- La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico
No, io lo giuro per colui che ha trasmesso alla nostra anima la tetractys nella quale si trovano la sorgente e la radice dell'eterna natura.
Detti aurei.
Riesumare e restituire l'antica aritmetica pitagorica è opera quanto mai ardua, perché le notizie che ne sono rimaste sono scarse e non tutte attendibili. Bisognerebbe ad ogni passo ed affermazione citare le fonti e discuterne il valore; ma questo renderebbe la esposizione lunga e pesante e meno facile la intelligenza della restituzione. Perciò, in generale, ci asterremo da ogni apparato filolo-gico, ci atterremo soltanto a quanto risulta meno controverso e dichiareremo sempre quanto è sol-tanto nostra opinione o risultato del nostro lavoro. La bibliografia pitagorica antica e moderna è assai estesa, e rinunciamo alla enumerazione delle centinaia di libri, studii, articoli, e passi di autori antichi e moderni che la costituiscono. Secondo alcuni critici, storici e filosofi, Pitagora sarebbe stato un semplice moralista e non si sarebbe mai occupato di matematica; secondo certi ipercritici Pitagora non sarebbe mai esistito; ma noi abbia-mo per certa la esistenza di Pitagora, e, accettando la testimonianza del filosofo Empedocle quasi contemporaneo, riteniamo che le sue conoscenze in ogni campo dello scibile erano grandissime. Pitagora visse nel sesto secolo prima di Cristo, fondò in Calabria una scuola ed un Ordine che Aristotele chiamava scuola italica, ed insegnò tra le altre cose l'aritmetica e la geometria. Secondo Proclo, capo della scuola di Atene nel V secolo della nostra era, fu Pitagora che per il primo elevò la geometria alla dignità di scienza liberale, e secondo il Tannery la geometria esce dal cervello di Pitagora come Athena esce armata di tutto punto dal cervello di Giove. Però nessuno scritto di Pitagora od a lui attribuito è pervenuto sino a noi, ed è possibile che non abbia scritto nulla. Se anche fosse diversamente, oltre alla remota antichità che ne avrebbe ostaco-lato la trasmissione, va tenuta presente la circostanza del segreto che i pitagorici mantenevano, so-pra i loro insegnamenti, o parte almeno di essi. Un fìlologo belga, Armand Delatte, nella sua prima opera: Études sur la littérature pythagoricienne, Paris, 1915, ha fatto una dottissima critica delle fonti della letteratura pitagorica; ed ha messo in chiaro tra le altre cose che i famosi «Detti Aurei» o Versi aurei, sebbene siano una compilazione ad opera di un neo-pitagorico del II o IV secolo della nostra era, permettono di risalire quasi all'inizio della scuola pitagorica perché trasmettono materiale arcaico. Quest'opera del Delatte sarà la nostra fonte principale. Altre antiche testimonianze si hanno negli scritti di Filolao, di Platone, di Aristotele e di Timeo di Tauromenia. Filolao fu, insieme al tarantino Archita, uno dei più eminenti pitagorici nei tempi vicini a Pitagora, Timeo fu uno storico del pitagorismo, ed il grande filosofo Platone risenti fortemente l'influenza del pitagorismo e possiamo considerarlo come un pitagorico, anche se non appartenente alla setta. Assai meno antichi sono i biografi di Pitagora cioè Giamblico, Porfirio e Diogene Laerzio, che furono dei neo-pitagorici nei primi secoli della nostra era, e gli scrittori matematici Teone da Smirne e Nicomaco di Gerasa. Gli scritti matematici di questi due ultimi autori costituiscono la fonte che ci ha trasmesso l'aritmetica pitagorica. Anche Boezio ha assolto questo compito. Molte notizie si debbono a Plutarco. Tra i moderni, oltre al Delatte ed all'opera un po' vecchia dello Chaignet su Pythagore et la philosophie pythagoricienne, Paris, 2a ed. 1874, ed al Verbo di Pitagora di Augusto Rostagni, Torino, 1924, faremo uso dell'opera The Theoretic Arithmetic of the Pythagoreans, London 1816; 2a ed., Los Angeles, 1934, del dotto grecista inglese Thomas Taylor che fu un neo-platonico ed un neo-pitagorico; e tra gli storici della matematica faremo uso delle Scienze esatte nell'antica Grecia, Milano, Hoepli, 1914, 2a ed., di Gino Loria, e dell'opera A History of Greeck Mathematics di T. Heath, 1921. Per la matematica moderna l'unità è il primo numero della serie naturale dei numeri interi. Essi si ottengono partendo dall'unità ed aggiungendo successivamente un'altra unità. La stessa cosa non accade per l'aritmetica pitagorica. Infatti una stessa parola, monade, indicava l'unità dell'aritmetica e la monade intesa nel senso che oggi diremmo metafisico; ed il passaggio dalla monade universale alla dualità non è così semplice come il passaggio dall'uno al due mediante l'addizione di due unità.
In aritmetica, anche pitagorica, vi sono tre operazioni dirette: l'addizione, la moltiplicazione e l'innalzamento a potenza, accompagnate dalle tre operazioni inverse. Ora il prodotto dell'unità per sé stessa è ancora l'unità, ed una potenza dell'unità è ancora l'unità; quindi soltanto l'addizione permette il passaggio dall'unità alla dualità. Questo significa che per ottenere il due bisogna ammettere che vi possano essere due unità, ossia avere già il concetto del due, ossia che la monade possa perdere il suo carattere di unicità, che essa possa distinguersi e che vi possa essere una duplice unità od una molteplicità di unità. Filosoficamente si ha la questione del monismo e del dualismo, metafisicamente la questione dell'Essere e della sua rappresentazione, biologicamente la questione della cellula e della sua riproduzione. Ora se si ammette la intrinseca ed essenziale unicità dell'Unità, bisogna ammettere che un'altra unità non può essere che una apparenza; e che il suo apparire è una alterazione dell'unicità proveniente da una distinzione che la Monade opera in sé stessa. La coscienza opera in simil modo una distinzione tra l'io ed il non io. Secondo il Vedanta advaita questa è una illusione, anzi è la grande illusione, e non c'è da fare altro che liberarsene. Non è però una illusione che vi sia questa illusione, anche se essa può essere superata. I pitagorici dicevano che la diade era generata dall'unità che si allontanava o separava da sé stessa, che si scin-deva in due: ed indicavano questa differenziazione o polarizzazione con varie parole: dieresi, tolma. Per la matematica pitagorica l'unità non era un numero, ma era il principio di tutti i numeri, diciamo principio e non inizio. Una volta ammessa l’esistenza di un'altra unità e di più unità, dall'unità derivano poi per addizione il due e tutti i numeri. I pitagorici concepivano i numeri come formati o costituiti o raffigurati da punti variamente