2 settembre 2012

- Giacomo de Molay, vita e morte di un templare





Il 13 ottobre, giorno per sempre funesto, ricorre l’anniversario dell’arresto dei Templari in Francia nel lontano anno 1307. Da questa vicenda emerge severa e maestosa la figura di Giacomo de Molay, consegnato alla storia, alla leggenda e al mito come simbolo imperituro delle migliori tradizioni della cavalleria templare. Sappiamo ben poco di Giacomo de Molay prima della sua nomina a Gran Maestro dell’Ordine del Tempio. Egli nasce probabilmente tra il 1244 e il 1245 in Borgogna da una nobile famiglia ed entra nell’Ordine all’età di 18- 20 anni: infatti dichiara, nel corso dell’interrogatorio immediatamente successivo all’arresto, di essere nell’Ordine da circa quarantadue anni, anche se dirà la stessa cosa l’anno successivo, durante l’interrogatorio di Chinon. Venne iniziato al Tempio nella commanderia di Baume, diocesi di Autun da Huber de Pairraud, Visitatore di Francia, alla presenza di Amaury de La Roche Gran commendatore della Terra Santa. Questa circostanza fa sorgere un primo interrogativo: perché personaggi così importanti si recano in una modesta commanderia per iniziare al Tempio un qualsiasi giovane Cavaliere? Il fatto è del tutto inusitato e strano, ma vedremo che è forse possibile intravedere una convincente risposta. Dalle tracce storiche si evince che con ogni probabilità De Molay si recò in Oriente nel 1270- 71, circa cinque anni dopo essere entrato nell’Ordine e questo ci induce a formulare una seconda domanda: come mai fu inviato in Palestina così tardi, in un periodo in cui la necessità di combattenti in Terra Santa era altissima? Nel 1273 diventa Gran Maestro dell’Ordine Guglielmo di Beaujeu e sembra che il pur giovane De Molay si trovi già al suo fianco come consigliere. Sembra dunque che questo Cavaliere fosse indirizzato, fin dagli inizi, ad una folgorante carriera e la risposta alla nostra prima domanda è forse proprio questa: Giacomo de Molay era probabilmente già destinato a ricoprire un ruolo importante nella struttura dell’Ordine per conto dei duchi di Borgogna i quali desideravano avere un uomo del loro entourage nei vertici decisionali del Tempio. Nel 1291, nonostante la disperata difesa e l’eroica resistenza dei Templari, Acri fu conquistata dai musulmani e questo segnò la fine della presenza cristiana in Terra Santa. I Templari abbandonarono le poche roccaforti che ancora presidiavano e il 14 agosto evacuarono anche l’ultimo presidio, l’invitta fortezza di Castel Pellegrino ritirandosi a Cipro sotto la guida di Tommaso Gaudin che era stato eletto gran maestro in sostituzione di Guglielmo di Beaujeu, morto eroicamente nel corso della difesa di Acri. Gaudin sarebbe morto dopo soli due anni aprendo così la strada alla elezione di Giacomo de Molay a Gran Maestro dell’Ordine. Da qui ha inizio non solo la storia forse meglio conosciuta dell’Ordine del Tempio e del suo ultimo Gran Maestro, ma anche la vicenda che condurrà il Tempio alla rovina.
