degli studenti e di tutti coloro che lottano ogni giorno sul territorio contro le organizzazioni criminali e la morte della speranza. Il Sud e la sue coscienze libere sono sono più forti dei mercanti di odio. Nessuno sforzo – conclude il Gran Maestro - deve essere risparmiato per individuare e punire i responsabili di questo crimine odioso”.

Roma, Villa il Vascello 19 maggio 2012

2 maggio 2012

- V:. I:. T:. R:. I:. O:. L:. un cardine dell’’esperienza massonica



Silenzio …; silenzio e penombra …; attorno a me contorni sfumati ed ineffabili di oggetti che proiettavano ombre tremolanti alla luce della candela che mi ardeva di fronte.
Ero solo, o almeno credevo di esserlo, tale la suggestione del momento, solo con le mie colpe, con i miei principi, con le mie paure più inconfessabili. Solo, in una stanza piena di richiami simbolici e di ammonimenti, alcuni chiari ed evidenti, altri arcani ed inquietanti. Fra tutti, quello che più stimolava la mia fantasia e la mia coscienza era la parola VITRIOL. D’un tratto provavo un pressante impulso, una sensazione curiosa, la necessità di abbandonarmi a stati d’animo sopiti da tempo.... Fin da bambino ero stato attratto ed al contempo piacevolmente spaventato dalla parola "vetriolo" tanto che più di una volta avevo consultato dizionari ed enciclopedie circa il significato di tale vocabolo. Vetriolo: caustico, acido solforico, dal latino medievale vitriòlum, derivato da vitrèus, "vitreo", era per gli antichi il nome generico che, in virtù del loro l'aspetto vetroso, indicava i vari solfati metallici. Lentamente scivolavo nella riminescenza di ricordi d'infanzia, un guazzabuglio di fugaci visioni ed emozioni: rivedevo il blu intenso dei cristalli di solfato di rame che mio nonno scioglieva per preparare la "poltiglia" per le viti.... l'acqua del secchio si colorava allora di un blu oltremare così meraviglioso che quasi mi perdevo a guardarlo...
Ora sono quasi sicuro che certe sensazioni, certe domande insistenti che ci portiamo dentro, certi "non so che" altro non sono che il ricordo di lontane emozioni, quasi obliate dalla memoria e di cui non rimane altro che un tenue sapore, ma che è possibile, con un pò di attenzione e pazienza, riportare alla luce, allo stesso modo in cui ci si serve di una corda per sollevare il secchio da un pozzo profondo. Ed era proprio quello che mi accorgevo di dover fare, scavare in me stesso utilizzando tutte le mie facoltà, ma neppure immaginavo quanto profondo effettivamente fosse il pozzo e quanto sarei dovuto risalire indietro nel tempo.... Comunque è un lavoro che ha occupato buona parte delle settimane che hanno seguito la mia iniziazione e che incessantemente continua ogni giorno ancora oggi, tenendo ben presenti le riflessioni di O. M. Aïvanhov (Il lavoro alchemico ovvero la ricerca della perfezione): "Non bisogna lottare contro le debolezze e i vizi. Che si tratti di gelosia, di collera, di cupidigia, di vanità, occorre mobilitarli affinché operino nella direzione voluta. Se è naturale utilizzare le energie della natura, perché meravigliarsi quando si tratta di utilizzare certe energie primitive che sono in noi? La conoscenza delle regole dell’alchimia spirituale consente di saper tra-sformare e utilizzare tutte le forze negative". L'acrostico V.I.T.R.I.O.L. è emblematico delle finalità dell'alchimista:"Visita Interiora Terrae, Rectificando, Invenies Occultum Lapidem”. L'invito, rivolto alla terra interiore di ciascuno, è il seguente: "Visita l'interno della Terra e, rettificando, troverai la pietra nascosta". È una parola derivata direttamente dall’insieme degli insegnamenti, dei suggerimenti e delle proposte operative, oltre che dalle speculazioni alle stesse connesse, che nel corso della storia sono state tradizionalmente trasmesse, e a noi giunte sotto il nome di Alchimia. Da ciò risulta evidente che il riferimento a tale termine comporta il riferirsi ad uno dei materiali con i quali gli operatori, in generale e genericamente detti Alchimisti, tendevano a realizzare la trasformazione del piombo, o comunque di una materia vile e di scarso valore, in oro, il compiuto raggiungimento del fine ricercato. Nella parete nord del gabinetto di riflessione, laddove è tenebra ed abisso, in alto, appunto la prima parola è V.I.T.R.I.O.L. Ed è da tale