disposti. Il punto era definito dai pitagorici l'u-nità avente posizione, mentre per Euclide il punto è ciò che non ha parti. L'unità era rappresentata dal punto od anche, quando venne in uso il sistema alfabetico di numerazione scritta, dalla lettera A od α, che serviva per scrivere l'unità. Una volta ammessa la possibilità dell'addizione dell'unità ed ottenuto il due, raffigurato dai due punti estremi di un segmento di retta, si può seguitare ad aggiungere delle unità, ed ottenere suc-cessivamente tutti i numeri rappresentati da due, tre, quattro... punti allineati. Si ha in tal modo lo sviluppo lineare dei numeri. Tranne il due che si può ottenere soltanto come addizione di due unità, tutti i numeri interi possono essere considerati sia come somma di altri numeri; per esempio il cin-que è 5 = 1 + 1 + 1 + 1 + 1; ma è anche 5 = 1 + 4 e 5 = 2 + 3. L'uno ed il due non godono di questa proprietà generale dei numeri: e perciò come l'unità anche il due non era un numero per gli antichi pitagorici ma il principio dei numeri pari. Questa concezione si perdette col tempo perché Platone parla del due come pari , ed Aristotele parla del due come del solo numero primo pari. Il tre a sua volta può essere considerato solo come somma dell'uno e del due: mentre tutti gli altri numeri, oltre ad essere somma di più unità, sono anche somma di parti ambedue diverse dall'unità; alcuni di essi possono essere considerati come somma di due parti eguali tra loro nello stesso modo che il due è somma di due unità e si chiamano i numeri pari per questa loro somiglianza col paio, così per esempio il 4 = 2 + 2, il 6 = 3 + 3 ecc. sono dei numeri pari; mentre gli altri, come il tre ed il cinque che non sono la somma di due parti o due addendi eguali, si chiamano numeri dispari. Dunque la triade 1, 2, 3 gode di proprietà di cui non godono i numeri maggiori del 3. Nella serie naturale dei numeri, i numeri pari e dispari si succedono alternativamente; i numeri pari hanno a comune col due il carattere cui abbiamo accennato e si possono quindi sempre rappresentare sotto forma di un rettangolo in cui un lato contiene due punti, mentre i numeri dispari non presentano come l'unità questo carattere, e, quando si possono rappresentare sotto forma rettangolare, accade che la base e l'altezza contengono rispettivamente un numero di punti che è a sua volta un numero dispari. Nicomaco riporta anche una definizione più antica: esclusa la diade fondamentale, pari è un numero che si può dividere in due parti eguali o disuguali, parti che sono entrambe pari o dispari, ossia, come noi diremmo, che hanno la stessa parità; mentre il numero dispari si può dividere solo in due parti diseguali, di cui una pari e l'altra dispari, ossia in parti che hanno diversa parità. Secondo l'Heath questa distinzione tra pari e dispari rimonta senza dubbio a Pitagora, cosa che non stentiamo a credere; ed il Reidemeister dice che la teoria del pari e del dispari è pitagorica, che in questa nozione si adombra la scienza logica matematica dei pitagorici e che essa è il fondamento della metafisica pitagorica. Numero impari, dice Virgilio, Deus gaudet.
La tradizione massonica si conforma a questo riconoscimento del carattere sacro o divino dei numeri dispari, come risulta dai numeri che esprimono le età iniziatiche, dal numero delle luci, dei gioielli, dei fratelli componenti una officina ecc. Dovunque si presenta una distinzione, una polari-tà, si ha una analogia con la coppia del pari e del dispari, e si può stabilire una corrispondenza tra i due poli ed il pari ed il dispari; cosi per i Pitagorici il maschile era dispari ed il femminile pari, il destro era dispari ed il sinistro era pari.... I numeri, a cominciare dal tre, ammettono oltre alla raffigurazione lineare anche una raffigurazione superficiale, per esempio nel piano. Il tre è il primo numero che ammette oltre alla raffigurazione lineare una raffigurazione piana, mediante i tre vertici di un triangolo (equilatero). Il tre è un triangolo, o numero triangolare; esso è il risultato del mutuo accoppiamento della monade e della diade; il due è l'analisi dell'unità, il tre è la sintesi dell'unità e della diade. Si ha così con la triunità la manifestazione od epifania della monade nel mondo superficiale. Aritmeticamente 1 + 2 = 3. Proclo osservò che il due ha un carattere in certo modo intermedio tra l'unità ed il tre. Non soltanto perché ne è la media aritmetica, ma anche perché è il solo numero per il quale accade che sommandolo con sé stesso o moltiplicandolo per sé stesso, si ottiene il medesimo risultato, mentre per l'unità il prodotto dà di meno della somma e per il tre il prodotto dà di più. Modernamente invece è stato osservato che 1, 2, 3 sono i soli numeri interi positivi la cui somma sia eguale al prodotto. Si può anche riconoscere facilmente che l, 2, 3 è la sola terna di interi consecutivi per la quale accade che la somma dei primi due è eguale al terzo; infatti l'equazione x + (x + l) = x + 2 ammette per unica soluzione x = 1. Cosi pure si riconosce subito mediante la raffigu-razione geometrica che la somma di più interi consecutivi supera sempre il numero che segue l'ultimo degli addendi, tranne nel caso in cui gli addendi sono due in cui si ha: 1 + 2 = 3. Concludendo la triade, la santa triunità, si può ottenere solo mediante l'addizione della monade e della diade.
Ottenuto cosi il tre che, considerando la monade come potenzialmente triangolare, è il secondo numero triangolare, si possono ottenere altri numeri triangoli disponendo al di sotto della base il numero tre e si ottiene il numero triangolare 6; e così seguitando disponendo sotto la base quattro punti si ottiene il dieci ecc.
Esso è perciò un quadrato; è il secondo quadrato, perché l’unità è il quadrato di uno. Lo gnomone del quadrato, ossia la differenza tra il 4 che è il secondo quadrato ed il quadrato precedente è 3, il terzo quadrato, ossia come noi diciamo il quadrato di base 3, si ottiene nella raffigurazione geometrica aggiungendo al di sotto ed a destra uno gnomone a forma di squadra composto di 5 punti; e così via si passa da un quadrato al successivo aggiungendo successivamente i numeri dispari. Si vede così che anche i quadrati crescono conservando la similitudine della forma; e, poiché attorno ad un punto si possono disporre quattro angoli retti congruenti ed in ognuno di essi un quadrato, ne segue che, sviluppando omoteticamente rispetto al vertice comune come centro di omotetia i quattro quadrati, si ottiene il riempimento totale ed isotropico del piano mediante quadrati.