Nel corso del Capitolo che elesse Giacomo de Molay vi fu anche un secondo aspirante alla prestigiosa carica: Hugues de Pairraud, sostenuto dal re di Francia Filippo IV il Bello. Non solo il confronto tra i due contendenti fu particolarmente aspro, ma per la prima volta, nella sua storia, nell’Ordine si verificò una profonda frattura che sarebbe poi stata foriera di funeste conseguenze. In quell’occasione, dunque, un consistente numero di Cavalieri si rifiutò di riconoscere Giacomo de Molay come legittimo gran maestro e solo l’energico intervento di papa Bonifacio VIII riuscì faticosamente a ricomporre la spaccatura, ma la ritrovata unità ebbe un prezzo tale da incrinare irrimediabilmente la compattezza e la solidità dell’Ordine. Fu indubbiamente questo che consentì alla casa reale di Francia di realizzare con maggior facilità il progetto di aggredire il Tempio e distruggerlo. A Pairraud vennero infatti conferiti poteri più ampi di quelli che normalmente aveva il Visitatore di Francia: in realtà egli divenne una sorta di Gran Maestro, in parte autonomo, con una giurisdizione assai ampia sui territori di Francia. Pairraud abusò largamente dei poteri che gli erano stati conferiti, tentando di affermare la preminenza della sua autorità rispetto a quella del Gran Maestro sul suolo francese e inoltre si prestò alla strategia di Filippo il Bello il quale aveva concepito di creare un autonomo Ordine Templare di Francia, cosa che per la verità in qualche misura già si registrava nei regni di Portogallo e di Aragona. Pairraud, probabilmente per ambizione, divenne la quinta colonna della corona francese all’interno del Tempio e quindi senza ombra di dubbio fu un traditore. Quando poi si rese conto di ciò che stava accadendo e del danno che il suo operato stava procurando, tentò inutilmente di tornare sui suoi passi, ma fu sdegnosamente respinto da Giacomo de Molay. Per giunta Pairraud pagò assai cara la sua politica e la fedeltà alla corona francese, perché anche da Filippo il Bello, per il suo tardivo ravvedimento, fu ritenuto un traditore e finì condannato al carcere a vita. Per parte sua Giacomo De Molay fu sempre, per tutta la vita e in ogni circostanza, un autentico Templare e non abbandonò mai, nella maniera più rigida e intransigente, la missione che costituiva la ragion d’essere dell’Ordine del Tempio: la difesa della Terra Santa. Da Cipro tentò ancora caparbiamente di riconquistare i luoghi santi e riuscì perfino a riprendere, per un breve periodo, Gerusalemme. Nel 1299 i Templari, con alcuni contingenti di ospedalieri, truppe del re di Cipro e di Armenia, alleandosi con i mongoli di Kazan Kan penetrarono nella Città Santa, ma il governatore turco a cui era stata affidata la riconsegnò poi nuovamente ai musulmani.
A quel tempo, poi, i Templari inoltre stabilirono una base sull’isolotto di Ruad, per altro del tutto privo di acqua, ma che aveva il vantaggio di essere situato molto vicino alla costa libanese, e da qui lanciarono continue incursioni contro il territorio islamico. Esasperato da questa azione di disturbo il sultano, nel 1303, attaccò l’isola in forze e ne scacciò i Templari che pagarono un alto tributo di sangue: circa 250 cavalieri morirono e altri 120 vennero fatti prigionieri. De Molay, che prese parti ai furiosi combattimenti, riuscì a mettersi in salvo con pochi altri Cavalieri. Intanto, nel 1305, i Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni o Ospedalieri che dir si voglia, si apprestavano a invadere Rodi ed è poco noto che De Molay aiutò l’Ordine Ospedaliero in questa circostanza inviando anch’egli un contingente militare a conquistare l’isola. Alla morte di Benedetto XI, successore di Bonifacio VIII, salì al soglio pontifico, con il sostegno determinante del re di Francia, il cardinale Bertrand de Got che assunse il nome di Clemente V. Le cronache del Villani riportano che il re di Francia pretese cinque promesse dal cardinale per garantirgli il suo appoggio e che una di queste era proprio la soppressione dell’Ordine del Tempio. La cerimonia di incoronazione del nuovo papa si svolse sotto i peggiori auspici e, mentre il corteo sfilava, un tratto di muro crollò uccidendo l’uomo che era a fianco del pontefice mentre la tiara rovinava nella polvere perdendo una delle sue preziose gemme. A lungo la storia ci ha dipinto questo papa come imbelle e succube di Filippo il Bello, ma avremo modo di verificare che questo non è affatto vero e che molti autori recenti rivalutano giustamente la sua figura. Clemente V era un raffinato giurista e un abile diplomatico, non immune dai consueti difetti dei papi del suo tempo, compresa l’amante e uno sfrenato nepotismo. A livello di curiosità riportiamo che si deve a lui la raccolta di leggi canoniche che va sotto il nome di Clementine e la fondazione dell’università di Perugia. L’altro protagonista dell’ultimo scorcio di vita dell’Ordine templare è Filippo il Bello, giustamente considerato il fondatore dello stato laico moderno. Era un pragmatico, dall’espressione impenetrabile, cinico e calcolatore che, circondatosi di uomini di legge, tentava di costruire una monarchia dai forti poteri accentrati. La necessaria burocrazia e le continue guerre creavano enormi difficoltà finanziarie a questo re senza scrupoli il quale ricorse a ogni mezzo per reperire le risorse necessarie. Filippo arrivò ad espellere gli ebrei impossessandosi dei loro beni e analoga manovra la ripetè nei confronti dei banchieri italiani; operò la tosatura della moneta e la svalutò più volte, fino a quando si arrivò alla spontanea rivolta del popolo esasperato al quale egli riuscì a sfuggire solo rifugiandosi dentro le sicure torri del Tempio di Parigi.
