20 settembre 2010

- I Tarocchi in chiave massonica


Le formule del cosiddetto pensiero positivo non bastano a comprendere l’oggettivo significato dei simboli, che può essere percepito soltanto da chi vi si accosti, aprendosi ad essi mediante la legge dell’analogia e con la libertà di quel pensiero creativo e sintetico che stimola l’intuizione del ricercatore. La comprensione rivelatrice è la possibilità attraverso cui le porte dei Tarocchi si dischiudono a colui che, povero in spirito, non formula giudizi, mentre si serrano, al contrario, per i curiosi, intrisi di profane certezze. Il carattere distintivo del grande libro della natura è, infatti, la libertà. I Tarocchi sono costituiti da 78 carte: le prime 22 sono gli Arcani maggiori, contraddistinti da numeri e lettere, oltre che da variopinte figure; fra queste, c’è una carta non contraddistinta da alcun numero, e raffigura il Matto. Essa può essere estrapolata dai primi 21 arcani maggiori e considerata, per la sua peculiarità, come un elemento di giunzione: unisce, infatti, i primi 21 simboli alle successive 56 carte, denominate Arcani minori, e divisibili, a loro volta, in quattro mazzi da 14 carte ciascuno, distinti in denari, bastoni, spade e coppe, ovvero quadri, fiori, picche e cuori. Secondo questa suddivisione, poi, ad ogni seme viene analogicamente accostato ciascuno dei quattro elementi: terra (denari, quadri), acqua (coppe, cuori), aria (spade, picche) e fuoco (bastoni, fiori). I 21 Arcani maggiori (senza il Matto), a loro volta, possono essere distinti in tre gruppi da 7, in modo da formare i tre lati di un triangolo equilatero; i 56 Arcani minori, suddivisi nei quattro mazzi di 14 carte, compongono i 4 lati di un quadrato circoscritto al triangolo, mentre il Matto è un punto centrale, equidistante dalle due figure geometriche. Il triangolo (arcani maggiori) rappresenta la dimensione spirituale e cioè, Dio; il quadrato (Arcani minori), la realtà materiale, dominata dai quattro elementi, mentre il punto centrale, il Matto, è l’uomo, perno di giunzione fra il divino e il mondo manifesto: egli si pone al centro di una mistica croce che unisce la realtà fenomenica (asse orizzontale) a quella dei noumeni (asse verticale). Il Sacro Nome di Dio, nella tradizione ebraica, è indicato dalle quattro lettere Iod, He, Vau, He: la lettera Iod è associata al Padre (elemento fuoco, bastoni), He alla madre (acqua, coppe), Vau al Figlio (aria, spade) e He (terra, denaro) è il prodotto di questa mistica unione, che genera la santa trinità. Da questi brevi cenni, si comprende come il Libro dei Tarocchi possa essere considerato una sorta di enciclopedia delle scienze sacre. Nelle carte degli Arcani maggiori può, infatti, trovare riscontro la sapienza ermeticoalchemica e quella ebraicocabalistica, ma anche l’astrologia e la magia cerimoniale, così come la psicologia sacra, compresa così bene dai custodi degli antichi misteri ed oggi pressoché dimenticata; in esse è indicata la stessa via del Libero- Muratore, il cui scopo è di costruire il proprio Tempio interiore mediante un cammino iniziatico attraverso cui, gradualmente, si aprono le porte della Verità. I simboli espressi dai Tarocchi indicano, dunque, al ricercatore molteplici percorsi per l’ottenimento dell’unico risultato: la palingenesi e dunque, quel cambiamento ontologico del proprio stato, vero scopo di tutte le Iniziazioni, di tutte le scuole esoteriche e del sapere occulto delle stesse religioni. Non è un caso che uno studioso di vasta competenza come Piotr Demianovitch Ouspensky abbia definito i Tarocchi come un libro di contenuto filosofico e psicologico, una sorta di sinossi delle scienze ermetiche in cui la cabala, l’alchimia, l’astrologia e la magia sono sistemi simbolici paralleli di psicologia e metafisica. Essi rappresentano, sotto forma di complessi simboli, un grande sistema psicologico, in grado di studiare il mondo dei fenomeni e fra questi l’uomo, in modo unitario, non disgiunto dalla dimensione spirituale, ma fondato su di essa, da cui trae la sua stessa esistenza: un mezzo complesso e completo per conoscere sé stessi e tracciare un intimo percorso che porti l’essere disgiunto e frammentato alla soglia della vera individualità, alla dimensione dell’uomo totale. Seguendo questa traccia, appare chiaro come la comprensione non debba essere ricercata sui libri,ma nasca da un lavoro reale, poiché occorre penetrare dentro di sé per fare in modo che il fiore germogli. Gli Arcani maggiori possono essere studiati secondo una progressione numerica o, come ci ricordano Oswald Wirth e lo stesso Ouspensky, anche seguendo la legge della corrispondenza, disponendo le carte a coppie, la prima con l’ultima, la seconda con la penultima, la terza con la terzultima e così via.