Aritmeticamente basta scrivere in una prima riga i numeri dispari, e nella seconda operare come si è fatto per i numeri triangolari per ottenere i quadrati: 1 scrivendo sotto ogni elemento della prima riga la sua somma col precedente. A differenza del numero tre, il numero quattro ammette anche una raffigurazione geometrica spaziale. Precisamente, conducendo la perpendicolare al piano di un triangolo equilatero per il suo centro, vi è su di essa un punto che ha dai tre vertici del triangolo distanza eguale al lato; i quattro punti sono i vertici di un tetraedro, chiamato piramide dai greci , ossia di una piramide regolare a base triangolare, che è la rappresentazione nello spazio del numero quattro. Anche in questo caso è possibile lo sviluppo omotetico rispetto ad uno dei vertici, ossia si può disporre al di sotto della base il numero triangolare consecutivo e si ottengono così i numeri tetraedrici. Lo gnomone del tetraedro è costituito dal triangolare che si aggiunge al tetraedro precedente. Il primo numero tetraedrico è l'unità: il secondo è 4 perché 1 + 3 = 4; il terzo è 10 perché 4 + 6 = 10. Come per delimitare un segmento di retta occorrono due punti, il minimo numero di rette con cui si delimita una porzione di piano è il tre; tra tutti i numeri piani il tre è il minimo; analogamente il minimo numero di piani occorrente per delimitare una porzione dello spazio è quattro; tra tutti i numeri solidi il 4 ossia il tetraedro è il minimo. Secondo Platone (cfr. il Timeo) questo tetraedro o piramide, come egli lo chiama, è l'ultima particella costituente i corpi, ossia l'atomo o molecola della materia. Naturalmente oggi sappiamo che gli atomi o le molecole non hanno questa forma e che non sono affatto indivisibili, ma vale la pena di notare che il corpo che possiede la maggiore saldezza molecolare, ossia il diamante, ha la molecola composta di quattro atomi disposti a forma di tetraedro regolare . Aggiungendo l'unità all'unità si è passati dal punto alla linea, individuata da due punti; aggiun-gendo a questi due punti un altro punto si può passare al piano mediante il triangolo; ed aggiun-gendo ancora l'unità si può passare allo spazio mediante il tetraedro. Ma restando nei limiti dell'in-tuizione umana dello spazio tridimensionale non è possibile aggiungere una unità ai quattro vertici del tetraedro prendendo un punto fuori dello spazio tridimensionale e raffigurare il 5 come una pi-ramide dell'iperspazio avente per base il tetraedro. In altre parole dall'unità si passa al due e si ha la linea, dal due si passa al tre e si ha il piano, dal tre si passa al quattro e si ha lo spazio: eppoi bisogna smettere, si è giunti alla fine del procedimento. Ora, secondo l'accezione aristotelica ed anche semplicemente greca della parola perfezione, le cose sono perfette quando sono terminate, completate: il limite, la fine è una perfezione. Nel nostro caso, siccome il quattro è l'ultimo numero che si ottiene passando dal punto alla linea, dalla linea al piano e dal piano alla spazio, perché non si può raffigurare un quinto punto fuori dello spazio definito dai quattro vertici del tetraedro, il quattro è, nel senso generico greco e pitagorico della perfezione, un numero perfetto. L'assieme della mona-de, della diade, della triade e della tetrade comprende il tutto: il punto, la linea, la superficie ed il mondo concreto materiale solido; e non si può andare oltre. Quindi anche la somma 1 + 2 + 3 + 4 = 10 ossia l'assieme o la quaterna dell'unità, della dualità, della trinità o della tetrade, ossia la decade, è perfetta e contiene il tutto. Ogni assieme o somma di quattro cose è detta con parola pitagorica tetractis; e vi sono varie tetractis; ma questa che abbiamo ora considerato è la tetractis per eccellenza, la tetractis pitagorica per la quale i pitagorici prestavano giuramento. Un frammento di Speusippo osserva che il dieci contiene in sé la varietà lineare, piana e solida di numero, perché 1 è un punto, 2 una linea, 3 un triangolo e 4 una piramide . Filone ebreo , ripetendo concetti pitagorici, dice che quattro sono i limiti delle cose: punto, linea, superficie e solido, e Gemino dice che l'aritmetica è divisa nella teoria dei numeri lineari, nella teoria dei numeri piani e nella teoria dei numeri solidi. La perfezione, ossia il completamento della manifestazione universale, è raggiunta col dieci che è la somma dei numeri sino a quattro. La decade contiene il tutto, come l'unità, che contiene il tutto potenzialmente. Questa constatazione è il risultato del limite posto allo sviluppo dei numeri dalla tridimensionalità della spazio, e si perverrebbe al riconoscimento di questa stessa proprietà del 4 e del 10 anche se la numerazione parlata invece di essere la numerazione decimale fosse per esempio una numerazione a base dodecimale o a base ternaria. Per altro constatiamo la coincidenza. La ragione per cui la numerazione parlata greca, latina, italiana ecc. è decimale, sta nel fatto che l'uomo possiede dieci dita delle mani, le quali sono di grande aiuto nel contare (contare a mena dito) tanto che nella scrittura latina e greca antica l'unità era rappresentata da un dito identificato in seguito con la lettera I. L'ultimo dito è il decimo, e quindi il 10 è perfetto. Il cinque ha nelle due scritture speciale rappresentazione, in greco mediante l'iniziale della parola pente, in latino mediante la palma, o spanna della mano aperta in seguito identificata con la lettera V, poiché presso i latini la scrittura dei numeri precorre la conoscenza e l'uso dell'alfabeto; ed il 10 è rappresentato in greco dalla lettera Δ iniziale di decade e che ha la forma di un triangolo equilatero mentre in latino è rappresentato dalle due mani aperte ed opposte ossia dal segno in seguito identificato con la lettera X. Questi segni bastano nella scrittura greca e latina dei numeri alla rappresentazione o scrittura dei numeri sino al cento, cui provvede in greco l'iniziale H della parola Hecaton, ed in latino un segno in seguito identificato colla iniziale di centum. Tanto la tetractis pitagorica che la numerazione parlata pongono in evidenza l'importanza del numero dieci per vie assolutamente indipendenti. E questa non è la sola concordanza tra il 4 ed il 10 perché la lingua greca forma i nomi dei numeri dal dieci al 99 mediante i nomi dei primi dieci numeri, introduce un nome nuovo per indicare il 100, eppoi un nome nuovo per indicare il mille, ed in fine un nuovo ed ultimo nome per indicare la decina di migliaia o miriade. Questa stessa parola μύριοι, diversamente accentata μυρίοι, indica un numero grandissimo indeterminato. Insomma la lingua greca dispone soltanto di quattro nomi, dopo il nove, per designare le prime quattro potenze del dieci e si arresta alla quarta potenza, come la somma dei numeri interi ha termine col quattro nella tetractis.
Una terza constatazione relativa alla decade (e quindi alla tetractis) è la seguente: Dopo l'unità che è potenzialmente poligonale, piramidale e poliedrico di qualunque genere, il primo numero che è simultaneamente lineare, triangolare e tetraedrico, e compare quindi nella irradiazione dell'unità e nella più semplice forma di manifestazione e di concretizzazione dell'unità, è il numero dieci. Esso è il primo numero che compare simultaneamente nelle tre successioni dei numeri lineari, triangolari e tetraedrici.