Filippo il Bello era perfettamente consapevole che, tra le proprietà e il potere della Chiesa, quelle dell’Ordine di S. Giovanni e di altre analoghe istituzioni e soprattutto dei Templari, il suo progetto politico aveva scarse possibilità di poter essere compiutamente attuato. Non potendo apertamente aggredire la Chiesa senza correre gravi rischi, Filippo cominciò allora con l’estromettere gran parte degli ecclesiastici dall’amministrazione del regno, istituì gli Stati Generali e tentò in ogni modo di conseguire un’egemonia sull’Ordine del Tempio. Vale la pena di ricordare che Filippo il Bello ebbe una contesa asprissima con Bonifacio VIII, e che il suo emissario, Philippe de Nogaret, fu l’uomo del famoso episodio dello schiaffo di Anagni oltre che il grande regista dell’operazione che doveva condurre alla distruzione dell’Ordine del Tempio. Filippo il Bello, andato a vuoto il tentativo di porre un uomo di sua fiducia alla guida dell’Ordine nella persona di Pairraud, chiese di esser ammesso nel Tempio egli stesso in qualità di Cavaliere Onorario, dignità concessa in precedenza solo a papa Innocenzo III, ma ottenne un secco rifiuto. Successivamente tentò allora la strada della fusione dei due Ordini, quello templare e quello ospedaliero proponendo di mettere a capo di questa nuova compagine suo figlio. In realtà l’idea della fusione non era nuova ed era stata discussa e perfino decisa nel corso del concilio di Lione del 1295. Quanto all’idea di un Rex bellator anche questa era stata sollevata dal famoso Raimondo Lullo e sostenuta da Carlo D’Angiò. Nelle argomentazioni della corona di Francia questa ultima soluzione era l’unica che avrebbe potuto veramente concretizzare una nuova spedizione crociata con buone possibilità di successo. Alla fine del 1306 Clemente V convocò a Poitiers i maestri del Tempio e dell’Ospedale per discutere il progetto di una nuova crociata invitandoli a produrre sull’argomento un memoriale. Giacomo de Molay rientrò allora in Francia attraversando il paese alla testa di uno sfarzoso corteo composto da sessanta cavalieri oltre ad armigeri e paggi orientali, ostentando armature preziose e scintillanti e soprattutto dodici cavalli carichi d’oro e d’argento. Indubbiamente il vecchio Cavaliere voleva dimostrare che il Tempio era ancora vivo e potente, ma fu purtroppo una mossa del tutto sbagliata. Se gli occhi di Filippo il Bello si riempirono di cupidigia, quelli del popolo si colmarono di riprovazione davanti a tanta ricchezza ostentata da un esercito sconfitto ed al quale veniva addebitata la perdita della Terra Santa. Non si è mai trovata una ragionevole spiegazione sul perché Giacomo de Molay abbia trasportato in Francia anche le ricchezze d’Oriente e concentrato praticamente l’intero vertice del Tempio a Parigi. Personalmente ritengo che si trattò di un messaggio diretto a Pairraud perché avesse chiaro chi fosse veramente il capo dell’Ordine. Pairraud infatti, in totale dispregio della regola, era arrivato perfino a concedere al re di Francia un enorme prestito. A questo episodio De Molay reagì duramente destituendo dal suo incarico Jean de La Tour, il tesoriere del Tempio e ignorando a lungo le richieste del papa di perdonarlo e reintegrarlo. De Molay ebbe con Filippo il Bello alcuni incontri tempestosi, anche perché sapeva con certezza che agitatori prezzolati al soldo di Philippe de Nogaret diffondevano tra il popolo di Parigi notizie infamanti sul conto dell’Ordine. Nel memoriale che De Molay consegnò al papa, con argomentazioni assai ben articolate, si sosteneva l’assoluta impossibilità di procedere alla fusione degli Ordini e si fornivano precise indicazioni su come procedere per organizzare una nuova crociata. Forse è vero, come alcuni sostengono, che De Molay era sostanzialmente un militare e non un politico e quindi non riuscì a rendersi conto che la fusione degli Ordini sarebbe stata la vera strada per salvare il Tempio. Personalmente sono convinto, o forse solo mi piace pensare, che invece de Molay vivesse con intensità l’orgoglio di essere un Cavaliere del Tempio e l’idea della fusione doveva apparirgli come un tradimento dello spirito e della missione dell’Ordine, oltre che un venir meno al solenne giuramento che egli aveva fatto quando era entrato a farne parte. Il Gran Maestro, irritato delle insistenti voci che circolavano e che recavano offesa all’onore dei Cavalieri, chiese allora al papa di aprire un’inchiesta che facesse luce sulla situazione e restituisse ai Templari il prestigio e l’onore a cui avevano diritto.