parola che il recipiendiario parte per portare a termine il suo primo viaggio, quello riguardante la Terra, viaggio da compiersi fuori dal Tempio massonico, decisamente presupposto per l’iniziazione. Insieme con la parola V.I.T.R.I.O.L sulla parete nord sono stampati segni ed ammonimenti che riguardano l’iniziando neofita al fine della sua tutela ed al tempo stesso delle condizioni per il possibile compimento del viaggio. E da ciò si può già subito notare che mentre la parola V.I.T.R.I.O.L detta un comportamento di carattere generalizzato, la stessa è anteposta, come direttiva di carattere generale ad ogni altro singolo invito ed ammonimento. La tradizione riguardante gli insegnamenti alchemici, a volte non soltanto alternativamente, ma addirittura congiuntamente, ci presenta la stessa anche nella sua forma enneadale, composta di nove lettere, che dicono, piuttosto che V.I.T.R.I.O.L, V.I.T.R.I.O.L.U.M.. E si potrà aggiungere anche che il punteggiare la parola è soltanto un vezzo teso al massimo a far si che si tenga nel dovuto conto l’importanza del numero sette. Il significato che di solito si attribuisce alla frase è quello, in termini di latino classico, di “Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem” con l’aggiunta dei termini “veram medicinam”, nel caso della parola composta di nove lettere. Già da una prima lettura di tale parola-frase possiamo bene intendere che, mentre per un verso si vuole comunicare un insegnamento ed un significato consequenziale utile a chi lo stesso riceve, quale percorso ed operazione da compiere per il ritrovamento di una soluzione delle problematiche che hanno spinto l’iniziando stesso a richiedere l’iniziazione muratoria, per l’altro la parola stessa contiene in sé – oltre al senso letterale della frase già palesato – anche qualcosa di più del semplice invito operativo che viene solennemente fatto. Incuriosisce l’osservatore attento, innanzi tutto il senso della frase e il significato da dare al contenuto della stessa, da attualizzarsi sui diversi possibili piani operativi, ma quel che ancor più incuriosisce è il fatto che il suo senso apparente costituisce un risultato che dovrebbe ritenersi compiuto una volta effettuato il viaggio nella Terra, risultato che invece resta come un ammonimento che sollecita l’iniziando a ripetere di continuo l’operazione, prima ancora che a lui vengano resi noti i modi per operare. Si esalta l’operazione ponendola per la sua esplicita evidenziazione come comandamento e comportamento essenziale di carattere generale da tenersi sempre presente e da attuare comunque. La frase è stata interpretata, dopo opportuna modifica, anche in tal senso: “Visita interiora tua, rectificando ……”, intendendosi con ciò dare alla stessa il significato di un lavoro puramente introspettivo, quasi sostitutivo di quello che un paziente compie con l’aiuto del proprio psicanalista. Il significato della parola V.I.T.R.I.O.L (ed ancor più quello di V.I.T.R.I.O.L.U.M), è ben altro, ben più impegnativo e risolutivo dei problemi dell’individuo, di quello pure importante or ora ricordato, significato ovviamente anche quest’ultimo non escluso dal lavoro che l’iniziando dovrà portare a compimento. In realtà la ricerca dell’effettivo significato della frase, e la proposta primaria di attenzione da prestarsi a tale termine, costituiscono la conferma dell’operazione che sostanzialmente la massoneria con l’iniziazione e la proposta dei simboli, lo svolgimento dei rituali e la partecipazione al collettivo, chiede all’iniziando di compiere; proposta che è poi quella che costituisce la vera prima prova da superare. L’insegnamento vuole che l’iniziando sia consapevole, desto, non rinchiuso, né condizionato da e in soluzioni banali, scontate o dogmatiche delle tematiche che la realtà a lui propone. A tal fine lo stimola e lo mette, già con questa prima parola, alla prova, palesando apparenti contraddizioni di significato, di terminologie e di situazioni che esigono invece una soluzione del tutto giustificante ogni possibile dubbio e domanda. Soluzioni che vogliono appunto l’adozione della massima attenzione e l’esecuzione di una effettiva indagine con l’attivizzazione piena delle facoltà presenti nell’individuo, del pensare, del riflettere, meditare, coordinare e trarre conclusioni.
