27 marzo 2012

- ( 2 ) Simboli d'individuazione nella basilica sotterranea di Porta Maggiore in Roma












I segni astrali.

E veniamo a considerare gli stucchi relativi a due segni astrali: I Gemelli ed il Toro. Nella costellazione dei Gemelli i Greci riconoscevano due famosi eroi, i fratelli Castore e Polluce, figli del padre mortale Tindaro e del padre divino Zeus. La madre era la famosa Leda, amata da Giove sotto forma di cigno. L'epilogo della vita avventurosa di Castore e Polluce si ebbe nella lotta che essi sostennero con un'altra coppia di gemelli, Linceo e Idas, figli di Aforeo. Dallo scontro il solo Polluce uscì superstite. Egli allora si rivolse a Zeus chiedendogli di poter morire anche lui. Ma il padre degli dei gli rivelò che ciò non era possibile: Polluce era immortale, mentre Castore era stato generato da seme mortale. Zeus offrì quindi al sopravvissuto due alternative: vivere sempre da solo sull'Olimpo, oppure vivere in compagnia del fratello un giorno sull'Olimpo ed un giorno nell'Ade. Polluce scelse la seconda soluzione. Il mito di Castore e Polluce simboleggia la vita e la morte, il giorno e la notte, il male ed il bene, la tesi e l'antitesi. L'archetipo dei due gemelli si ritrova in tutte le tradizioni primitive. Abbiamo in precedenza considerato l'importanza che per il pensiero pitagorico riveste il concetto degli opposti. Vorrei qui rammentare che essi erano intesi non in contraddizione, ma in reciproca mediazione e sintesi. Il mito dei due gemelli con diverso destino allude all'aspetto immortale della vita umana. Riecheggia anche il mito dell'arimaspe in lotta spasmodica per il proprio tesoro, che può essere sempre perduto e riconquistato. I gemelli rappresentano lo spirito e la materia non più in antitesi, ma finalmente conciliati; rappresentano quindi una maggiore armonia di inserimento nella vita, una migliore comprensione di quest'ultima: la vita non è luce e non è ombra, ma è invece la coesistenza di questi due opposti; e l'uomo è attratto dall'uno più che dall'altro a seconda del grado di consapevolezza raggiunto. L'« integrazione » è un'esperienza fondamentale dell'analisi junghiana: « il conflitto tra estroversione ed introversione, tra tendenze regressive e progressive, l'opposizione dialettica delle quattro funzioni (l'Io, la persona, l'ombra, l'anima-animus) e del Sé, la loro vicendevole relazione nelle loro innumerevoli manifestazioni, costituiscono il completo dinamismo della teoria e della pratica della psicologia di Jung ». Il riconoscimento e accettazione dell'ombra è dunque l'aspetto che soprattutto risulta nel mito dei Dioscuri, una volta trasferito tale mito sul piano psicologico. Dice Jung: « L'ombra è un problema morale che sfida tutta la personalità, perché nessuno può diventare conscio dell'ombra senza un considerevole sforzo morale. Diventarne consci significa riconoscere gli aspetti oscuri della personalità come presenti e reali ». Da parte sua la Jacobi rileva: « Se si vuoi rendere cosciente l'ombra mediante il lavoro analitico, bisogna aspettarsi una forte resistenza da parte dell'analizzando, che non tollera affatto di considerare appartenente a sé tutto quel buio e teme sempre di veder crollare sotto il peso di questo riconoscimento l'edificio del suo !o faticosamente costruito e tenuto in piedi... Per quanto amaro, il calice non può venir risparmiato ». Tanto l'affermazione di Jung che quella della Jacobi sembrerebbero porre l'accento su un certo modo di condurre l'analisi, modo che consiste nel mettere in risalto gli aspetti negativi dell'analizzando, affinchè questi possa integrarli in una personalità cosciente. Ma io mi domando se tale modo di procedere sia proprio necessario e se, in fin dei conti, sia terapeuticamente efficace. Ognuno