Una quarta constatazione è fornita dalla osservazione che la lettera delta è la quarta lettera dell'alfabeto greco ed ha la forma di un triangolo equilatero. La lettera D = delta è la quarta lettera anche nell'alfabeto etrusco, latino e fenicio e nei varii alfabeti greci (in uso nei varii periodi); e, sebbene l'ordine delle lettere di un alfabeto non sia un ordine stabilito da una legge di natura, occorre non trascurare questa osservazione per il valore che potevano annetterle i pitagorici o parte di essi. La decade è dunque il quarto numero triangolare ed il terzo tetraedrico ed è rappresentata nella scrittura dei numeri dalla sua iniziale che è la quarta lettera dell'alfabeto ed ha la forma di un triangolo. Il simbolo pitagorico della tetractis, nella sua forma schematica di triangolo equilatero, coincide manifestamente colla forma schematica del delta massonico, ed anche con la forma schematica del delta cristiano simbolo della Trinità. Questa ultima assimilazione vien fatta facilmente, anzi con faciloneria, specialmente schiaffandoci dentro tanto di occhio del Padre eterno. Il carattere cristiano del simbolo massonico non è più tanto appariscente quando; come spesso accade, nel triangolo compare scritto il tetragrammaton, ossia, il nome di Dio in quattro lettere, così designato dai caba-listi con parola greca; e sparisce addirittura quando il triangolo è collocato entro la stella fiammeg-giante a cinque punte o pentalfa pitagorico, come nel frontespizio dell'Etoile Flamboyante del Ba-rone De Tschoudy, cui è attribuito il rituale del 14° grado del Rito Scozzese. Inoltre il delta sacro, che è insieme al sole ed alla luna; uno dei tre lumi sublimi della società dei liberi muratori, come dice il rituale dell'Apprendista, si trova nei lavori di primo grado tra i simboli del sole e della luna dietro il seggio del Venerabile; mentre nei lavori di secondo grado è sostituito dalla Stella fiammeggiante. Le rispettive età iniziatiche dell'apprendista e del compagno corrispon-dono a questa sostituzione. Ne deriva una connessione tra i due simboli; e, siccome senza ombra di dubbio, la stella a cinque punte è simbolo caratteristico tanto dall'antico sodalizio pitagorico che della massoneria, ne risulta confermata la identificazione del delta massonico con la tetractis pita-gorica. Per attribuire un carattere cristiano anche allo stellone a cinque punte non resterebbe che af-fermare che tale era la forma della stella apparsa, secondo il quarto Vangelo, ai tre re Magi, Melchiorre, Gaspare e Baldassarre; ma il quarto Vangelo su questo punto non si pronunzia; e gli altri Vangeli, i tre sinottici, non fanno la minima menzione dei tre re magi. E siccome gli antichi documenti attestano la continuità della tradizione massonica che si richiama a Pitagora, la identificazione della massoneria con la geometria e la pretesa dei massoni di essere i soli a conoscere i numeri sacri, ci pare che la identificazione del Delta massonico con la tetractis pitagorica sia confortata da argomenti di maggior peso che non la identificazione col simbolo cristiano. Tra i simboli muratorii non compare alcun simbolo cristiano, neppure la croce; compaiono invece, ed è naturale, solo simboli di mestiere e simboli geometrici, architettonici e numerici. Se il delta massonico avesse il carattere cristiano esso sarebbe un simbolo isolato, spaesato, di cui non si comprenderebbe la esistenza e la eterogeneità in massoneria.. Insistiamo su questo punto non solamente perché è doveroso per la serietà e la serenità delle indagini critiche non lasciarsi fuorviare da simpatie od antipatie, ma perché l'incomprensione e l'ignoranza in proposito sono antiche ed essenziali, e molti rituali, invece di guidare i fratelli verso la piena intelligenza del simbolismo, contribuiscono in buona o mala fede ad impedire quella interpretazione che è indispensabile per comprendere il senso puramente muratorio del simbolismo. Con questo non intendiamo affermare né scorgere un contrasto tra la tetractis pitagorica o delta massonico ed il simbolo cristiano della Trinità. Tale opposizione del ternario cristiano al quaterna-rio pitagorico fu opera del fanatismo miope dei cristiani dei primi secoli; ed era ingiustificata perché, come vedremo, i pitagorici furono degli esaltatori della triade, e questa loro consuetudine di noverare e venerare in tutte le cose il numero tre li guidò persino nella classificazione dei numeri. Riassumendo, il due si può ottenere soltanto mediante l'addizione, e soltanto mediante l'addizione di due unità. Il tre si può ottenere soltanto mediante l'addizione, in cui almeno uno dei termini è l'unità. Dal quattro in poi tutti i numeri si possono ottenere mediante addizione di termini tutti distinti, dall'unità. La raffigurazione geometrica dei numeri nello spazio tridimensionali ha termine ed è perfetta col numero quattro, e siccome la somma 1 + 2 + 3 + 4 = 10 è anche la nuova unità del sistema di numerazione decimale, ne segue la perfezione del quattro e della decade ed il simbolo della tetractis. Perciò i pitagorici non si occuparono in modo speciale dei numeri maggiori del dieci che si esprimevano nel linguaggio e nella scrittura mediante il dieci ed i numeri precedenti, e per questa ragione, forse, ridussero ai primi nove numeri i numeri maggiori del dieci mediante la considerazione del loro fondo, ossia sostituendo ad essi il resto della loro divisione per nove od il nove stesso quando il numero era un multiplo del nove: resto che essi ottenevano facilmente mediante la ben nota regola del resto della divisione per nove. Poiché lo sviluppo dei numeri per addizione ha termine col quattro, occorre considerare ora lo sviluppo o generazione dei numeri mediante la moltiplicazione. Che i pitagorici siano effettivamente ricorsi a questo criterio di distinzione è certo, perché il numero sette era consacrato ed assimilato a Minerva perché come Minerva era vergine e non generato, ossia non era fattore di alcun numero (entro la decade) e non era prodotto di fattori. I numeri si distinguono quindi in numeri che non sono prodotti di altri numeri ossia in numeri primi od asintetici, ed in numeri che sono prodotti o numeri composti o sintetici. Tenendo conto dei soli numeri entro la decade, i numeri si suddividono in quattro classi: la classe dei numeri primi entro la decade che sono fattori di numeri della decade: e sono il due (che veramente non è un numero) ma compare come fattore del 4, del 6, dell'8 e del 10, il tre che è fattore del 6 e del 9; ed il 5 che è fattore del 10. La seconda classe è costituita dai numeri primi minori del 10 che non sono fattori di numeri minori del 10, ed è costituita dal solo numero sette. La terza classe è costituita dai numeri composti, inferiori al dieci, e che sono fattori di numeri minori del dieci, ed è costituita dal solo numero quattro, che è in pari tempo quadrato del due e fattore dell'8; la quarta classe è costituita dai numeri composti minori del dieci che sono prodotti di altri numeri senza essere fattori di numeri entro la decade, essa è costituita dal sei, dall'otto e dal nove, poiché 2 . 3 = 6, 2 . 2 . 2 = 2 . 4 = 8 e 3 . 3 = 9. Non tenendo conto del 10 e tenendo conto del due si hanno quattro numeri primi: 2, 3, 5, 7 di cui uno solo non produce altri numeri, e quattro numeri composti: 4, 6, 8, 9 di cui uno solo è anche fattore. Vale la pena di osservare come questo criterio pitagorico di distinzione per la classificazione dei numeri entro la decade coincide perfettamente col criterio tradizionale di distinzione cui si attiene il Vedanta per la quadruplice classificazione dei venticinque principii o tattwa, precisamente il primo principio (Prakriti) che non è produzione ma è produttivo, sette principii (Mahat, Ahamkara ed i 5 tanmatra) che sono contemporaneamente produzioni e produttivi, 16 principii (gli 11 indriya, compreso Manas ed i 5 bhuta) che sono produzioni improduttive, ed in fine Purusha che non è né produzione né produttivo. Rimandiamo il lettore in proposito alla esposizione che ne fa René Guénon ne L'uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta, Bari, Laterza, 1937. Questo stesso criterio di distinzione inspira, come ha osservato il Colebrooke (Essais sur la Philosophie des Hindous, trad. Pauthier), la divisione della Natura, fatta nel trattato De divisione Naturae di Scoto Erigena, il quale dice: «La divisione della Natura mi sembra dover essere stabilita in quattro differenti specie, di cui la prima è ciò che crea e non è creato; la seconda è ciò che è creato e crea a sua volta: la terza ciò che è creato e non crea, e la quarta infine ciò che non è creato e nemmeno crea». Naturalmente non è il caso di parlare di derivazione; comunque Pitagora, cronologicamente, precede, non solo Scoto Erigena, ma anche Sankaracharya. Resta così stabilito il carattere tradizionale della dottrina pitagorica dei numeri.