Per chi voglia effettivamente lavorare e comprendere, è mia opinione che innanzitutto ci sia da domandarsi in cosa consiste in effetti l’operazione del “visitare”. Si tratta, forse, di un visitare pensandosi? Oppure si tratta di un continuo sperimentarsi ed al tempo stesso di un osservare gli effetti del nostro comportamento? E non si tratta forse ed invece di prendere puramente atto, in termini di visione e presa di coscienza, in stati di obbiettiva presenza a noi stessi nell’esame – che dovremo necessariamente fare – dei nostri modi di essere, delle nostre qualità nell’agire, dei nostri sentimenti – quelli che accompagnano e producono effetti derivanti dalle azioni compiute – e non anche invece di una introspettiva indagine sui perché che hanno sollecitato tutte le realtà già ricordate nel nostro essere, in un modo o nell’altro qualificatesi con riferimento al sociale, al singolo individuo e alla natura? Visitare, cioè, significa soltanto prendere atto? O invece significa procedere a scoprire anche e soprattutto i luoghi nascosti ed occultati della nostra realtà? Come possiamo ben vedere “visitare” non è certo compito da poco, solo che non ci si limiti superficialmente a intendere la dimensione della operazione proposta. Il visitare comporta una presenza. Non un semplice pensare o intervento mentale, ma la partecipazione dell'interezza della persona. Una presenza fisica con un’intensa motivazione nella ricerca. Una volontà che ci fa procedere ed una mente che discerne. Il visitare significa anche assumere un atteggiamento dinamico, bandendo la staticità; significa procedere al fine di osservare, analizzare, scegliere determinati percorsi ed avanzare per raggiungere il fine che ci siamo proposti. Ma qual' è l'oggetto della visitazione? Verso quale posto ci muoveremo? Il luogo viene indicato quale l'interno della terra. Badiamo bene, non la superficie, ma la parte più nascosta e non visibile ordinariamente. Dei quattro elementi: aria, acqua, fuoco e terra, viene indicato quest'ultimo, il più materiale. Nel microcosmo umano, il corpo fisico, con la sua materialità, viene associato all'elemento terra. Ne consegue che la ricerca deve essere orientata all'interno dell'Uomo quale corporeità. Ma visitare l'interno della terra presenta una grande pericolosità, perché ci si orienta verso un mondo sconosciuto, immergendoci nel quale possiamo perderci nella nostra totalità od avere l'immensa ricompensa, nostra mira nell'intraprendere il periglioso viaggio. Lo scopo della ricerca viene indicato come il ritrovamento della pietra occulta, cioè nascosta. E’ una pietra misteriosa e di estrema preziosità. Una pietra che possiede immensi poteri e che essenzialmente permette quella trasmutazione dell'essere che giustifica il completo dedicarsi alla sua ricerca. Una pietra che viene ad essere qualificata "filosofica", perché nota ai "filosofi", e, dopo opportune lavorazioni o "rettifiche", diventa "filosofale", con il potere di trasmutare i metalli vili in oro e capace di dare l'immortalità. Il simbolismo ancora ci soccorre e ci indica che quando l'uomo ha realizzato l'illuminazione, l'occhio spirituale gli permette di rendere aureo ciò per gli altri è di poco valore, in quanto non hanno attivato quella capacità di penetrazione delle cose; capacità che rimane in loro potenziale, quale possibilità cioè non realizzata. La giusta visione delle cose porta come conseguenza la scelta dell'unico, vero sentiero che ci dà il dono dell'immortalità nel divino. Ma questa