18 novembre 2009

- Rito e ritualità.


Una concezione purtroppo corrente nella società contemporanea, diffusa non solo nel mondo profano, tende a considerare tutto ciò che appaia come «rito» o «rituale» alla stregua di un armamentario ideale superato, una ferraglia da rottamarsi il più velocemente possibile.
Il ragionamento sotteso a tale sotto-cultura ha una visione del rito esclusivamente «esteriore », ossia ne enfatizza la ripetitività, l'immobilismo, l'arcaicità, tutte categorie intese come contrapposte alla ragione, al dinamismo, alla modernità. Non si mancherà di notare peraltro che una sorta di svalutazione dell'apparato rituale è presente anche in alcune manifestazioni dominanti del Cristianesimo, ove la dimensione simbolica della sacramentalità dell'officio liturgico è stata fortemente ridimensionata, non sempre con piena coscienza o altrimenti suscitando estremizzazioni tanto eclatanti quanto circoscritte. Di pari passo, con tale atteggiamento anti-rituale, si registra, segnatamente in ambiente laico, uno sconfortante senso di estraneità di fronte a tutte le occasioni che con la ritualità sono connesse; il rito, anche e soprattutto nelle sue forme civili, istituzionali, militari, accademiche e sportive, viene lasciato «degenerare» proprio come si trattasse di una noiosa formalità. Si tratta insomma di un impiccio di cui bisogna sbarazzarsi nel modo più solerte, con conseguenze che oscillano tra il ridicolo e la stupidità. Anzi, possiamo dire che nella nostra società ogni seria manifestazione rituale appare sempre più di difficile comprensione, soprattutto se non inquadrata in un ambito espressamente confessionale e pertanto ben circoscritto, e anche in questo caso con qualche problema.
Purtroppo questi condizionamenti non possono essere presi alla leggera all'interno di una comunione come quella massonica, ove la ritualità costituisce un momento senza dubbi centrale, sia sul piano esoterico e formativo, oltremodo significativo del percorso massonico. Questo breve articolo vuole quindi offrire soltanto uno stimolo, al fine di focalizzare e chiarificare un problema sotto molti aspetti nodale.
Etimologia e semantica
In primo luogo mi sembra utile tentare una ridefinizione di «rito» in quanto tale (e pertanto a prescindere dai singoli «riti» che sono accolti nell'ambito del G.O.I.), partendo da una riflessione in chiave etimologica. Il termine latino ritus, da cui l'italiano rito, ha una storia molto complessa; esso, infatti, deriva in ultima istanza da un'antichissima radice indoeuropea ar, che, mediante una serie di diverse suffissazioni, sta alla base di una famiglia semantica estremamente ricca, costituita per esempio in latino da ars, ar-ti-s «arte, abilità », ar-tus «articolazione», in greco da arthmos «legame, unione», ar-thron «giuntura, articolazione, membro», arithmos «numero», ma anche dai verbi ar-ar-isko «adatto, armonizzo» e artuno «adatto». Tale radice indoeuropea ha trovato poi nelle lingue indoiraniche, come il sanscrito - la lingua dei Veda - , e nell'avestico, quella dei testi più antichi attribuiti a Zarathustra a alla sua cerchia, ma anche nell'antico persiano, lingua dei sovrani achemenidi Ciro, Cambise, Dario, Serse, ecc., una serie di sviluppi di estremo interesse: infatti, sia nei Veda sai nell'Avesta, il concetto di «ordine», di «armonia cosmica» è stato rispettivamente rappresentato mediante un tema nominale, che in sanscrito appare come ri-ta-e in avestico come asha- (da ar-ta-), a cui si aggiungerà anche l'antico persiano arta-, che nelle iscrizioni dei sovrani achemenidi ha assunto anche un significato più connotato sul piano politico. A questa categoria fu opposta dualisticamente quella della «menzogna » o del «disordine cosmico», espressa dal sanscrito druh-, dall'avestico druj- e dall'antico persiano drauga-. Inoltre, con una suffissazione diversa, il sanscrito ri-tu- e l'avestico ra-tu- vennero a designare «l'ordine stagionale », un «tempo fissato», e quindi più in generale la «regola», la «norma» (si confronti a questo punto anche il gr. ar-tus «sistema, ordinamento»). Non stupirà quindi più di tanto notare che il latino ritus, dal quale siamo partiti, abbia avuto alle sue spalle una pregnanza e un significato ben articolato, che, al di là delle ben note accezioni di «cerimonia, consuetudine, modo, costume tradizionale», si estrinseca come una «ordinanza», nel senso di un'armonizzazione ordinata, di una sorta di legame tra tutte le sue parti costitutive.
Il senso iniziatico