A.Reghini
Detti aurei.
Riesumare e restituire l'antica aritmetica pitagorica è opera quanto mai ardua, perché le notizie che ne sono rimaste sono scarse e non tutte attendibili. Bisognerebbe ad ogni passo ed affermazione citare le fonti e discuterne il valore; ma questo renderebbe la esposizione lunga e pesante e meno facile la intelligenza della restituzione. Perciò, in generale, ci asterremo da ogni apparato filolo-gico, ci atterremo soltanto a quanto risulta meno controverso e dichiareremo sempre quanto è sol-tanto nostra opinione o risultato del nostro lavoro. La bibliografia pitagorica antica e moderna è assai estesa, e rinunciamo alla enumerazione delle centinaia di libri, studii, articoli, e passi di autori antichi e moderni che la costituiscono. Secondo alcuni critici, storici e filosofi, Pitagora sarebbe stato un semplice moralista e non si sarebbe mai occupato di matematica; secondo certi ipercritici Pitagora non sarebbe mai esistito; ma noi abbia-mo per certa la esistenza di Pitagora, e, accettando la testimonianza del filosofo Empedocle quasi contemporaneo, riteniamo che le sue conoscenze in ogni campo dello scibile erano grandissime. Pitagora visse nel sesto secolo prima di Cristo, fondò in Calabria una scuola ed un Ordine che Aristotele chiamava scuola italica, ed insegnò tra le altre cose l'aritmetica e la geometria. Secondo Proclo, capo della scuola di Atene nel V secolo della nostra era, fu Pitagora che per il primo elevò la geometria alla dignità di scienza liberale, e secondo il Tannery la geometria esce dal cervello di Pitagora come Athena esce armata di tutto punto dal cervello di Giove. Però nessuno scritto di Pitagora od a lui attribuito è pervenuto sino a noi, ed è possibile che non abbia scritto nulla. Se anche fosse diversamente, oltre alla remota antichità che ne avrebbe ostaco-lato la trasmissione, va tenuta presente la circostanza del segreto che i pitagorici mantenevano, so-pra i loro insegnamenti, o parte almeno di essi. Un fìlologo belga, Armand Delatte, nella sua prima opera: Études sur la littérature pythagoricienne, Paris, 1915, ha fatto una dottissima critica delle fonti della letteratura pitagorica; ed ha messo in chiaro tra le altre cose che i famosi «Detti Aurei» o Versi aurei, sebbene siano una compilazione ad opera di un neo-pitagorico del II o IV secolo della nostra era, permettono di risalire quasi all'inizio della scuola pitagorica perché trasmettono materiale arcaico. Quest'opera del Delatte sarà la nostra fonte principale. Altre antiche testimonianze si hanno negli scritti di Filolao, di Platone, di Aristotele e di Timeo di Tauromenia. Filolao fu, insieme al tarantino Archita, uno dei più eminenti pitagorici nei tempi vicini a Pitagora, Timeo fu uno storico del pitagorismo, ed il grande filosofo Platone risenti fortemente l'influenza del pitagorismo e possiamo considerarlo come un pitagorico, anche se non appartenente alla setta. Assai meno antichi sono i biografi di Pitagora cioè Giamblico, Porfirio e Diogene Laerzio, che furono dei neo-pitagorici nei primi secoli della nostra era, e gli scrittori matematici Teone da Smirne e Nicomaco di Gerasa. Gli scritti matematici di questi due ultimi autori costituiscono la fonte che ci ha trasmesso l'aritmetica pitagorica. Anche Boezio ha assolto questo compito. Molte notizie si debbono a Plutarco. Tra i moderni, oltre al Delatte ed all'opera un po' vecchia dello Chaignet su Pythagore et la philosophie pythagoricienne, Paris, 2a ed. 1874, ed al Verbo di Pitagora di Augusto Rostagni, Torino, 1924, faremo uso dell'opera The Theoretic Arithmetic of the Pythagoreans, London 1816; 2a ed., Los Angeles, 1934, del dotto grecista inglese Thomas Taylor che fu un neo-platonico ed un neo-pitagorico; e tra gli storici della matematica faremo uso delle Scienze esatte nell'antica Grecia, Milano, Hoepli, 1914, 2a ed., di Gino Loria, e dell'opera A History of Greeck Mathematics di T. Heath, 1921. Per la matematica moderna l'unità è il primo numero della serie naturale dei numeri interi. Essi si ottengono partendo dall'unità ed aggiungendo successivamente un'altra unità. La stessa cosa non accade per l'aritmetica pitagorica. Infatti una stessa parola, monade, indicava l'unità dell'aritmetica e la monade intesa nel senso che oggi diremmo metafisico; ed il passaggio dalla monade universale alla dualità non è così semplice come il passaggio dall'uno al due mediante l'addizione di due unità.
In aritmetica, anche pitagorica, vi sono tre operazioni dirette: l'addizione, la moltiplicazione e l'innalzamento a potenza, accompagnate dalle tre operazioni inverse. Ora il prodotto dell'unità per sé stessa è ancora l'unità, ed una potenza dell'unità è ancora l'unità; quindi soltanto l'addizione permette il passaggio dall'unità alla dualità. Questo significa che per ottenere il due bisogna ammettere che vi possano essere due unità, ossia avere già il concetto del due, ossia che la monade possa perdere il suo carattere di unicità, che essa possa distinguersi e che vi possa essere una duplice unità od una molteplicità di unità. Filosoficamente si ha la questione del monismo e del dualismo, metafisicamente la questione dell'Essere e della sua rappresentazione, biologicamente la questione della cellula e della sua riproduzione. Ora se si ammette la intrinseca ed essenziale unicità dell'Unità, bisogna ammettere che un'altra unità non può essere che una apparenza; e che il suo apparire è una alterazione dell'unicità proveniente da una distinzione che la Monade opera in sé stessa. La coscienza opera in simil modo una distinzione tra l'io ed il non io. Secondo il Vedanta advaita questa è una illusione, anzi è la grande illusione, e non c'è da fare altro che liberarsene. Non è però una illusione che vi sia questa illusione, anche se essa può essere superata. I pitagorici dicevano che la diade era generata dall'unità che si allontanava o separava da sé stessa, che si scin-deva in due: ed indicavano questa differenziazione o polarizzazione con varie parole: dieresi, tolma. Per la matematica pitagorica l'unità non era un numero, ma era il principio di tutti i numeri, diciamo principio e non inizio. Una volta ammessa l’esistenza di un'altra unità e di più unità, dall'unità derivano poi per addizione il due e tutti i numeri. I pitagorici concepivano i numeri come formati o costituiti o raffigurati da punti variamente disposti. Il punto era definito dai pitagorici l'u-nità avente posizione, mentre per Euclide il