5 luglio 2010

- I simboli della tradizione mediterranea


l “metalinguaggio” dei simboli
Le molte culture che nel corso dei secoli si affacciarono sul bacino del Mediterraneo dettero vita a lingue autonome, ma non è difficile osservare come in esse circoli, quale vena sotterranea, la propensione ad utilizzare anche i simboli, in qualità di complementi espressivi. Potremmo definire questo tipo di comunicazione come un “metalinguaggio” che appartiene alla storia dell’uomo primitivo, prima ancora che gli alfabeti e la scrittura entrassero a far parte delle acquisizioni umane. Pertanto nello studio di tale prezioso serbatoio si può riscoprire il più remoto prodotto delle nostre antiche civiltà. Alcuni di questi simboli primordiali persero, nello scorrere del tempo, il loro significato più autentico, ma molti di essi si trasmisero di generazione in generazione. Quali sono le cause di questa naturale selezione per la quale alcuni di essi si perpetuarono nella storia ed altri furono dimenticati?Certi gruppi etnici estrassero i propri alfabeti dall’ancestrale patrimonio grafico, altri mantennero al segno il suo valore di rappresentazione di un’idea, rappresentazione sintetica e leggibile indipendentemente dall’alfabetizzazione individuale. In molti casi, con il passare a forme più evolute di vita, le mutate condizioni resero insufficiente quel patrimonio, che venne ripetuto per rispetto degli antenati ma piegato a nuovi significati religiosi, ad esempio a quelli cristiani. Tutto ciò non avvenne sempre in modo incontrollato, poiché alcuni studiosi dell’età di mezzo lo teorizzarono. Con Guillaume Durand de Mende accettarono la tesi che “molte delle verità che noi non vediamo sono nascoste nell’ombra” intendendo così che le verità spesso sono celate nel mistero di un segno. Indipendentemente dalla cultura di ciascuno il simbolo può comunicare valori basilari conoscibili a dispetto delle differenze di parlata che caratterizzano le varie etnie. Tra i popoli antichi il mito rappresentava l’ambito nel quale il simbolo acquisiva valenze originali, oggi la cultura globale è il circuito nel quale il simbolo stesso sembra offrire garanzia per la conservazione del patrimonio tradizionale. Ma quali sono i segni grafici sui quali possiamo incentrare una siffatta ricerca filologica? Dove possiamo rilevare questi glifi per avere la certezza di significati profondi e di autenticità storica?
La storia
Qui è opportuno effettuare una digressione. La maggior parte delle espressioni figurative dell’antichità veniva affidata all’edificio sacro ed era configurata per la trasmissione del sacro. Negli antichi santuari precristiani, laddove le fortunate scoperte archeologiche hanno potuto avere il sopravvento sulle devastazioni operate dai secoli, si può constatare che i pellegrini che vi affluivano, spesso lasciavano espressioni grafiche della loro presenza, incidendo sulle pareti degli ambienti sacri, nomi, invocazioni o semplici segni. Questi ritrovamenti, che certificano delle origini di una consuetudine destinata a perpetuarsi nel tempo, non sono rari e possono suggerire un uso abituale. Con lo scorrere dei secoli, in tempi successivi, cattedrali, cappelle, chiese di campagna o monumentali abbazie divennero per una folla di uomini, oggi polvere nella polvere, i luoghi dove incidere il segno di un passaggio,di una devozione o di un credo, così come i loro predecessori avevano fatto. Nella volontà di marcare con un’impronta perenne il loro transito, i viaggiatori alla ricerca di Dio, sulle rotte di Santiago de Compostela, verso la tomba dell’Apostolo Pietro o del sepolcro di Cristo in Oltremare, scolpivano un’incisione sulle pietre, materia forte ed incorruttibile. Appare degno di nota osservare che, nel Medioevo, la scelta del soggetto di un graffito non cadeva su nomi o su date, come in tempi più recenti, ma su segni elementari o lettere alfabetiche.
Qualcuno potrà dire: “certo è logico, nel Medioevo pochi sapevano scrivere”. Ma, se questo è vero, come si spiegano certi simboli perfetti, incisi con mano ferma e con gusto di sintesi? Forse sarebbe più giusto pensare che si trattasse della scelta di un linguaggio astratto, al di fuori di quello parlato, per pensieri profondi e conoscenze teologiche, con aspirazione di universalità. Un metalinguaggio dello spirito.