di noi è già costretto nella vita di tutti i giorni, in abbondanza, a sorbire il calice amaro. La vita, con le sue strutture sociali, ottiene più che bene lo scopo di far conoscere al singolo le sue manchevolezze, i suoi talloni di Achille. I contatti che si hanno prima in casa, poi a scuoia e quindi nel campo del lavoro, sono quasi sempre contatti che tendono a far risaltare l'ombra piuttosto che la luce. Questa affermazione mi sembra incontrovertibile. Ora, nel momento analitico, il paziente non ha bisogno di ulteriori amarezze: l'ombra, in fondo, non è così ombra come potrebbe sembrare. Essa è una parte caratteristica dell'uomo, sulla quale bisogna far leva affinchè il paziente comprenda non soltanto la propria negatività, ma tutta la globalità del suo essere. Il paziente nevrotico ha già una vita difficile. La chiarificazione dei complessi può avvenire solo a condizione che egli prenda fiducia nel suo lo e cominci a conoscere le sue potenzialità intrinseche. C'è anche l'ombra, s'intende, in tali potenzialità: ma esse, pur essendo bifronti, costituiscono un tutt'uno: ed è così che vanno prospettate. Accanto allo stucco dei gemelli, osserviamo quello del toro. L'interpretazione simbolica del toro non è molto chiara, e le ipotesi avanzate sono molteplici. Le popolazioni sumeriche, che tanto si sentirono dominate da una moltitudine di divinità, dettero supremazia assoluta al dio toro. I Sumeri erano convinti della partecipazione del toro al fenomeno della fecondazione. Anche gli antichi abitanti dell'india avevano culti taurini connessi ai riti di fecondazione. Alcune testimonianze persiane mettono in evidenza che il dio degli dei creò un toro addirittura prima di Gaymont, il primo superuomo. In Egitto, fin dalla prima dinastia, si adorava il dio Apis sotto forma di toro. Nella mitologia greca Zeus, trasformato in toro, rapisce Europa, ha una relazione con Antiope, cerca di violentare la sorella Demetra. Eliade riferisce che a Creta si leggeva uno strano epitaffio: « Qui giace il grande bovino che si chiama Zeus ». Sempre a Creta, il toro era considerato come una dinamica riserva di energia. Inoltre, secondo una credenza egiziana, la salma di Osiride, era condotta nelle sfere celesti sulle spalle di un toro, che diveniva così simbolo di mediazione fra il cielo e la terra. Nel volume « Mitologia dell'anima », di Baynes, troviamo rappresentato, nel disegno di un paziente, il toro celeste: esso appare in posizione emergente, come un sole che stia per sorgere. Secondo Baynes il toro del disegno simboleggia la liberazione dell'energia primordiale, che in quel momento prendeva davvero a funzionare nella vita del paziente. Stando al Frazer, il toro, per i popoli pastori, è un naturale emblema di vigorosa energia riproduttiva. Lo stesso significato hanno alcuni reperti archeologici siriani, nei quali è visibile una dea, con gli organi genitali esposti, seduta su di un toro: Neumann ritiene che in questo caso il toro sia simbolo di mascolinità. Nel rito mitriaco l'uccisione del toro è un atto creativo: dalla morte sorge nuova vita. Crediamo quindi che si possa vedere in questo segno astrale il simbolo della forza istintiva, della vitalità che defluisce naturalmente. E' significativo, mi sembra, che assai spesso nelle fiabe una prova dell'eroe consista nella lotta con un toro: la von Franz avanza l'ipotesi che tale lotta, vittoriosa, simboleggi la superiorità della umana consapevolezza sulle emotive forze animali. Giustamente però aggiunge che il problema dell'uomo moderno è quello di ritrovare una via alle sue forze originarie istintive. E io credo che, in chiave psicologica, proprio questo sia il messaggio dello stucco ora esaminato: l'uomo non si distacchi mai dalle sue potenzialità inconsce.