punto è ciò che non ha parti. L'unità era rappresentata dal punto od anche, quando venne in uso il sistema alfabetico di numerazione scritta, dalla lettera A od α, che serviva per scrivere l'unità. Una volta ammessa la possibilità dell'addizione dell'unità ed ottenuto il due, raffigurato dai due punti estremi di un segmento di retta, si può seguitare ad aggiungere delle unità, ed ottenere suc-cessivamente tutti i numeri rappresentati da due, tre, quattro... punti allineati. Si ha in tal modo lo sviluppo lineare dei numeri. Tranne il due che si può ottenere soltanto come addizione di due unità, tutti i numeri interi possono essere considerati sia come somma di altri numeri; per esempio il cin-que è 5 = 1 + 1 + 1 + 1 + 1; ma è anche 5 = 1 + 4 e 5 = 2 + 3. L'uno ed il due non godono di questa proprietà generale dei numeri: e perciò come l'unità anche il due non era un numero per gli antichi pitagorici ma il principio dei numeri pari. Questa concezione si perdette col tempo perché Platone parla del due come pari , ed Aristotele parla del due come del solo numero primo pari. Il tre a sua volta può essere considerato solo come somma dell'uno e del due: mentre tutti gli altri numeri, oltre ad essere somma di più unità, sono anche somma di parti ambedue diverse dall'unità; alcuni di essi possono essere considerati come somma di due parti eguali tra loro nello stesso modo che il due è somma di due unità e si chiamano i numeri pari per questa loro somiglianza col paio, così per esempio il 4 = 2 + 2, il 6 = 3 + 3 ecc. sono dei numeri pari; mentre gli altri, come il tre ed il cinque che non sono la somma di due parti o due addendi eguali, si chiamano numeri dispari. Dunque la triade 1, 2, 3 gode di proprietà di cui non godono i numeri maggiori del 3. Nella serie naturale dei numeri, i numeri pari e dispari si succedono alternativamente; i numeri pari hanno a comune col due il carattere cui abbiamo accennato e si possono quindi sempre rappresentare sotto forma di un rettangolo in cui un lato contiene due punti, mentre i numeri dispari non presentano come l'unità questo carattere, e, quando si possono rappresentare sotto forma rettangolare, accade che la base e l'altezza contengono rispettivamente un numero di punti che è a sua volta un numero dispari. Nicomaco riporta anche una definizione più antica: esclusa la diade fondamentale, pari è un numero che si può dividere in due parti eguali o disuguali, parti che sono entrambe pari o dispari, ossia, come noi diremmo, che hanno la stessa parità; mentre il numero dispari si può dividere solo in due parti diseguali, di cui una pari e l'altra dispari, ossia in parti che hanno diversa parità. Secondo l'Heath questa distinzione tra pari e dispari rimonta senza dubbio a Pitagora, cosa che non stentiamo a credere; ed il Reidemeister dice che la teoria del pari e del dispari è pitagorica, che in questa nozione si adombra la scienza logica matematica dei pitagorici e che essa è il fondamento della metafisica pitagorica. Numero impari, dice Virgilio, Deus gaudet.
La tradizione massonica si conforma a questo riconoscimento del carattere sacro o divino dei numeri dispari, come risulta dai numeri che esprimono le età iniziatiche, dal numero delle luci, dei gioielli, dei fratelli componenti una officina ecc. Dovunque si presenta una distinzione, una polari-tà, si ha una analogia con la coppia del pari e del dispari, e si può stabilire una corrispondenza tra i due poli ed il pari ed il dispari; cosi per i Pitagorici il maschile era dispari ed il femminile pari, il destro era dispari ed il sinistro era pari.... I numeri, a cominciare dal tre, ammettono oltre alla raffigurazione lineare anche una raffigurazione superficiale, per esempio nel piano. Il tre è il primo numero che ammette oltre alla raffigurazione lineare una raffigurazione piana, mediante i tre vertici di un triangolo (equilatero). Il tre è un triangolo, o numero triangolare; esso è il risultato del mutuo accoppiamento della monade e della diade; il due è l'analisi dell'unità, il tre è la sintesi dell'unità e della diade. Si ha così con la triunità la manifestazione od epifania della monade nel mondo superficiale. Aritmeticamente 1 + 2 = 3. Proclo osservò che il due ha un carattere in certo modo intermedio tra l'unità ed il tre. Non soltanto perché ne è la media aritmetica, ma anche perché è il solo numero per il quale accade che sommandolo con sé stesso o moltiplicandolo per sé stesso, si ottiene il medesimo risultato, mentre per l'unità il prodotto dà di meno della somma e per il tre il prodotto dà di più. Modernamente invece è stato osservato che 1, 2, 3 sono i soli numeri interi positivi la cui somma sia eguale al prodotto. Si può anche riconoscere facilmente che l, 2, 3 è la sola terna di interi consecutivi per la quale accade che la somma dei primi due è eguale al terzo; infatti l'equazione x + (x + l) = x + 2 ammette per unica soluzione x = 1. Cosi pure si riconosce subito mediante la raffigu-razione geometrica che la somma di più interi consecutivi supera sempre il numero che segue l'ultimo degli addendi, tranne nel caso in cui gli addendi sono due in cui si ha: 1 + 2 = 3. Concludendo la triade, la santa triunità, si può ottenere solo mediante l'addizione della monade e della diade.
Ottenuto cosi il tre che, considerando la monade come potenzialmente triangolare, è il secondo numero triangolare, si possono ottenere altri numeri triangoli disponendo al di sotto della base il numero tre e si ottiene il numero triangolare 6; e così seguitando disponendo sotto la base quattro punti si ottiene il dieci ecc.
Esso è perciò un quadrato; è il secondo quadrato, perché l’unità è il quadrato di uno. Lo gnomone del quadrato, ossia la differenza tra il 4 che è il secondo quadrato ed il quadrato precedente è 3, il terzo quadrato, ossia come noi diciamo il quadrato di base 3, si ottiene nella raffigurazione geometrica aggiungendo al di sotto ed a destra uno gnomone a forma di squadra composto di 5 punti; e così via si passa da un quadrato al successivo aggiungendo successivamente i numeri dispari. Si vede così che anche i quadrati crescono conservando la similitudine della forma; e, poiché attorno ad un punto si possono disporre quattro angoli retti congruenti ed in ognuno di essi un quadrato, ne segue che, sviluppando omoteticamente rispetto al vertice comune come centro di omotetia i quattro quadrati, si ottiene il riempimento totale ed isotropico del piano mediante quadrati.