Al re di Francia, tentata ogni via politica, ormai non restava che attuare il piano più rischioso, la distruzione dell’Ordine. Con una strategia ben congegnata, ed evidentemente studiata da tempo, si fecero pervenire a tutti i balivi del regno dei plichi sigillati con l’ordine di aprirli solo all’alba del 13 ottobre. I plichi contenevano l’ordine d’arresto per i Templari e la disposizione di procedere immediatamente a un primo interrogatorio facendo uso della la tortura, inoltrando successivamente soltanto le confessioni. Con ogni evidenza l’obiettivo non era quello di appurare la verità, ma quello di ottenere dei colpevoli. Si specificava che l’ordine di arresto era impartito su disposizione della Santa Inquisizione perché, come diceva la lettera, “ una notizia amara, deplorevole, orribile a pensare, terribile da udire… è risuonata alle nostre orecchie.” Nogaret guidò personalmente il gruppo di armigeri che andò ad arrestare i Templari del Tempio di Parigi, sapendo che vi avrebbe trovato anche il gran maestro e gli alti dignitari,oltre a circa altre centoquaranta persone. E’ accertato che, per diversi canali, i Templari furono preavvertiti dell’arresto. E’ lecito allora chiedersi: perché si consegnarono pacificamente? Perché nessuno reagì con le armi? Perché non fuggirono? Perché tutti i dignitari, compreso il Gran Maestro, confessarono con tanta facilità? Sarebbe perfino bastato che De Molay si fosse portato fuori dalla Francia per vanificare tutto il piano di Filippo il Bello. Esistono prove documentali che nottetempo una lunga fila di carri, di cui non si ebbe più notizia, si allontanò dal tempio di Parigi portando al sicuro i beni dell’Ordine. Come fu più volte dichiarato nei vari interrogatori centinaia di Templari in Oriente avevano sempre affrontato la morte e la tortura pur di non abiurare la loro religione: è allora mai possibile che i vertici del Tempio avessero paura? E se avevano paura perché poi successivamente scelsero volontariamente di andare incontro alla morte? Perché questo strano comportamento? Personalmente ritengo che si trattò di una prova di forza, che a meno di insanguinare la Francia con una guerra fratricida, i Templari potevano affrontare solo in questo modo. Indubbiamente il papa ebbe un notevole peso in tale scelta ed è probabilmente questa è la ragione per cui si evitò sempre, con ogni mezzo, durante tutti i lunghi anni del processo, di far incontrare De Molay con papa Clemente V. Inoltre questa sfida offre anche la chiara manifestazione di cosa poteva essere il senso dell’onore e del coraggio per un vero cavaliere e quindi più che mai per un Cavaliere Templare. Comincia da qui il percorso che ci porterà a guardare con ammirazione a Giacomo de Molay, al suo comportamento, che giustifica il mito e l’alone romantico e leggendario che aleggia attorno a questa figura eroica e simbolica a cui è giusto guardare con rispetto, e che è giusto ricordare e prendere ad esempio. Per un uomo della tempra di De Molay, era giusto andare allo scontro e misurarsi con il re di Francia e se la regola vietava di alzare la spada contro un altro cristiano l’Ordine si sarebbe battuto con le buone ragioni della sua integrità e della sua fede.