Il ratto delle Leucippidi.

Uno fra gli stucchi più belli rappresenta il ratto delle Leucippidi. Le figlie di Leucippo, Febe ed Maria, erano state promesse in spose ai loro cugini, i gemelli Idas e Linceo. I Dioscuri le rapirono dando vita ad un feroce combattimento fra le due coppie di gemelli. Poniamoci ora una domanda: qual è il valore psicologico del ratto? Il ratto è stato probabilmente la prima forma di rapporto fra uomo e donna. In un clima indifferenziato di minacce, pericoli, lotta per il cibo e probabile amore periodico, la donna è soggetta senza possibilità di difesa alle violenze cicliche del maschio. Il ratto per la donna rappresenta un cambio di stato: vi è la perdita della verginità e la trasformazione in donna generatrice. Ma quest'evoluzione positiva si ha dopo il ratto; al momento in cui esso avviene la donna, come appare in tutte le raffigurazioni antiche, è atrocemente spaventata: nel nostro stucco, ad esempio, una delle Leuccipidi ha il terrore stampato sul viso mentre tende le braccia in un'invocazione di aiuto. Gli aspetti psicologici fondamentali del ratto stanno dunque nel « passaggio » da una fase all'altra della vita e nella decisione forte, vorrei dire nella violenza, nello « strappo », che precede tale passaggio: Vi sono momenti del vivere in cui bisogna « correre il rischio », bisogna cioè sottrarsi agli schemi protettivi di un contesto sociale che basa la sua forza su inevitabili costrizioni individuali; in quei momenti è necessario porre in gioco la propria onorabilità, la reputazione, insomma, tutti quei valori che la società difende e protegge, e che assicurano al singolo il generale rispetto: un rispetto sempre pagato con la stretta osservanza di certe regole. Nell'attimo in cui si « decide » che il proprio destino individuale è più forte della banalità organizzata, allora non c'è altra soluzione che lo « strappo », la rottura degli schemi. E quando uno di quei momenti giunge a maturare, la decisione va presa subito, con violenza, altrimenti si rischia di rimandare per anni e anni la svolta decisiva della propria vita. Andiamo ora verso il centro della volta, i cui motivi mitologici si dispongono in un chiaro proseguimento del processo finora illustrato. Intorno al quadro centrale, che mi riservo di analizzare in seguito, vi sono quattro stucchi raffiguranti quattro coppie di personaggi; Orfeo ed Euridice, Ulisse ed Elena, Giasone e Medea, Èrcole ed Esione. L'accostamento di tali personaggi non dev'essere stato casuale; io credo che l'artista, nella creazione dei suoi stucchi abbia seguito alcuni particolari motivi conduttori. La prima cosa che viene in mente a proposito di queste quattro coppie, è che tutte hanno in comune il tema del viaggio nell'altro mondo: Orfeo, dopo la perdita di Euridice, discese negli inferi per tentare la riconquista della donna amata. Giasone salpò verso il misterioso paese di Colchide per impadronirsi del vello d'oro, e questo viaggio, come ci attesta l'arte funeraria, simboleggia una discesa nell'oltretomba; Èrcole compì la sua più dura fatica recandosi nell'Ade per catturare Cerbero; Ulisse come racconta l'undicesimo canto dell'Odissea, incontrò le ombre dei morti nella lontana terra dei Cimmerii, avvolta in un continuo crepuscolo nebbioso. L'ombra di Tiresia diede all'eroe utili consigli contro i pericoli da superare durante il resto del viaggio. La discesa nel mondo degli inferi rappresenta sul piano psicologico, la discesa nell'inconscio. Nelle storie d'eroi, nelle avventure dei protagonisti di fiabe, si presenta spesso la necessità di penetrare nel fondo della madre terra, alla ricerca di un tesoro, di una donna, di un qualcosa il cui ritrovamento è indispensabile per l'ulteriore sviluppo della vicenda. La discesa nell'inconscio, dunque, è