Aritmeticamente basta scrivere in una prima riga i numeri dispari, e nella seconda operare come si è fatto per i numeri triangolari per ottenere i quadrati: 1 scrivendo sotto ogni elemento della prima riga la sua somma col precedente. A differenza del numero tre, il numero quattro ammette anche una raffigurazione geometrica spaziale. Precisamente, conducendo la perpendicolare al piano di un triangolo equilatero per il suo centro, vi è su di essa un punto che ha dai tre vertici del triangolo distanza eguale al lato; i quattro punti sono i vertici di un tetraedro, chiamato piramide dai greci , ossia di una piramide regolare a base triangolare, che è la rappresentazione nello spazio del numero quattro. Anche in questo caso è possibile lo sviluppo omotetico rispetto ad uno dei vertici, ossia si può disporre al di sotto della base il numero triangolare consecutivo e si ottengono così i numeri tetraedrici. Lo gnomone del tetraedro è costituito dal triangolare che si aggiunge al tetraedro precedente. Il primo numero tetraedrico è l'unità: il secondo è 4 perché 1 + 3 = 4; il terzo è 10 perché 4 + 6 = 10. Come per delimitare un segmento di retta occorrono due punti, il minimo numero di rette con cui si delimita una porzione di piano è il tre; tra tutti i numeri piani il tre è il minimo; analogamente il minimo numero di piani occorrente per delimitare una porzione dello spazio è quattro; tra tutti i numeri solidi il 4 ossia il tetraedro è il minimo. Secondo Platone (cfr. il Timeo) questo tetraedro o piramide, come egli lo chiama, è l'ultima particella costituente i corpi, ossia l'atomo o molecola della materia. Naturalmente oggi sappiamo che gli atomi o le molecole non hanno questa forma e che non sono affatto indivisibili, ma vale la pena di notare che il corpo che possiede la maggiore saldezza molecolare, ossia il diamante, ha la molecola composta di quattro atomi disposti a forma di tetraedro regolare . Aggiungendo l'unità all'unità si è passati dal punto alla linea, individuata da due punti; aggiun-gendo a questi due punti un altro punto si può passare al piano mediante il triangolo; ed aggiun-gendo ancora l'unità si può passare allo spazio mediante il tetraedro. Ma restando nei limiti dell'in-tuizione umana dello spazio tridimensionale non è possibile aggiungere una unità ai quattro vertici del tetraedro prendendo un punto fuori dello spazio tridimensionale e raffigurare il 5 come una pi-ramide dell'iperspazio avente per base il tetraedro. In altre parole dall'unità si passa al due e si ha la linea, dal due si passa al tre e si ha il piano, dal tre si passa al quattro e si ha lo spazio: eppoi bisogna smettere, si è giunti alla fine del procedimento. Ora, secondo l'accezione aristotelica ed anche semplicemente greca della parola perfezione, le cose sono perfette quando sono terminate, completate: il limite, la fine è una perfezione. Nel nostro caso, siccome il quattro è l'ultimo numero che si ottiene passando dal punto alla linea, dalla linea al piano e dal piano alla spazio, perché non si può raffigurare un quinto punto fuori dello spazio definito dai quattro vertici del tetraedro, il quattro è, nel senso generico greco e pitagorico della perfezione, un numero perfetto. L'assieme della mona-de, della diade, della triade e della tetrade comprende il tutto: il punto, la linea, la superficie ed il mondo concreto materiale solido; e non si può andare oltre. Quindi anche la somma 1 + 2 + 3 + 4 = 10 ossia l'assieme o la quaterna dell'unità, della dualità, della trinità o della tetrade, ossia la decade, è perfetta e contiene il tutto. Ogni assieme o somma di quattro cose è detta con parola pitagorica tetractis; e vi sono varie tetractis; ma questa che abbiamo ora considerato è la tetractis per eccellenza, la tetractis pitagorica per la quale i pitagorici prestavano giuramento. Un frammento di Speusippo osserva che il dieci contiene in sé la varietà lineare, piana e solida di numero, perché 1 è un punto, 2 una linea, 3 un triangolo e 4 una piramide . Filone ebreo , ripetendo concetti pitagorici, dice che quattro sono i limiti delle cose: punto, linea, superficie e solido, e Gemino dice che l'aritmetica è divisa nella teoria dei numeri lineari, nella teoria dei numeri piani e nella teoria dei numeri solidi. La perfezione, ossia il completamento della manifestazione universale, è raggiunta col dieci che è la somma dei numeri sino a quattro. La decade contiene il tutto, come l'unità, che contiene il tutto potenzialmente. Questa constatazione è il risultato del limite posto allo sviluppo dei numeri dalla tridimensionalità della spazio, e si perverrebbe al riconoscimento di questa stessa proprietà del 4 e del 10 anche se la numerazione parlata invece di essere la numerazione decimale fosse per esempio una numerazione a base dodecimale o a base ternaria. Per altro constatiamo la coincidenza. La ragione per cui la numerazione parlata greca, latina, italiana ecc. è decimale, sta nel fatto che l'uomo possiede dieci dita delle mani, le quali sono di grande aiuto nel contare (contare a mena dito) tanto che nella scrittura latina e greca antica l'unità era rappresentata da un dito identificato in seguito con la lettera I. L'ultimo dito è il decimo, e quindi il 10 è perfetto. Il cinque ha nelle due scritture speciale rappresentazione, in greco mediante l'iniziale della parola pente, in latino mediante la palma, o spanna della mano aperta in seguito identificata con la lettera V, poiché presso i latini la scrittura dei numeri precorre la conoscenza e l'uso dell'alfabeto; ed il 10 è rappresentato in greco dalla lettera Δ iniziale di decade e che ha la forma di un triangolo equilatero mentre in latino è rappresentato dalle due mani aperte ed opposte ossia dal segno in seguito identificato con la lettera X. Questi segni bastano nella scrittura greca e latina dei numeri alla rappresentazione o scrittura dei numeri sino al cento, cui provvede in greco l'iniziale H della parola Hecaton, ed in latino un segno in seguito identificato colla iniziale di centum. Tanto la tetractis pitagorica che la numerazione parlata pongono in evidenza l'importanza del numero dieci per vie assolutamente indipendenti. E questa non è la sola concordanza tra il 4 ed il 10 perché la lingua greca forma i nomi dei numeri dal dieci al 99 mediante i nomi dei primi dieci numeri, introduce un nome nuovo per indicare il 100, eppoi un nome nuovo per indicare il mille, ed in fine un nuovo ed ultimo nome per indicare la decina di migliaia o miriade. Questa stessa parola μύριοι, diversamente accentata μυρίοι, indica un numero grandissimo indeterminato. Insomma la lingua greca dispone soltanto di quattro nomi, dopo il nove, per designare le prime quattro potenze del dieci e si arresta alla quarta potenza, come la somma dei numeri interi ha termine col quattro nella tetractis.
Una terza constatazione relativa alla decade (e quindi alla tetractis) è la seguente: Dopo l'unità che è potenzialmente poligonale, piramidale e poliedrico di qualunque genere, il primo numero che è simultaneamente lineare, triangolare e tetraedrico, e compare quindi nella irradiazione dell'unità e nella più semplice forma di manifestazione e di concretizzazione dell'unità, è il numero dieci. Esso è il primo numero che compare simultaneamente nelle tre successioni dei numeri lineari, triangolari e tetraedrici.