è solo una delle ipotesi, infatti: per quale ragione la frase parla espressamente di “Interiora Terrae” ? Cosa si intende effettivamente per “Terrae”? Soltanto il proprio interiore psichico? Così come sembrerebbe essere se adottassimo per vera la formulazione sopra ricordata che sostituisce al termine “interiora Terrae” quello di “interiora Tua”? Certo non possiamo negare che la frase fa espresso riferimento proprio all’interno della Terra, e non all’interno, alle interiora, di ogni singolo individuo. E non potrebbe darsi che la frase voglia proprio significare l’interno della terra? Da intendersi questa, ovviamente, non quale oggetto del lavoro dello speleologo ricercatore, il quale al massimo penetra in una limitatissima parte di quella che è la piccolissima realtà della crosta terrestre. Che, se fosse vera tale ipotesi – salvo intendersi sul significato del termine terra – ben si comprenderebbe come tale sia l’invito proposto, piuttosto che la formulazione di un invito nei noti termini del comando che dice “conosci te stesso”. E pur se forse possiamo ipotizzare quasi con certezza che non vi sia per nulla contrasto tra l’operazione del “conoscere se stessi” e quella del “visitare le interiora della terra”, dobbiamo altresì ammettere che una ragione decisamente importante vi deve essere stata allorché si è trascurato un motto del tutto nobilitato – in quanto iscritto sul frontone del tempio di Delfi – e fatto proprio da Socrate e da tutta la filosofia occidentale, e si è invece adottato un acrostico di significato apparentemente uguale proveniente dall’Alchimia per veicolare con le parole V.I.T.R.I.O.L o V.I.T.R.I.O.L.U.M la stessa concettualità e lo stesso impegno da perseguire. Ovviamente la Terra non può di certo intendersi come il coacervo dei silicati, dei carbonati, dei metalli puri ed impuri, che si appalesano ai nostri sensi e che costituiscono la cosiddetta crosta terrestre, avuto riguardo allo stato di coscienza da noi vissuto nella condizione limite nella quale attualmente siamo collocati. E non può neanche intendersi come quel fuoco centrale che la scienza ci dice essere attivo nel nucleo del pianeta, così come lo stesso ci si mostra. Sarebbe come credere, e pensare, che la prigione nella quale siamo rinchiusi e la condanna a morte che ci è stata irrogata sin dal nostro nascere, sia costituita dalle mura e dalle sbarre della prigione materiale stessa nella quale apparentemente siamo rinchiusi, e dalla sentenza che riteniamo che qualcuno abbia emesso nei nostri confronti. La terra deve essere qualcosa di più e qualcosa di diverso, così come la prigione deve essere qualcosa di diverso dalle mura che sembrano rinchiuderci, e come la sentenza a sua volta deve riguardare una situazione del tutto diversa da quella presupposta dalla presunta formale irrogazione della condanna. Se solo ci soffermassimo a riflettere sulla prima parte di questo invito ed attentamente considerassimo il suo senso più intimo, di certo qualcosa comprenderemmo di più di quanto normalmente siamo portati a comprendere; ed è altresì certo che sapremmo anche bene intendere il lavoro che dovrebbe essere portato a termine da ciascuno di noi. Non dovremo adottare perciò, a questo punto, soluzioni semplicistiche e banali, penetrando nel senso più profondo del significato che l’invito comporta. Secondo altre ipotesi interpretative il lavoro di conoscenza ed approfondimento andrebbe traslato nella mitologia greca classica. Infatti nell’antico mito greco la terra era