una tappa fondamentale per la conoscenza delle forze oscure e sconosciute che muovono la nostra esistenza e la spingono verso il suo vero significato. Questo viaggio non è mai senza pericoli: c'è sempre un mostro, un tranello, un gigante, insomma un ostacolo che mira ad atterrire l'eroe e indurlo alla fuga. Due sono allora i possibili atteggiamenti: la rinuncia o il tuffo nell'avventura. Chi sceglie questa seconda via, lo fa perché spinto da un'esigenza insopprimibile: conosce il pericolo, sa che rischia la morte, ma la morte fisica è per lui preferibile a quella psicologica; la rinuncia significherebbe la completa identificazione con i valori vegetativi della natura. Certo, il viaggio incute spavento perché implica la necessità di avventurarsi in un territorio misterioso le cui particolari caratteristiche non hanno quasi risonanza in chi si accinge all'impresa; bisogna avanzare senza sapere se le forze di cui si dispone saranno adeguate, e, per di più, senza una chiara percezione di quel che sta avvenendo, tanto che il senso stesso della avventura sembra sfuggire all'eroe; e tuttavia il viaggio è necessario per la rinascita psicologica: è il percorso obbligato verso l'individuazione. A volte questo tipo dì percorso si manifesta nelle visioni oniriche come una difficile e penosa immersione marina. Domandiamoci ora a cos'altro possono alludere — oltre che alla discesa nell'inconscio — le quattro coppie di personaggi: io credo che Giasone, Orfeo, Ulisse ed Èrcole stiano a rappresentare i quattro tipi psicologici propriamente detti, mentre Medea, Euridice, Elena ed Esione rappresentino le quattro strutture fondamentali della psicologia femminile. Vorrei tentare di dimostrarlo: Giasone affronta le sue imprese non in maniera violenta, ma cercando come prima cosa di chiarirsi le idee: discute con pacatezza ogni problema, scevera attentamente i fatti e si sforza sempre di giungere ad una soluzione razionale. In Colchide, mentre i compagni tengono consiglio di guerra, Giasone reputa che sia meglio presentarsi prima ad Eete e trattare con lui la restituzione del vello d'oro. Nonostante l'iniziale sgarberia del re, Giasone non perde la sua calma e gentilezza. Continua ad esporre le sue argomentazioni fino a quando Eete non può rifiutarsi di accettare un compromesso. Giasone è un eroe solare, i cui principali attributi sono la bellezza fisica, la lealtà, l'inalterabile limpidezza dei suoi atteggiamenti di fronte ai vari casi della vita. Da come affronta le situazioni, potremmo dire che egli usa soprattutto la funzione del pensiero: non commette azioni impulsive, comprende la realtà esterna e vi si adatta. La donna che gli è vicina nello stucco è la consorte, Medea, la maga, l'incantatrice. E' l'unica donna che partecipa con i cinquanta eroi alla conquista del vello d'oro, e la sua presenza si rivela indispensabile per la riuscita dell'impresa. Medea non stabilisce mai un rapporto autentico col marito, vive con lui in uno stato di rivalità, e più volte gli fa notare che i troni posseduti da Giasone dipendono dal potere di Medea. Il fatto di essere moglie di un eroe non le basta: ha bisogno di vittorie e conquiste sue personali, che persegue mediante l'arte magica, equivalente della forza maschile nel mondo antico. Fino all'ultimo non accetta alcuna superiorità o autorità: ella appartiene al tipo di donna Amazzone, indipendente, incapace di dar vita ad un'armoniosa relazione psicologica con l'uomo, ma capacissima di diventare per lui un compagno d'avventura, di dividere con lui fatiche ed imprese. Naturalmente il tipo amazzone presenta tutti gli aspetti negativi caratteristici della donna in preda alla protesta virile, che non riconosce alcuna autorità, affronta il mondo soprattutto con strumenti intellettuali, e, se