Gli Arcani maggiori
La carta che reca il numero 1 è il Bagatto: raffigura un giovane biondo e di bell’aspetto davanti ad un tavolo a tre gambe su cui si trovano una coppa, una spada e un denaro; in una mano reca un bastone e sul capo un cappello a forma di infinito. Questo giovane è colui il quale può fare, che entra in una via di perfezione interiore e, consapevolmente, adopera gli strumenti che l’Arte riserva al proprio percorso interiore. Esprime l’io cosciente e la volontà di chi sa che per giungere al termine della via occorre volere, osare, sapere e tacere. Solo un essere simile potrà ricevere la Luce massonica, perché potrà guardare oltre il velo solo colui il quale, nella stessa vita profana,manifesti quelle qualità essenziali per incominciare il lavoro di sgrossamento di sé stesso. Una volta espresso il proposito di iniziare il percorso, ci si accosta alla porta del Tempio custodito dalla Papessa (II): essa è seduta su un trono, avvolta da un manto di porpora e ha in testa una tiara d’oro sormontata dalla luna. In una mano reca il libro della Gnosi, nell’altra le due chiavi d’oro e d’argento che indicano al ricercatore la necessità di passare fra le due colonne, una bianca (Jakin) e l’altra nera (Bohaz). Le due chiavi sono le forze che eternamente si contrappongono nell’uomo: positiva e negativa, l’azione e la reazione. Riuscirà a passare oltre, però, soltanto chi riconoscerà l’esistenza di una terza forza, quella neutralizzante, ovvero la Santa conciliazione fra gli opposti, indicata da una chiave non visibile come le prime due: chi sarà in grado di sperimentare in sé stesso tale processo avrà imboccato la via per uscire dalla dualità e giungere all’individualità. Questo è possibile grazie all’intelligenza creativa, simboleggiata dall’Imperatrice (III) che reca in una mano uno scettro e nell’altra l’aquila del potere. Ella stessa è alata, sul capo una corona e la testa circondata da un’aureola con dodici stelle; un fiore bianco sboccia al suo fianco, per ricordare che l’intelletto non può crogiolarsi passivamente nel turbine delle associazioni mentali che succhiano le energie vitali, ma attraverso il pensiero attivo, far risvegliare il lume dell’intuizione e della conoscenza analogica. Proseguendo per questa via, dentro di noi prende forma l’Imperatore (IV): egli è seduto su un trono cubico, con i piedi ben fissi sul terreno, in mano uno scettro egizio e nell’altro la sfera sormontata dalla croce; sull’armatura il sole e la luna. Tale corrispondenza ci ricorda come la via incominci e termini nello stesso punto. Il corpo è lo strumento a nostra disposizione e noi possiamo esserne vittima o padroni. Colui che impera è seduto sul quadrato dei quattro elementi e dunque, conosce la natura materiale, non ne è schiavo, ma è assiso su di essa, poiché è il re del mondo e governa la propria natura fisica con saggezza, senza soggiogarla e, al contempo, senza subirla. Arriviamo alla carta del Papa (V): eccolo, con la sua tunica color porpora e la tiara d’oro sul capo. Egli è il grande maestro interiore che alberga dentro colui che cerca se stesso. Davanti al sommo sacerdote sono raffigurati due fedeli, che indicano uno la fede passiva e l’altro l’eterodossia del dubbio corrosivo. Essi, però, devono riconoscere la superiore legge del Papa, poiché bianco e nero non sono che lati speculari della totalità e soltanto colui che sta nel centro è equidistante, non vittima della cecità del dogma e neppure figlio della ribellione contro-spirituale, ma principio equilibratore, fonte di pace e di silenzio, quel silenzio interiore che accompagna il cammino. La VI carta dei Tarocchi è quella dell’Innamorato. Giovane di bell’aspetto, è attorniato da due donne: l’una tenta di trascinarlo con sé verso il vizio; l’altra, dall’aspetto regale, si limita a poggiare una mano sulla sua spalla e indica la virtù. Per diventare un uomo vero, egli dovrà riconoscere come il proprio scopo debba essere quello – come dice un Rituale massonico - di elevare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio. Il ricercatore, infatti, ad un certo punto del proprio viaggio interiore, è costretto a fare una scelta: può lasciar perdere, abbandonandosi ad una vita meccanica in cui non vi è coscienza né volontà; una vita passiva, contraddistinta dal vorticoso alternarsi degli io che albergano in noi, ciascuno dei quali, mosso per mera reazione agli accadimenti esterni, in balia degli elementi e preso dalla frenesia assassina del divenire; può, al contrario, sentire