Se il lettore avrà benevolmente perdonato questa prima parte, forse un po' dotta e pedante, avrà altresì notato quanto vi sia di profondo alle spalle di un termine quale rito, nonché del concetto stesso di ritualità, che da esso inevitabilmente scaturisce. Se ci si limitasse però a quest'aspetto, avremmo solo posto un problema di ordine culturale, mentre lo scopo del presente contributo è differente e meno profano. Una società iniziatica non può prescindere dal rito (inteso come già detto in termini di «ritualità applicata» e non contrapposto all'Ordine dei primi tre gradi della Massoneria azzurra), in quanto strumento di ordinamento e di armonizzazione dell'Officina e dei singoli Muratori. Il rituale è quindi un atto comune e individuale ad un tempo; mette in gioco il singolo Fratello e la comunità massonica a cui appartiene, la quale, a sua volta, è chiamata nella sua totalità, attraverso l'applicazione di una Tradizione simbolica, a stimolare in ciascun Iniziato un percorso interiore. La Massoneria non offre al recipiendario e poi all'Iniziato un «credo», ma un'occasione profonda per misurarsi con se stesso, mediante il confronto con altri uomini che accettano una comunanza di regole e landmarks fondamentali; tale comunione, per quanto si esprima con l'ausilio di un linguaggio simbolico senza dubbio antidogmatico, non è però certamente improvvisata e casuale. Aprire le porte ad una sorta di riduzionismo formalistico del rito e della ritualità, come se si trattasse di anticaglie, secondo una certa vulgata profana, significherebbe devastare alla radice l'esperienza massonica e la sua centralità iniziatica per farne invece un club più o meno ristretto, ma senza un centro, senza un ordine profondo.
Uguaglianza
Bisogna considerare che il rituale, con le regole e i limiti che esso impone, è anche strumento di eguaglianza ferrea; esso infatti impedisce che i ruoli sociali profani si affermino all'interno del Tempio, giacché l'apprendista – qualsiasi sia la sua cultura e importanza – tace e ascolta (senza che però gli sia vietato arrovellarsi nel suo scranno a settentrione), così come ai compagni e maestri è comunque vietato intrattenersi in questioni di politica e di religione, che porterebbero «fuori squadra» i lavori massonici, né è loro concesso scadere in dibattiti o ancora assumere atteggiamenti scomposti e intolleranti. Tutti, in ogni caso, sono soggetti all'autorità/autorevolezza del Maestro Venerabile, che ha il potere/ dovere di armonizzare architettonicamente i lavori e garantire il rito nel senso profondo di atto conformante la parte al tutto. Il senso profondo della ritualità, delle garanzie che offre, nei limiti che al contempo pone, sono tutti aspetti ignoti alla vita profana e alle esperienze che essa può proporre. Non si può quindi ignorare che questo aspetto dell'esperienza massonica costituisce per molti versi un unicum nella vita attuale e come tale esso deve, nelle forme concesse, essere fatto conoscere al di fuori della comunione massonica. Di questa ricchezza enorme, peraltro, i Fratelli devono essere consci, in quanto si tratta di una forza eccezionale, protesa sia verso l'interno sia verso l'esterno.
Edificare il Tempio interiore
Ci soffermeremo ora sul fatto che il rituale di costruzione del Tempio, che è anche metafora dell'ordinamento di un «Tempio interiore», a guisa di pietra che si squadra sempre più perfettamente, fuoriesce dal tempo normale, dal «quotidiano ». Tra l'apertura e la chiusura dei lavori, tra mezzogiorno e mezzanotte, un tempo «altro» scandisce il lavoro massonico, un tempo che è circoscritto e separato da quello dell'esperienza profana. Tale «esperienza» – giacché di esperienza si tratta, in quanto il rituale non è semplicemente spiegabile, ma deve essere attualizzato e vissuto direttamente (di qui almeno una parte del segreto massonico) – si articola e si sviluppa in un «metatempo», in una sorta di dimensione «diversa », alla quale si accede per gradi sotto la volta stellata del Tempio, in un luogo che simbolicamente trascende la sua apparente e contingente esteriorità, ma si pone come centro o asse del mondo. L'accensione del testimone e la squadratura del Tempio, come una sorta di lustratio o di pradakhinâ, circoscrivono uno spazio che verrà in breve tempo catapultato in una dimensione temporale nuova, in una comunione che, nella separazione netta dalla vita e dal tempo profano, si pone come una sfida interiore ad un'ascesa a cui tutti i Muratori devono contribuire. Onestamente non sempre ciò riesce, ma quando tutto è stato veramente «giusto e perfetto», l’autocoscienza di aver partecipato ad un'esperienza, ove il rito non è stato vacua ripetizione di gesti e di formule prescritte, ma armonizzazione di una molteplicità di coscienze, segna fortemente l'Iniziato e gli elargisce una nuova profondità capace di aprire, anche in chi pensava di già aver scoperto tutto, nuove possibilità di ricerca interiore.
In una società dell'immagine, capace di soppesare con interesse solo ciò che «rende», il rito, inteso come strumento vitale di un percorso umano, etico e intellettuale, è indubbiamente una sfida e una provocazione. Per tutti coloro che a priori odiano la Massoneria, ciò appare come una sorta di mostruosità difficile da deglutire, giacché una tale dimensione spirituale non è neanche lontanamente supposta presso una setta di adoratori di «Bafometto» o una consorteria di «intriganti affaristi». D'altro canto, proprio perché non siamo né una cosa né l'altra, non possiamo che lavorare ritualmente la pietra grezza e ricordare, dentro e fuori, che questo è il cammino proposto attraverso l'Iniziazione massonica.
ANTONIO PANAINO

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