si sposa, considera il matrimonio soltanto come un mezzo per lo sviluppo dei suoi interessi personali. Orfeo era così abile nel cantare e nel suonare la lira che la dolcezza della sua musica e il profondo sentimento della sua poesia riuscirono ad ammansire le bestie feroci, e smuovere le montagne e gli alberi, che lasciarono le loro secolari radici per seguirlo ed ascoltarlo. Orfeo partecipò alla spedizione degli argonauti, e il suo canto fu decisivo nel superamento di alcuni pericoli. Egli è il simbolo della musica e della poesia, è il simbolo del sentimento spinto alla sua espressione più intensa: il rapporto con Euridice fu « sentito » a tal punto che la tradizione vuole addirittura Orfeo sbranato dalle Menadi, rese furiose dal suo completo disinteresse per qualsiasi altra donna. Quando Euridice, cercando di sfuggire ad un atto di violenza, incespicò in un serpente e morì per il morso, Orfeo fu preso dalla disperazione. Osò tutto quel che un mortale poteva osare: scese nel Tartaro e supplicò gli inferi di rendergli la sposa. Persefone si commosse profondamente al dolore di Orfeo, e gli concesse di portar via Euridice ad una condizione; non doveva voltarsi a guardarla in viso prima di uscire alla luce del sole. Ma come Psiche, a causa della sua femminilità piena di sentimento non resiste alla proibizione ed apre la scatola che le farà nuovamente perdere Amore, così Orfeo, legato com'è alla funzione sentimentale, non riesce a trattenere lo impulso di guardare Euridice e perde per sempre la donna amata. Euridice rappresenta la donna madre, piena di carità e di comprensione. Per lei Orfeo è costretto a scendere nel Tartaro, ad ampliare quindi le sue dimensioni spirituali. Ella riesce a sviluppare e rendere armoniche tali dimensioni al punto che Orfeo, di ritorno dall'Ade, fonda nuovi misteri a cui accorrono tutti gli uomini di Tracia. Ulisse ed Elena ebbero diversi contatti. Il loro incontro più importante, quello a cui allude lo stucco, si riferisce ad un episodio narrato nel libro IV dell'Odissea: Troia sarebbe caduta soltanto se i greci fossero riusciti a rubare dalla città il Palladio di Atena; Ulisse si fece ridurre lacero e sanguinante, e potè in tal modo introdursi a Troia fingendosi uno schiavo fuggiasco. Elena fu l'unica a riconoscerlo, ma non lo tradì e Ulisse rivelò i piani della conquista. Lo stucco li rappresenta appunto durante tale colloquio. Più tardi, con l'aiuto di Elena, egli riuscì ad impadronirsi del Palladio. Ulisse è l'eroe del grande viaggio, l'uomo intrepido e paziente che sa sfruttare le occasioni più labili per raggiungere i suoi obiettivi. Nelle situazioni strane ed insolite, quando le idee e i valori correnti non possono essere d'aiuto, Ulisse, facendo ricorso alla intuizione, è capace di decisioni istantanee. Ora, dice Jung, « l'intuizione è un modo di percepire la realtà non più attraverso la coscienza, ma attraverso l'inconscio. E non è soltanto una mera percezione; è un processo creativo che si impadronisce della realtà esterna e tenta di modificarla ». Nel pieno d'un qualunque caso difficile e problematico, insomma, l'intuizione mira per sua natura ad uno sbocco che nessun'altra funzione sarebbe in grado di trovare. La figura di Elena è una delle più interessanti della mitologia greca. La sua bellezza provocò ben due guerre. Quando Afrodite volle convincere Paride a donare il pomo ad Elena, ne mise in evidenza soprattutto l'aspetto passionale e ardente: « Sono certa che, se ti vedesse, abbandonerebbe !a sua casa e le sue famiglie, tutto insomma, per divenire la tua amante ». Elena infatti fuggì con Paride, e si dette all'uomo amato nel primo porto dove gettarono l'ancora. I troiani restarono fortemente colpiti dalla bellezza di Elena, e in ultimo tutta Troia era innamorata