Una quarta constatazione è fornita dalla osservazione che la lettera delta è la quarta lettera dell'alfabeto greco ed ha la forma di un triangolo equilatero. La lettera D = delta è la quarta lettera anche nell'alfabeto etrusco, latino e fenicio e nei varii alfabeti greci (in uso nei varii periodi); e, sebbene l'ordine delle lettere di un alfabeto non sia un ordine stabilito da una legge di natura, occorre non trascurare questa osservazione per il valore che potevano annetterle i pitagorici o parte di essi. La decade è dunque il quarto numero triangolare ed il terzo tetraedrico ed è rappresentata nella scrittura dei numeri dalla sua iniziale che è la quarta lettera dell'alfabeto ed ha la forma di un triangolo. Il simbolo pitagorico della tetractis, nella sua forma schematica di triangolo equilatero, coincide manifestamente colla forma schematica del delta massonico, ed anche con la forma schematica del delta cristiano simbolo della Trinità. Questa ultima assimilazione vien fatta facilmente, anzi con faciloneria, specialmente schiaffandoci dentro tanto di occhio del Padre eterno. Il carattere cristiano del simbolo massonico non è più tanto appariscente quando; come spesso accade, nel triangolo compare scritto il tetragrammaton, ossia, il nome di Dio in quattro lettere, così designato dai caba-listi con parola greca; e sparisce addirittura quando il triangolo è collocato entro la stella fiammeg-giante a cinque punte o pentalfa pitagorico, come nel frontespizio dell'Etoile Flamboyante del Ba-rone De Tschoudy, cui è attribuito il rituale del 14° grado del Rito Scozzese. Inoltre il delta sacro, che è insieme al sole ed alla luna; uno dei tre lumi sublimi della società dei liberi muratori, come dice il rituale dell'Apprendista, si trova nei lavori di primo grado tra i simboli del sole e della luna dietro il seggio del Venerabile; mentre nei lavori di secondo grado è sostituito dalla Stella fiammeggiante. Le rispettive età iniziatiche dell'apprendista e del compagno corrispon-dono a questa sostituzione. Ne deriva una connessione tra i due simboli; e, siccome senza ombra di dubbio, la stella a cinque punte è simbolo caratteristico tanto dall'antico sodalizio pitagorico che della massoneria, ne risulta confermata la identificazione del delta massonico con la tetractis pita-gorica. Per attribuire un carattere cristiano anche allo stellone a cinque punte non resterebbe che af-fermare che tale era la forma della stella apparsa, secondo il quarto Vangelo, ai tre re Magi, Melchiorre, Gaspare e Baldassarre; ma il quarto Vangelo su questo punto non si pronunzia; e gli altri Vangeli, i tre sinottici, non fanno la minima menzione dei tre re magi. E siccome gli antichi documenti attestano la continuità della tradizione massonica che si richiama a Pitagora, la identificazione della massoneria con la geometria e la pretesa dei massoni di essere i soli a conoscere i numeri sacri, ci pare che la identificazione del Delta massonico con la tetractis pitagorica sia confortata da argomenti di maggior peso che non la identificazione col simbolo cristiano. Tra i simboli muratorii non compare alcun simbolo cristiano, neppure la croce; compaiono invece, ed è naturale, solo simboli di mestiere e simboli geometrici, architettonici e numerici. Se il delta massonico avesse il carattere cristiano esso sarebbe un simbolo isolato, spaesato, di cui non si comprenderebbe la esistenza e la eterogeneità in massoneria.. Insistiamo su questo punto non solamente perché è doveroso per la serietà e la serenità delle indagini critiche non lasciarsi fuorviare da simpatie od antipatie, ma perché l'incomprensione e l'ignoranza in proposito sono antiche ed essenziali, e molti rituali, invece di guidare i fratelli verso la piena intelligenza del simbolismo, contribuiscono in buona o mala fede ad impedire quella interpretazione che è indispensabile per comprendere il senso puramente muratorio del simbolismo. Con questo non intendiamo affermare né scorgere un contrasto tra la tetractis pitagorica o delta massonico ed il simbolo cristiano della Trinità. Tale opposizione del ternario cristiano al quaterna-rio pitagorico fu opera del fanatismo miope dei cristiani dei primi secoli; ed era ingiustificata perché, come vedremo, i pitagorici furono degli esaltatori della triade, e questa loro consuetudine di noverare e venerare in tutte le cose il numero tre li guidò persino nella classificazione dei numeri. Riassumendo, il due si può ottenere soltanto mediante l'addizione, e soltanto mediante l'addizione di due unità. Il tre si può ottenere soltanto mediante l'addizione, in cui almeno uno dei termini è l'unità. Dal quattro in poi tutti i numeri si possono ottenere mediante addizione di termini tutti distinti, dall'unità. La raffigurazione geometrica dei numeri nello spazio tridimensionali ha termine ed è perfetta col numero quattro, e siccome la somma 1 + 2 + 3 + 4 = 10 è anche la nuova unità del sistema di numerazione decimale, ne segue la perfezione del quattro e della decade ed il simbolo della tetractis. Perciò i pitagorici non si occuparono in modo speciale dei numeri maggiori del dieci che si esprimevano nel linguaggio e nella scrittura mediante il dieci ed i numeri precedenti, e per questa ragione, forse, ridussero ai primi nove numeri i numeri maggiori del dieci mediante la considerazione del loro fondo, ossia sostituendo ad essi il resto della loro divisione per nove od il nove stesso quando il numero era un multiplo del nove: resto che essi ottenevano facilmente mediante la ben nota regola del resto della divisione per nove. Poiché lo sviluppo dei numeri per addizione ha termine col quattro, occorre considerare ora lo sviluppo o generazione dei numeri mediante la moltiplicazione. Che i pitagorici siano effettivamente ricorsi a questo criterio di distinzione è certo, perché il numero sette era consacrato ed assimilato a Minerva perché come Minerva era vergine e non generato, ossia non era fattore di alcun numero (entro la decade) e non era prodotto di fattori. I numeri si distinguono quindi in numeri che non sono prodotti di altri numeri ossia in numeri primi od asintetici, ed in numeri che sono prodotti o numeri composti o sintetici. Tenendo conto dei soli numeri entro la decade, i numeri si suddividono in quattro classi: la classe dei numeri primi entro la decade che sono fattori di numeri della decade: e sono il due (che veramente non è un numero) ma compare come fattore del 4, del 6, dell'8 e del 10, il tre che è fattore del 6 e del 9; ed il 5 che è fattore del 10. La seconda classe è costituita dai numeri primi minori del 10 che non sono fattori di numeri minori del 10, ed è costituita dal solo numero sette. La terza classe è costituita dai numeri composti, inferiori al dieci, e che sono fattori di numeri minori del dieci, ed è costituita dal solo numero quattro, che è in pari tempo quadrato del due e fattore dell'8; la quarta classe è costituita dai numeri composti minori del dieci che sono prodotti di altri numeri senza essere fattori di numeri entro la decade, essa è costituita dal sei, dall'otto e dal nove, poiché 2 . 3 = 6, 2 . 2 . 2 = 2 . 4 = 8 e 3 . 3 = 9. Non tenendo conto del 10 e tenendo conto del due si hanno quattro numeri primi: 2, 3, 5, 7 di cui uno solo non produce altri numeri, e quattro numeri composti: 4, 6, 8, 9 di cui uno solo è anche fattore. Vale la pena di osservare come questo criterio pitagorico di distinzione per la classificazione dei numeri entro la decade coincide perfettamente col criterio tradizionale di distinzione cui si attiene il Vedanta per la quadruplice classificazione dei venticinque principii o tattwa, precisamente il primo principio (Prakriti) che non è produzione ma è produttivo, sette principii (Mahat, Ahamkara ed i 5 tanmatra) che sono contemporaneamente produzioni e produttivi, 16 principii (gli 11 indriya, compreso Manas ed i 5 bhuta) che sono produzioni improduttive, ed in fine Purusha che non è né produzione né produttivo. Rimandiamo il lettore in proposito alla esposizione che ne fa René Guénon ne L'uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta, Bari, Laterza, 1937. Questo stesso criterio di distinzione inspira, come ha osservato il Colebrooke (Essais sur la Philosophie des Hindous, trad. Pauthier), la divisione della Natura, fatta nel trattato De divisione Naturae di Scoto Erigena, il quale dice: «La divisione della Natura mi sembra dover essere stabilita in quattro differenti specie, di cui la prima è ciò che crea e non è creato; la seconda è ciò che è creato e crea a sua volta: la terza ciò che è creato e non crea, e la quarta infine ciò che non è creato e nemmeno crea». Naturalmente non è il caso di parlare di derivazione; comunque Pitagora, cronologicamente, precede, non solo Scoto Erigena, ma anche Sankaracharya. Resta così stabilito il carattere tradizionale della dottrina pitagorica dei numeri.
A.Reghini
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