I Templari andarono quindi incontro al loro destino affrontando pene immense, torture feroci e spietati roghi. Lo stesso de Molay non evitò la tortura nell’interrogatorio del 24 ottobre, anche se ammise solo una piccola parte del lungo elenco di accuse che gli fu presentato. Probabilmente De Molay confessò per ottenere di poter ripetere la sua confessione davanti al popolo di Parigi e infatti, in quella circostanza, ritrattò tutto mostrando ai presenti i segni della tortura. Con ogni probabilità le facili confessioni dei dignitari furono rese per paura di confessare i veri segreti del Tempio e ciò sulla base di un accordo stipulato tra loro prima dell’arresto. I Templari erano accusati di eresia, di rinnegamento del Cristo, di sodomia, di adorazione del diavolo e di uno strano idolo chiamato Bafometto, nonchè di collusione con l’Islam e di altri innumerevoli reati del tutto assurdi, ma anche tutti terribilmente infamanti. Nogaret diffuse anche la notizia di una lettera scritta da de Molay, nella quale il Gran Maestro invitava i Templari a confessare: di questa missiva però non si è mai trovata traccia e se ci fosse veramente stata Nogaret ne avrebbe fatto di certo un uso assai più eclatante e facilmente rintracciabile negli atti ufficiali. In definitiva il papa avrebbe dovuto essere il vero scudo dei Templari i quali non sarebbero fuggiti perché fuggire non era degno di un uomo e di un cavaliere e ancor meno di un Templare: fu per questo che de Molay ed i suoi andarono fatalmente incontro al loro destino e la loro terribile fine segnò anche quella della cavalleria. Il papa in effetti reagì e tentò di difendere i Templari fino a quando fu chiaro che Filippo il Bello non si sarebbe fermato davanti a niente e che la Chiesa stessa minacciava di essere travolta da questa vicenda. Il progetto di una Chiesa scismatica di Francia era già pronto e predisposto da tempo. Non dunque è affatto vero che il papa eseguì passivamente i voleri del re: se così fosse stato non ci sarebbero voluti sette anni per venire a capo di una situazione che i due poteri congiunti, quello politico e quello religioso, avrebbero potuto risolvere in poche settimane. Il papa convocò immediatamente un concistoro, scrisse una dura lettera al re di Francia per aver egli osato alzare la mano su un ordine religioso e gli inviò due cardinali perché rimettesse tutta la questione nelle mani della Chiesa: ma questi non furono ricevuti. Clemente indisse allora un nuovo concistoro nel quale fu decisa la scomunica nei confronti del re se i cardinali non avessero potuto adempiere la loro missione e questa volta essi ebbero udienza. Infine Clemente V revocò i poteri dell’inquisizione interrompendo così tutto il procedimento. Con l’intenzione di strappare di mano l’iniziativa al re di Francia, papa Clemente emanò la bolla Pastoralis Preminentiae con la quale egli stesso ordinava l’arresto dei Templari, ma così facendo avocava a sé la paternità dell’indagine. Il re inviò alla Sorbona dei quesiti convinto che, con l’assenso dei dotti, avrebbe piegato la resistenza del papa, ma la risposta non gli fu favorevole e allora convocò gli Stati Generali perché chiedessero a gran voce l’abolizione del Tempio. De Molay, con l’escamotage di un messaggio inciso su una tavoletta di cera, fece circolare fra i Templari prigionieri il suo ordine di difendere il Tempio a ogni costo e la resistenza dei Cavalieri si accrebbe divenendo sempre più forte e organizzata. Nel corso dell’anno successivo 1308, dopo diversi incontri, si giunse a un accordo di massima fra il re e il papa, ma la lotta diplomatica tra i due continuò e Clemente V dette effettivo inizio alla sua inchiesta istituendo commissioni provinciali incaricate di indagare sul comportamento dei singoli Templari, mentre una commissione di nomina papale avrebbe avuto il compito di indagare sull’Ordine nel suo complesso. Il provvedimento mirava chiaramente a distinguere le responsabilità ed a comminare semmai qualche isolata condanna salvando però l’Ordine. Nell’agosto dello stesso anno il papa chiese di interrogare personalmente i dignitari templari, ma questi furono trattenuti a Chinon con la scusa che non erano in grado di proseguire il viaggio. A questo punto il papa, che perseguiva una sua precisa strategia, aggirò l’ostacolo inviando a Chinon tre cardinali in qualità di suoi legati e questi, secondo le disposizioni ricevute, ascoltarono le confessioni dei dignitari, e fecero anche di più. Infatti, nonostante che i dignitari, sia pure con qualche scusa, spesso anche infantile, confessassero di tutto, compresi fatti, circostanze e atteggiamenti decisamente eretici, i Cardinali impartirono loro l’assoluzione e li reintegrarono a tutti gli effetti in seno alla Chiesa. Sembrava ormai che il Tempio fosse salvo.