di lei. Sta scritto in un testo antico: « Elena è la dea sovranamente bella che passa e diffonde intorno a sé il fascino irresistibile della sua persona... La sua figura penetra come un raggio di illuminazione interiore per far comprendere quello di cui, nel pieno empito sentimentale, è capace l'animo umano ». Da un punto di vista psicologico, mi sembra che Elena rappresenti il tipo di donna interamente impegnata nel rapporto col partner: « II suo interesse istintivo è diretto verso il contenuto della relazione e verso l'uomo. L'uomo d'altronde tende spesso ad evitare un rapporto totale, vissuto in tutte le sue potenzialità, o comunque il rapporto è per lui meno conscio e meno importante, perché può distrarlo dai suoi impegni. Per questo tipo di donna, invece, il rapporto è decisivo: qualsiasi altra cosa, sicurezza sociale, posizione, rispettabilità, viene da lei considerata secondaria e non importante ». E veniamo all'ultima coppia, Èrcole ed Esione. La funzione psicologica dominante in Èrcole è a mio giudizio quella della sensazione. Se osserviamo il semidio nei momenti che precedono le dodici fatiche, notiamo che molte divinità vengono in suo aiuto: Hermes gli dona una spada, Apollo frecce ed archi, Efesto uno scudo d'oro e Minerva una tunica miracolosa. Ma Èrcole rifiuta questi doni, perché li sente al di fuori della sua esperienza: preferisce servirsi soltanto della fida clava e del suo arco. Egli, insomma, resta ancorato a ciò che può con immediatezza — e superficialità — toccare, comprendere, conoscere: « II tipo sensoriale prende ogni cosa come viene, vive le sue esperienze per quelle che sono, in modo diretto, né il pensiero tenta di indagare in cerca di spiegazioni più profonde. Il pane è il pane; al di là di questo dato evidente non c'è nulla, ciò che conta è la forza e il piacere della sensazione ». I poeti comici greci puntarono ben presto sulla figura di Èrcole. Misero in ridicolo la sua straordinaria capacità di ingurgitare cibi, la sua mancanza di sottigliezza. Quando Èrcole si trovò ad affrontare la città degli uccelli, che minacciava la vita degli dei, venne meno al suo compito per seguire l'odore di pietanze squisite. Consideriamo ora l'incontro di Èrcole ed Esione: egli s'imbattè nella fanciulla completamente nuda, avvinta ad una roccia in attesa di essere divorata da un mostro. Esione, figlia di Leomedonte, doveva essere sacrificata per espiare le colpe del padre. Ma Èrcole la liberò e uccise il drago. Il motivo della vergine esposta al mostro e liberata dall'eroe, è un pattern classico riscontrabile in tutte le mitologie e fiabe del mondo. Tale motivo fu studiato dal Frazer che lo interpretò come il retaggio di un costume arcaico, secondo il quale si dovevano sacrificare vergini agli spiriti delle acque. Nel particolare caso di Esione, come vedremo in seguito, l'esposizione al mostro ci servirà per illuminare di luce riflessa la figura di questa donna, dato che su di lei abbiamo pochissime fonti mitologiche dirette. Ma, ripeto, di questo parleremo in seguito. Quello che ora mi interessa esaminare è il modo con cui Èrcole combattè ed uccise il mostro: egli saltò nelle sue immense fauci e trascorse ben tre giorni nel ventre della fiera prima di riemergerne vittorioso; nella lotta però perse completamente la capigliatura. Scrive il Graves: « La leggenda di Èrcole che salva Esione, paragonabile alla leggenda di Perseo che salva Andromaca, deriva senza dubbio da una raffigurazione assai diffusa in Siria e Asia Minore: la vittoria di Marduk sul drago marino Tiemat. Èrcole, come Marduk, viene inghiottito dal mostro e sparisce per tre giorni prima di riemergerne vittorioso dalla sua bocca. Cosi pure, secondo il racconto morale ebraico che a quanto pare si ispira alla medesima fonte, Giona