Raimondo Lullo, dottore illuminato
Che questo desiderio di formulare concetti superiori attraverso segni sovralinguistici, destinati a trasmettere pensiero puro, fosse un’esigenza dell’uomo alla ricerca della liberazione spirituale, lo dimostra la vita e l’opera di un grande catalano. Fu un mistico, ma anche un filosofo di formazione internazionale, cavaliere e pensatore, poeta e dottore, nonché, se vogliamo dar credito alla leggenda, alchimista. Parlo di Raimondo Lullo, gloria di queste terre (Maiorca, 1232 ca-1316). Nel De vita coetanea egli stesso ci parla della natura del suo sapere derivato da una visione nella quale gli erano state rivelate quelle verità e quelle forme di pensiero alle quali restò sempre fedele. Non mi voglio addentrare in questioni filosofiche, ma desidero ricordare come in una sua opera, Ars compendiosa inveniendi veritatem, assai probabilmente frutto di quella primaria rivelazione, Lullo prospetta un sistema geometrico combinatorio per esprimere la verità profonda, ed altrimenti inesprimibile, dei concetti teologici: dunque, in sostanza, l’uso di simboli geometrici per descrivere il divino. La sua attenzione verso la trasmissione del sapere e la conoscenza di idiomi diversi lo portò ad auspicare la diffusione di scuole dove insegnare lingue e cultura orientali, con lo scopo di favorire l’azione missionaria formando una classe di studiosi capaci di confutare l’imperante averroismo. Si conferma così l’interesse del “dottore illuminato” per un sistema di 37 espressione sovralinguistico che travalicasse le barriere dei linguaggi. Nella figura di Raimondo Lullo ritroviamo uno dei maggiori eruditi europei, un personaggio di emblematico riferimento per quel periodo che con efficace sintesi fu definito “autunno del Medioevo”.
Universalità del simbolo
La cultura medievale era permeata della credenza che il simbolo potesse esprimere meglio delle parole, concetti di superiore verità. Ma di certo, questo tipo di comunicazione, come abbiamo visto, offriva il vantaggio di superare le chiusure dei singoli linguaggi, oltre che, nella perfetta astrazione delle figure geometriche, poter narrare di Dio, del cammino verso l’Altissimo e delle sue conseguenze psicologiche e sociali. Quando, pervasi dal desiderio di purgare la propria anima e di ottenere l’indulgenza dai peccati, uomini e donne di ogni condizione si univano in gruppi animati da un unico pensiero, essi intraprendevano il viaggio purificatorio. Vestiti di una corta mantella, la pellegrina, armati di fede e di bordone si incamminavano verso le mete della cristianità, pronti a viaggiare per lunghi mesi esponendosi ad ogni pericolo, freddo, fame, malattie, briganti ed animali feroci. Questi costituivano i rischi calcolati, simboli delle cadute più abiette nelle quali l’anima poteva incorrere cercando Dio. Ma dal momento in cui l’individuo decideva di abbandonare le comodità domestiche, mutava il rapporto con il proprio egoismo. Da uno stato di preoccupazione volta esclusivamente al proprio benessere, quei penitenti si trasformavano in creature ansiose di conoscere l’Inconoscibile, di raggiungerlo e di fondersi in Lui. In altre parole cercando il sacro si trasformavano in uomini universali, quasi in appartenenti ad un vero e proprio Ordine. Il pellegrinaggio rivelava la sua essenza di esperienza iniziatica, così ognuno di essi, nelle varie tappe, lasciava un simbolo della sua ricerca.
Il segno dell’uomo universale
Oggi quei segni sono ancora leggibili sulle pareti degli edifici di culto medievali, nei luoghi dove i viandanti, pregavano, compivano i riti di una religiosità arcaica, si ricoveravano per la notte ed attendevano che la luce dell’alba si riversasse sulle sacre icone. Uno dei glifi più frequenti, rilevati sui conci di pietra di quelle antiche costruzioni, è una croce impostata al vertice di un triangolo o sulla sommità di un segmento curvilineo. Il simbolo della croce, di antichissima origine precristiana, rappresenta il corpo umano, stilizzato fino alla cristallizzazione in un incrocio di due segmenti. Molti sono gli autori che sostengono questa tesi: da Onorio d’Autun fino al già citato Guillaume Durand de Mende.
Il significato del triangolo è quello di vertice, ossia di luogo sommo. In buona sostanza raffigura il massimo delle altezze spirituali raggiungibili nell’iter umano, corrisponde alla montagna Qaf dell’Islam, cui non si accede né per mare né per terra o al Betilo biblico, “casa di Dio”, “porta dei cieli” luogo privilegiato, o come lo definisce, nel Commento al Cantico dei Cantici, Gregorio di Nissa (IV sec.) “la montagna della conoscenza mistica”. L’insieme della croce con il triangolo mostrerebbe dunque l’uomo che, spogliato della materia, ridotto alla sua vera eterna essenza, raggiunge la vetta più alta dei diversi stati dell’essere. Bernardo di Chiaravalle XII 38 sec. si chiedeva: “Chi salirà la montagna del Signore?”, lasciando intendere che la salita non era per tutti. L’inizio era l’ego, la fine, lo sbocco nell’universale.