denominata Hera, da identificarsi nella Madre dei Viventi; altri – con concettualità analoga – hanno denominato Hera, la madre degli Heroi, Iside, Madre di Oro, sorella e sposa di Osiride, vedova del consorte ucciso dal fratello Tifone. Per i massoni, figli della Vedova, tale mito potrebbe ben essere una opportuna segnalazione, volta al fine di almeno tentare di comprendere il senso della frase proposta alla loro attenzione! La Terra potrebbe essere, alla luce delle considerazioni sinora svolte, appunto quella Hera, od Iside velata, che deve essere conosciuta – ed in tal modo scoperta – perché la coscienza di chi la ritrova possa pervenire allo stato di figlio cosciente e cioè nella condizione del figlio generato da Osiride, il nome del quale è Oro. L’importanza decisiva della frase, contenuta nell’acrostico V.I.T.R.I.O.L consiste proprio in questo: e cioè che viene dato per vero che l’iniziando ha in se la potenzialità e la capacità di attuare un simile percorso ricognitivo e di svelamento, percorso che lo porterà a ritrovare la fonte della sua essenzialità, la fonte della vita, evadendo in tal modo dalla prigione nella quale è convinto di essere rinchiuso e fuggendo alla condanna alla quale ha egli stesso acconsentito per aver dimenticato la sua origine divina. Il Percorso che viene quindi indicato è perciò il percorso riservato agli Heroi, ai figli di Hera. Tale iter da compiere passa necessariamente, e si attua, non con la materialità, non con la psichicità, e neppure con l’intelligenza piatta e banale, ma piuttosto con quell’elemento centrale e costituente l’essenza dell’essere, quell’elemento che si è soliti denominare lo Spirito, il quale pure si assume esser presente nell’uomo come riflesso di un fuoco centrale presente nella manifestazione, che nell’individuo sembra manifestarsi, se ricercato, in atto, quale intelligenza superiore. La Terra è in realtà l’idea dell’idea e la stessa è conoscibile e percepibile se specchiandosi in essa, dopo averla ricercata, l’essere umano ridesta la sua primigenia Qualità. A questo punto si potrà accettare che menti che cominciano a risvegliarsi, contestino il metodo adottato del ricorso ad immagini mitiche, per indicare in cosa consista la terra e in cosa consista l’idea dell’idea. Qualcuno potrà dire che è troppo facile mostrare la Terra in una proiezione d’immagine diversa da quella che usualmente è intesa e poi senza spiegare in concreto in che consista effettivamente la Terra, identificarla additandola come meta da raggiungere in una Iside che alla fin fine se non riportata in termini di concettualità ad immagini conosciute, resta comunque velata. E se tale critica venisse effettivamente sollevata da chi è ormai interessato al tema, dapprima perché incuriosito dalle anomalie e perché di poi preso dalla tematica, non si potrà che rispondere a chi ripropone in tali termini i quesiti originari, che effettivamente la critica sembra aver giustificazione e fondamento. Ma, prima di rispondere all’obiezione, c’è da domandare all’interrogante se non sia già un fatto trasmutatorio l’essersi posto nei confronti di una prospettazione del genere di quella effettuata, in termini critici, un principio di approfondimento serio del tema, e se tale suo atteggiamento non consista già in un inizio di viaggio e al tempo stesso in una trasformazione. Il porre la domanda può lasciar sperare in una risposta; ed anzi, secondo i kabbalisti, nella domanda rettamente posta, è già implicita la dovuta ed ineluttabile risposta.