la propria nullità e mettersi consapevolmente al lavoro per tentare una relazione con sé stesso e riacquistare la dignità che il proprio scopo comporta. Se persevera, oltrepasserà le sette porte della sapienza e potrà salire sul Carro (VII) del trionfo. Trascinato da due sfingi, una bianca e una nera, il Carro è sormontato da un baldacchino alla cui sommità vi è un cielo stellato: l’iniziato ha conquistato padronanza di sé ed ora può trasmettere l’Arte poiché è maestro venerabile, ma la volontà e la coscienza non si sono ancora pienamente fissate in lui e il Carro trionfale potrà pur sempre essere trascinato dalle sfingi in questa o in quella direzione non desiderata. Per questa ragione, è necessario cristallizzare i risultati fin qui ottenuti in un centro di gravità permanente, fino ad udire la voce del padrone – il sé –, la cui lingua è compresa anche dal cocchiere, l’intelletto, e consente a questi di farsi obbedire dalle due sfingi, le emozioni, per condurre, infine, il carro, il corpo, nella direzione voluta. Chi cerca viene privato dalle illusioni e arranca, poiché non è in grado di vivere sulla terra senza di esse. Se vi riesce avrà riconosciuto una legge interiore, poiché avrà sentito la presenza di un ordine dentro di sé. Ecco la Giustizia (VIII) che ristabilisce l’equilibrio. Nel silenzio è possibile sentire una vibrazione di un altro livello: lontani dal frastuono e dalla distrazione, occorre cingersi di un mantello che isoli dal chiasso dei molteplici io caotici e faccia riscoprire il gusto per la solitudine. L’iniziato sarà allora come l’Eremita (IX), il cui bastone, sul quale si avviluppa il serpente della mobilità, altro non è se non il Caduceo ermetico (percorso interiore). Il manto da cui è coperto ricorda il grembiule indossato dal Massone per proteggersi dalle schegge durante il lavoro di levigazione della Pietra del sé, che da grezza deve diventare cubica, e corrisponde al nero mantello del Superiore Incognito del Martinismo che, ad un certo livello di comprensione, si isola interiormente dalla realtà profana, essendo come i mistici gnostici nel mondo ma non del mondo. Chi prosegue il proprio cammino vede come la vita ordinaria sia costellata dall’alternarsi di entusiasmo e depressione, esattamente come le stagioni, contraddistinte da solstizi ed equinozi, in un eterno ritorno espresso dalla Ruota della fortuna (X) che, però, è solo l’ombra del qui ed ora, in cui tutto ciò che accade è il presente. In esso non vi sono alternanze, c’è solo l’essere immobile che vede, allo stesso modo della sfinge impressa su questa carta, e resta fermo nella pienezza della raggiunta pace. L’XI carta è la Forza: con sguardo distaccato, una donna chiude le fauci di un feroce leone, senza opporre ad esso un’energia brutale, ma imponendo il proprio volere con la dignità di chi conosce bene l’animalità della bestia. Il corpo, infatti, non deve essere soggiogato con violenza, ma addomesticato, poiché non è un nemico, ma un fedele alleato. Per questo, l’intelletto deve conoscere il linguaggio del fisico e delle emozioni, per parlar loro con autorità ma senza tentare di imporre ciecamente le proprie decisioni. Soltanto colui che può sacrificare tutto può fare tutto: è questo l’insegnamento dell’Appeso (XII), l’impiccato che indica l’uomo che ha visto la verità. Per lui, la vera vita è capovolta rispetto a quella illusoria e vegetativa della propria meccanicità. Chi riesce a rinunciarvi potrà ottenere grandi conquiste. Solo chi non è più incatenato alla propria immagine, alle proprie certezze, alla propria personalità, potrà riconoscere in sé l’essenza. Solo chi non è schiavo può essere libero. Per rinascere ad una nuova condizione occorre prima morire. La Morte (XIII), però, è una conquista non facile, ma indispensabile per nascere nudi di fronte a sé stessi, senza il proprio fagotto pieno di cose inutili accumulate nella vita inconsapevole. La prima operazione dell’Alchimia è la Nigredo, la cosiddetta Opera al nero che si compie soltanto quando la materia (l’uomo) si decompone, divenendo nera come la pece: andando dentro sé stessi, nelle zone più profonde, quelle più intime, si potrà morire a questa vita e, abbandonando il proprio modo abituale di pensare e di vivere, si potrà risorgere, come la fenice, dalle fiamme che bruciano nel forno in cui la materia grossolana è destinata a trasformarsi in aurea. La morte è, perciò, la prima meta di un lungo percorso iniziatico, attraverso il quale, sciogliendo i legacci di una