Il 26 novembre del 1309 la commissione papale interrogò De Molay il quale, alla lettura del verbale della deposizione da lui resa a Chinon, si infuriò e arrivò perfino a minacciare la commissione. Altro mistero decisamente insoluto, perché nessuno sa cosa, nei verbali che furono letti, fosse così difforme dalle dichiarazioni precedentemente rese a Chinon del Gran Maestro, né quale sotterfugio fu usato per alterare la sua precedente dichiarazione. Due giorni dopo de Molay fu di nuovo interrogato dalla commissione, ma il tono questa volta fu completamente diverso, del tutto mite e sottomesso e si pensa che possa essere stato ricattato con la minaccia della accusa di sodomia nei confronti del suo scudiero. A questo punto De Molay si dichiarò incapace di difendere l’Ordine ribadendo di voler parlare solo in presenza del papa. Nel corso del 1310 la resistenza dei Templari si diventò più efficace e circa seicento di loro dichiararono di voler difendere l’Ordine. Pietro da Bologna che con altri tre Cavalieri capeggiava la difesa sparì e di lui non si seppe più nulla. Intanto l’arcivescovo di Sens mandava al rogo cinquantaquattro Templari rei di aver ritrattato le confessioni, accusandoli quindi di essere relapsi e questo stroncò ogni ulteriore velleità di difesa. E’ doveroso riferire che dove non furono torturati i Templari non confessarono niente e furono assolti. Tra il re e il papa un fragile accordo era stato raggiunto e l’Ordine del Tempio doveva dunque essere sacrificato alle ragioni politiche di Filippo il Bello che, da parte sua, avrebbe posto fine alle minacce contro il papa e la Chiesa: nessuno dei due, però, in realtà si fidava minimamente dell’altro. Nel 1311 si aprì il concilio di Vienne nel corso del quale, contrariamente alle aspettative, si andava registrando un orientamento favorevole ai Templari. Allarmato da queste notizie, Filippo il Bello, ormai esasperato, decise un’azione di forza e circondò il concilio con l’esercito. Clemente V si rese conto che i complicati compromessi faticosamente raggiunti con il re di Francia rischiavano di essere vanificati creando una situazione incontrollabile. Decise allora la promulgazione di una bolla che non era espressione della volontà conciliare ma un provvedimento amministrativo promanante direttamente dal papa: la nota bolla Vox in Excelso. In questa bolla, che è un capolavoro di diplomazia e di ipocrisia, si afferma che, “non potendosi condannare l’Ordine”…”con amarezza e con dolore”…….di fatto l’Ordine stesso veniva soppresso. E ciò anche se una lettura attenta porta a ritenere che in effetti si trattò in effetti di sospensione, come d’altra parte emerge anche da considerazioni di natura squisitamente politica. Con altra bolla i beni del Tempio vennero sottratti alla bramosia di Filippo il Bello e affidati all’Ordine di S. Giovanni. Il re non protesterà per questi provvedimenti a dimostrazione del fatto che il suo vero obiettivo era di natura politica e non economica e che questo risultato, con la demolizione dell’Ordine del Tempio, era stato raggiunto. I quattro alti dignitari attesero ancora due anni in carcere prima di essere condotti di nuovo, il 18 marzo del 1314, davanti a un tribunale che, sul sagrato di Notre Dame, li interrogò pubblicamente. Pairraud e Gonneville non proferirono parola, ma De Molay e De Charnay cominciarono a protestare a viva voce l’innocenza dell’Ordine e l’udienza fu quindi bruscamente interrotta. Il gran maestro davanti alla prospettiva della morte, che consapevolmente aveva scelto, pare gridasse queste parole rivolto al popolo di Parigi: “E’ necessario che in un così terribile giorno, negli ultimi momenti della mia vita, io riveli tutta l’ingiustizia della menzogna e faccia trionfare la verità. Io dichiaro perciò di fronte al cielo e alla terra, e confesso, benché a mia eterna onta, che ho commesso il più grande dei crimini, accettando che al nostro Ordine fossero imputati delitti di tanta mostruosità: io attesto, e la verità mi obbliga a far ciò, che esso è innocente. Io