In ogni caso il porre la domanda è già il conquistare, per chi la pone, uno status diverso dal precedente. In alchimia si suole indicare tale atteggiamento, quello appunto dello sgombrare l’insieme delle possibili ipotesi da quelle inutili, banali e non concludenti, l’atteggiamento di chi criticamente, mentre tenta di comprendere la dimensione delle tematiche, scarta le prime soluzioni ovvie e banali, l’operazione “del depurare della feccia” la materia prima. Questa operazione ovviamente segue a quella che la precede che è l’operazione della “putrefazione”, operazione che però l’iniziando è già naturalmente venuto facendo ed effettuando nella vita di ogni giorno, tanto che giunta la putrefazione alla sua piena maturazione, ha deciso di morire a tale stato e volendo l’iniziazione, si è apprestato a compiere senza esserne consapevole appieno, quel viaggio che nel gabinetto di riflessione gli viene consigliato. Il depurare la materia prima dalla “feccia” è – come ognuna delle operazioni dell’opera – un momento necessario ed importante del viaggio che abbiamo iniziato. Nella stessa ci si può soffermare, nonostante ogni nostro desiderio umano (anzi forse a causa proprio del nostro desiderare) molto a lungo... anche per anni, prima di avere dinnanzi a noi chiaro, ormai depurato, pulito e sgomberato da ogni lutulenza e fecciosità, il vero oggetto e la vera materia dell’opera. L’indicare soltanto l’obbligo del viaggio con il proporre la parola V.I.T.R.I.O.L. senza fornire ulteriori indicazioni a chi anela al superamento dello stato di marcescenza e di putrescenza, di dubbio e di oscurità, di disarmonia e di mancanza di luce nel quale si trova, non è esercizio sadico di chi si compiace di destare o ridestare un fuoco sopito, per poi lasciare insoddisfatto il ricercatore o il questuante. Il passare per tappe di tal genere è operazione che rende puro l’ambiente, permettendo l’identificazione del materiale sul quale lavorare. E l’ambiente, è indubbio, è costituito dallo status interiore dell’operatore il quale, impegnato con volontà (e non testardaggine), continua e sempre insiste, soffrendo il patos del travaglio, necessariamente abbandonando, nel corso del travaglio stesso, le scorie che impediscono la presa di coscienza dell’oggetto per il quale il percorso si svolge e che, compreso, diverrà la pietra da rettificare. Lasciare i metalli significa appunto questo. E a tale operazione di lasciare i metalli si da seguito ancor prima dell’entrata nel Tempio, anche se ciò avviene in termini ancora di inconsapevolezza del significato dell’operazione che si compie: la stessa continua anche dopo l’iniziazione e comunque deve essere ricompiuta e riattualizzata ogni qualvolta si lavora nel Tempio. Il viaggio consiste almeno nella prima fase, appunto in ciò, nel render puri il corpo, la psiche, l’anima e la mente al fine di cominciare a comprendere l’oggetto vero della ricerca. In tal modo la Terra diviene con linguaggio alchemico, da fecciosa e lutulenta, una terra “alba”, cioè chiara, lucente. È ben vero che nella ricerca la tradizione provoca chi ha ormai iniziato a compiere il viaggio, dapprima stupendolo, poi incuriosendolo, poi rafforzando l’intenzione originaria tesa a far sì che sempre più, l’ambiente (che è stato precisato essere ambiente interiore ed esteriore) divenga pulito e perfetto; il che detto in altro modo è il sollecitare al compiere l’operazione di sgrossare la pietra grezza. E a volte la tradizione si lascia sfuggire – pur mantenendo il dubbio in termini di proposta ipotetica – che la materia, cioè la Terra da visitare, sia appunto l’idea dell’idea. Ma sarà veramente da intendere la terra in tal senso? O non sarà invece ipotizzabile che la Terra, termine certo dell’invito formulato, non consista in realtà in null’altro se non in quelle che potremmo chiamare le strutture del Reale, la conoscenza effettiva delle quali potrebbe essere il compito da portare a termine? Ed in effetti la perfetta conoscenza della sostanzialità della Terra Madre è un fatto che – ben lo si intuisce – una volta che sia stato realizzato, è liberatorio dalle condizioni di ignoranza che lo hanno preceduto, e quindi dai dubbi, dalle incertezze, dalle ombre e dal buio nelle quali il ricercatore si trovava, ed è quindi al tempo stesso un fatto trasmutante, trasformatore dello status nel quale il protagonista della ricerca si era fino a quel punto venuto a trovare. Conoscere non consiste soltanto in un prendere atto, in un acquisire dati o elementi; ma piuttosto