Il simbolo oggi
L’uomo contemporaneo sta vivendo il fenomeno della globalizzazione ed alcuni affrontano l’esperienza pervasi da “timore e tremore” intuendo in essa un grave pericolo. In effetti sorge a buon diritto il sospetto che, a causa di questo fenomeno trasversale, si possano azzerare le peculiarità culturali delle diverse etnìe per raggiungere una sorta di confuso sincretismo nel quale si rischia di perdere ogni antica identificazione storico- culturale. Senza voler fare della sociologia si comprende che l’allarme non è remoto. Atteggiamenti, mode, proposte, hamburgers ideologici sono in agguato e di certo si presentano vincitori nell’attacco alle categorie meno protette da filtri razionali. L’umanità si avvia verso un’omologazione assai minacciosa. Il millenario concetto dell’universalità proposto dalla via iniziatica potrebbe invece contrapporsi al taglio orizzontale della globalizzazione con un programma di evoluzione verticale, che salverebbe le identità dei singoli e delle etnìe. Posto che l’antico simbolo dell’uomo universale ci indichi che la méta sia il vertice di quella montagna, tanto bene indagata da M. Madeleine Davy (cfr. La montagna e il suo simbolismo), dunque di un difficile percorso in salita ed individuale - sottolineando individuale - ci accorgiamo quanto la massoneria offra il giusto antidoto con una via alternativa per un nuovo umanesimo. L’arrampicata verso la vetta, dove si troverà la condizione universale, può sostenersi usando i simboli della Tradizione come appigli e come indicazioni di percorso.
Seguendo il concetto di universalità
Assumendo il concetto di universalità come garanzia per la salvezza delle nostre culture, ne discende che quanto lo differenzia dal concetto di globalizzazione è la singolarità dell’esperienza consumata nell’interiorità degli individui. Si pone perciò come il contrario della globalizzazione, che si presenta invece come un assalto, proveniente dall’esterno, di usi e forme di pensiero estranee e che vanno più o meno direttamente a sostituire le strutture culturali antiche ed autoctone, quelle originali.
In cima alla montagna
Abbiamo dunque visto che, secondo schemi iconografici delle più varie provenienze, gli antichi, quando descrivevano la presa di coscienza della propria maturazione si raffiguravano al colmo di una vetta. Superato l’iter sempre più esclusivo mostravano al mondo ed ai posteri di aver raggiunto un punto, l’omphalos, il luogo di congiunzione tra cielo e terra, la soglia sublime, che non è concesso varcare se rivestiti dalla materia. Lo sguardo lanciato da quel punto verso remoti orizzonti, non era più quello di un uomo tremante per le difficoltà che la sua natura gli contrapponeva, ma di colui che aveva sconfitto la paura della morte ed era ormai assurto agli stati più alti dell’essere. Sophia era la sua compagna ricongiunta, l’illuminazione il suo modo di conoscere, la giustizia il suo agire. Quel piccolo graffito, che mani ignote incisero a migliaia di esemplari sui paramenti murari degli edifici sacri dei paesi mediterranei, legati tra loro da quel ricamo di linee complesse ed annodate, che sono i millenari percorsi dei pellegrini verso i luoghi santi delle religioni monoteiste, è il simbolo di una unità di ricerca, che, nei tempi in cui la “religione era la poesia” (F.Pessoa, Scritti esoterici), costituiva lo scopo primario della vita di molti. Attualmente ci si presenta come un’indicazione della Tradizione sulla quale costruire i nostri 39 singoli sistemi di pensiero per salvaguardare le nostre minacciate identità.
Il ruolo della Massoneria
La massoneria, ponendosi oggi come la via laica e tradizionale per raggiungere la condizione di iniziato, ossia lo stato dell’essere universale, offre a coloro che vi approdano un mezzo tutto occidentale, sorprendentemente attuale nonostante la sua antichità e correttivo dell’appiattimento prodotto dalla trionfante globalizzazione. Porge una sorta di “cartina al tornasole” per individuare e successivamente rifiutare gli hamburgers ideologici che la civiltà contemporanea propina quotidianamente a getto continuo. Nei simboli, che sono rimasti per molti enigmatici e muti interlocutori, uomini e donne liberi e di buoni costumi possono trovare i segnali, diremmo i documenti che attestano antichissimi percorsi spirituali, modelli di una ricerca millenaria effettuata dall’uomo per scoprire il suo posto nell’universo e dunque per divenire egli stesso homo universalis.
Anna Giacomini

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