ho fatto la dichiarazione contraria per sospendere i terribili dolori della tortura, e per muovere a pietà coloro che mi facevano soffrire. Io conosco i supplizi che sono stati inflitti a tutti i Cavalieri che hanno avuto il coraggio di ritrattare una simile confessione; ma il tremendo spettacolo che mi si presenta non è capace di farmi confermare una prima vergogna con una seconda: a una condizione così infame io rinuncio volentieri alla vita.” Più o meno le stesse cose disse anche de Charnay che aggiunse di aver ceduto alle ingannevoli promesse del papa e del re. Esasperato dalla resistenza di questi uomini, ancora non domi dopo sette anni di privazioni e di tormenti, Filippo il Bello fece pronunciare dal consiglio della corona la sentenza di morte per il gran maestro e De Charnay che la sera stessa furono arsi vivi su un’isoletta della Senna nei pressi di Notre Dame. Pairraud e Gonneville furono invece condannati al carcere a vita. La leggenda narra che il Gran Maestro lanciò una maledizione contro i detrattori del Tempio chiamandoli entro l’anno a rendere conto dei loro misfatti davanti al tribunale dell’Onnipotente: poi volle poter volgere il volto verso la cattedrale di Parigi in un’ultima preghiera e morì tra le fiamme senza un lamento. A tarda notte il popolo di Parigi si recò a raccogliere le ceneri dei due martiri per conservarle gelosamente come reliquie. Il caso volle che dopo un mese Clemente V morisse di un male che da tempo lo affliggeva allo stomaco e il suo catafalco, esposto nella cattedrale, fosse colpito da un fulmine. Dopo altri due mesi anche il re di Francia morì, orrendamente dilaniato da un cinghiale durante una caccia, e sempre nel corso dell’anno finirono impiccati, Nogaret e Marigny, il potente primo ministro di Filippo oltre a quell’Esquin de Florian che aveva mosso le prime accuse ufficiali al Tempio. Fu veramente un caso ? Come giustamente afferma un accorto studioso delle vicende templari, Eugenio Bonvicini, “per gli apologeti i Templari divennero il simbolo degli uomini liberi, ingiustamente condotti al rogo.” Da Giacomo de Molay prende l’avvio anche una serie di vicende, non tutte condivisibili che stanno all’origine di quel vasto e complesso movimento ideale e ideologico, culturale e artistico, filosofico e scientifico che va sotto il nome di templarismo. Si narra che De Molay trasmise i suoi poteri al nipote, conte di Beaujeu, perché potesse perpetuare l’Ordine, mentre un’altra versione dice che la trasmissione avvenne a favore di un cavaliere di nome Jean Marc Larmenius. Ritengo che né l’una né l’altra versione abbiano una qualche attendibilità mentre assai più consistente è la traccia che porta i Templari fuggiaschi in Scozia e la loro confluenza nella famosa loggia di Kilwinning. In questa loggia di costruttori i Templari trasferirono la grande eredità esoterica e culturale di cui era ricco l’Ordine del Tempio e che merita certo un approfondimento che non è possibile fare in questa circostanza. Vale invece la pena di dire che la figura dell’ultimo Gran Maestro ha attraversato i secoli assumendo una serie di significati simbolici che giustamente lo pongono come riferimento centrale di molte speculazioni filosofiche. L’eredità di de Molay De Molay è diventato il simbolo della verità che la prepotenza del potere calpesta e che la dignità reclama, il simbolo della libertà dall’oppressione, della fraternità e dell’eguaglianza, ripresi dalla rivoluzione francese. Non a caso si narra che dopo l’esecuzione di Luigi XVI un uomo balzasse sul palco gridando “Giacomo de Molay sei vendicato.” De Molay è diventato il simbolo dell’uomo che combatte fino all’estremo sacrificio perché trionfino la verità e la giustizia e il bene prevalga sul male. Egli è divenuto il simbolo di tutti coloro che nella vita sono alla ricerca di un Graal, il simbolo di coloro che insorgono piuttosto che piegarsi al potere e hanno cari, come ogni vero Cavaliere, la propria dignità e il proprio onore.





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