è, e consiste, in termini qualitativi in un trasformarsi della coscienza del conoscitore, ed in termini quantitativi in un accrescersi in estensione ed in profondità degli spazi angusti allo stesso originariamente concessi. Con il conoscere, la prigione nella quale il condannato è rinchiuso, allarga le sue mura e, soprattutto, fatto questo connesso ma ancor più importante, lo stesso dapprima vagamente e poi sempre più con sapevolmente intuisce e comprende il perché della condanna. Per il che può accadere che a volte adotti soluzioni immediate nel corso delle operazioni che va svolgendo, di carattere teologico-speculativo a giustificazione della stessa, e a volte faccia scelte, sia pur qualificate, di tipo religioso per la soluzione finale del problema che si è proposto, che è poi quello del ritrovamento della sua – forse persa? Ma chi lo saprà mai? – Libertà! Ed è anche certo che la conoscenza dell’Opera rende partecipi dell’opera compiuta, e che chi conosce appieno l’opera, i modi e i termini nei quali la stessa è stata e viene realizzata, è simile al suo Autore, all’Architetto che l’ha portata e che, ogni giorno che il Sole sorge all’orizzonte, la porta a termine! Ed è anche certo che la piena conoscenza del vero, la Verità, sarà quella appunto – come ha detto il Maestro – quella che ci farà liberi! L’opera del visitare l’interno della Terra consiste appunto in ciò: mondato e purificato l’ambiente (e cioè il ricercatore, colui che compie la cerca), individuare dapprima l’IDEA, e, dopo aver rettificato il nostro abituale modo di intendere il Reale, penetrare nel CENTRO DELL’IDEA, perché si possa comprendere e partecipare insieme con l’Architetto, che scopriremo esser nostro Padre, del piano che ci risulterà svelato, costruttivo dei Mondi e della Vita. Effettuata la prima parte del viaggio, realizzata con la scelta del volere che si accinge ad operare e con la mondatura e la purificazione dell’ambiente, giunti nel luogo laddove è presente l’IDEA – la quale alimenta se stessa con l’alimentare a sua volta le strutture che le danno forma – resta certo che per accedere al Centro dell’Idea è indispensabile compiere e portare a termine l’operazione del rettificare. La stessa è davvero una operazione decisamente impegnata, difficile da compiersi e soggetta sempre ad essere inficiata da possibili errori e ricadute nel vecchio ed abituale modo di agire, sentire e, soprattutto, pensare. Il rettificare non consiste necessariamente in una catarsi dei sentimenti che hanno caratterizzato l’anima del ricercatore, o in un agire diverso da quello da sempre tenuto – pur se il capovolgimento dei valori e quindi del conseguente sentire ed agire, non è escluso. Forse è più adeguato il termine di “metanoia” al fine dell’intendere in cosa consista il “rettificare”; in quanto etimologicamente analizzato, lo stesso termine ci indica un capovolgimento della mente e dell’intendere che implica, in parte, un andare al di là della mente stessa. Il rettificare, operazione che apre la porta che da accesso al centro dell’Idea, consiste in un diverso pensare e in un diverso comprendere, consiste nell’accedere – come direbbero i kabbalisti – a DAATH, la Conoscenza, la Sefirà incognita posta tra HOCMAH, l’Intelligenza, e BINAH, la Sapienza.
L’Alchimia, diceva Artefio, un grande alchimista, ripetendolo nei suoi scritti e ai suoi discepoli, è “un’arte cabalistica” e non arte di fornelli e di alambicchi, oppure arte fatta soltanto di azioni moralmente rette ed eticamente buone. Con la Parola V.I.T.R.I.O.L. la Tradizione, e con la stessa come al solito saggiamente la Massoneria, ci trasmette pertanto, e non soltanto, il senso e il significato della dovuta e mai soddisfatta ricerca da parte dell’UOMO, del Vero, del Bello e del Giusto, ma anche ci porta a conoscere la Materia prima dell’Opera e l’essenziale strumento operativo per la realizzazione della stessa. Se la scienza moderna, ricca di tanti orpelli ed anche di importanti risultati, appiattita sull’orizzontale dell’utile da conseguire e dei vantaggi da ricavare e far ricavare in funzione del predominante dominatore degli interessi umani, il danaro, comprendesse il senso e il significato dell’insegnamento che con tale termine viene trasmesso, ben altre sarebbero le attuali vicende dell’Umanità! Le spade sarebbero trasformate in vomeri e il leone pascolerebbe con l’agnello, perché la Scienza divenuta Co – Scienza, sarebbe salita verso l’Alto e nell’Interiore attingendo il suo ritrovare alla Conoscenza Suprema.
A. R.