vita vissuta male, il ricercatore diviene indulgente con la propria condizione, rappresentata ora dalla Temperanza (XIV), grazie alla quale emerge la virtù, la moderazione e l’equidistanza da ogni cosa. Essa è raffigurata con due ali bianche, come angelo rappresenta il Tempo; sulla sua fronte c’è il cerchio. Questo è il segno dell’eternità, il segno della vita. Solo dissolvendo il volatile e volatilizzando il fisso si potrà scorgere il tesoro che nasce dal metallo volgare. È l’insegnamento della XV carta, il Diavolo. Raffigurato con la mostruosa testa di capro del Baphomet templare, con il corpo da donna e le ali da pipistrello, tale simbolo esprime l’esistenza materiale, la corporeità, la terra madre, la propria fisicità, che non va rifuggita e distrutta, ma che è il veicolo per l’evoluzione interiore, il lasciapassare per il Cielo. Il Diavolo è la porta per ottenere il Paradiso, perché l’Iniziato, vivendo appieno il proprio corpo, sentendolo senza subirlo passivamente, ne diviene il padrone e può condurlo dove vuole. Questo è, perciò, uno strumento prezioso a disposizione degli esseri umani, che possono farne un uso fruttuoso o, al contrario, condurlo alla rovina. Nel primo caso, diverrà la materia in cui si condensano le energie superiori, mentre nel secondo, il risultato sarà la propria autodistruzione e la disperazione. Chi spera di ottenere risultati senza un vero lavoro su di sé, prima o poi dovrà fare i conti con la realtà; le proprie illusorie pretese conquiste interiori cadranno come colpite da una saetta, allo stesso modo della Torre (XVI): non si può mentire a sé stessi, perché la natura odia l’inganno e l’uomo non può sottrarsi alle sue leggi. Chi sente la necessità di ritrovarsi, infatti, non può fremere d’impeto, ma lavora pazientemente, perché lo scopo è quello di tornare alla propria condizione primigenia, in armonia con il Raggio di Creazione, che racchiude in sé le sacre leggi del cosmo, comprensibili attraverso le Stelle (XVII). È qui, nel buio, che i costruttori del Tempio, rimasti orfani, scorgono un ramo d’acacia, simbolo della presenza della tomba del maestro Hiram: dopo la sua uccisione, la Fiamma della Tradizione sembrava essersi spenta e la parola perduta; le spoglie del Maestro finalmente ritrovate indicano che la catena non si è spezzata e che gli operai possono nuovamente udire la parola sacra, riannodando, così, l’invisibile filo della corda fraterna. La notte, però, è illuminata da una pallida luce d’argento, quella della Luna (XVIII), a causa della quale i colori della realtà sono deformati. Bisogna dunque rifuggire dalle teorie erronee e riconoscere che il lavoro su di sé non è ancora terminato: ci si trova nella fase alchemica dell’Opera al bianco, la cosiddetta Albedo, in cui la materia (l’uomo) è quasi giunta al proprio scopo, ma non ancora del tutto. Dopo la notte lunare, il Sole (XIX), comunque, risorge sempre e la sua aurea luce spazza via i tetri colori notturni: la Grande Opera si compie. Ecco la Rubedo, l’Opera al Rosso, grazie alla quale il fanciullo viene incoronato Re e il piombo si trasmuta in Oro. L’essere umano, una volta in preda a forze contrapposte, ha ora trovato, nell’armonia dei due, la sua vera natura, in cui uomo e donna sono Uno. Padre, madre e figlio (intelletto, emozioni e corpo) parlano adesso un’unica lingua e attendono liberi che si compia il Giudizio (XX) finale, poiché vita e morte non hanno più potere. La realtà quotidiana assume allora un nuovo significato. Il Mondo (XXI) appare così com’è, racchiuso dalla ghirlanda del tempo ciclico che ritorna all’origine, contraddistinto dai quattro elementi, ma non fa più paura, perché il ricercatore ha sperimentato direttamente la via. Il triangolo adesso è tracciato dentro di sé, perché in colui che ha preso coscienza della propria nullità si è cristallizzata l’influenza spirituale. Egli ora è parte del tutto, dell’assoluto ed è come il Matto, carta che non è indicata da alcun numero ed è quindi equivalente allo zero. Lo zero metafisico è l’Ain Soph della tradizione ebraica, che è al di là del cosciente e del razionale, l’assoluto che avvolge il relativo, antenato degli dei e degli uomini, oltre il bene e il male. La condizione finale è quella dell’individuo assoluto, colui che unisce il Divino (arcani maggiori) con la realtà fenomenica (arcani minori), figlio del Padre e al tempo stesso madre di questo mondo, nel quale il tutto è uno e l’uno è tutto.
Alberto Samonà

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