passò tre giorni nel ventre della balena. E il re di Babilonia, rappresentante di Marduk, trascorreva ogni anno tre giorni di ritiro, come se dovesse simbolicamente lottare contro Tiemat... La calvizie di Èrcole accentua il suo carattere di Dio solare: una ciocca di capelli recisa quando l'anno volgeva al termine, simboleggiava infatti un affievolirsi della magica forza del re sacro, come d'altronde accade nella leggenda di Sansone. Quando il re riappariva, aveva il cranio liscio come quello di un neonato... ». Ora mi sembra che Graves non faccia altro che porre l'accento sul tema dell'inghiottimento da parte del mostro, ma senza metterne in luce il vero significato; c'è poi da dire che, valutando il particolare dei capelli perduti come un « affievolirsi della forza » Graves ne da un'interpretazione troppo riduttiva. Più acutamente Propp individua nel tema inghiottimento - eruttazione un complesso rito di tipo iniziatico: « Le forme di questo rito mutano, ma hanno pur sempre caratteri costanti. Noi lo conosciamo attraverso il racconto di coloro che lo hanno subito, e ne hanno violato il segreto, attraverso testimoni oculari, miti, informazioni ricavate dalle arti figurative. Una di queste forme consiste nel far passare l'iniziando attraverso un congegno che rappresenta un animale mostruoso. Là dove già si costruivano edifici, quest'animale era rappresentato da una capanna o da una casa di forma speciale. S'immaginava che l'iniziando venisse digerito e quindi vomitato come un uomo nuovo. Dove ancora non esistevano edifici, si ricorreva ad altri mezzi. Cosi in Australia il drago era raffigurato da una cavità sinuosa nella terra; altre volte nell'alveo asciutto d'un fiume si erigeva una tettoia, e davanti a questa si collocava un pezzo di albero spaccato raffigurante le fauci ». Potremmo dunque dire che nella lotta con il mostro Èrcole viene sottoposto ad una rigenerazione completa, ad una vera e propria rinascita. Questo è il senso, io credo, della perdita dei capelli, della riapparizione al terzo giorno « con il cranio liscio come quello di un neonato ». Graves non accenna questa interpretazione, suppongo, a causa della sua resistenza emotiva verso tutto ciò che suona di psicologia analitica. Più volte egli ha attaccato, in un modo che mi sembra legittimo definire gratuito, le scoperte di Jung. Dice Graves che la mitologia non va studiata in un gabinetto psichiatrico, ma nei contesti della storia, dell'archeologia e delle religioni comparate. Ebbene, in una nota su ciò che si deve intendere per fenomenologia dello spirito nell'ambito della favola, Jung dice testualmente: « ... la teoria della struttura della psiche non fu dedotta dalle favole e dai miti, ma si fonda su esperienze e osservazioni appartenenti alla sfera della ricerca medico-psicologica; e solo in una seconda fase questa teoria ha trovato conferma nello studio comparativo dei simboli, in campi prima lontanissimi per il medico ». Nessun psicologo analista ha mai affermato di studiare la mitologia attraverso i sogni dei pazienti. Quel che invece si può sostenere è che la presenza di temi mitologici nel materiale onirico di un qualunque analizzando — temi a volte del tutto ignoti alla coscienza del sognatore — indica l'esistenza di un inconscio al di là delle esperienze del singolo individuo, quindi un inconscio collettivo, comune a tutti. Ed allora lo psicologo deve chiedersi che significato ha quel mito, prima nel suo contesto storico, archeologico ed antropologico, e poi nella psicologia stessa del paziente. Vorrei comunque premettere che il mito si esprime attraverso simboli. I simboli sono, per cosi dire, il modo con il quale lo psicologo si accorge d'essere di fronte ad una modalità non del tutto personale, vale a dire legata alla storia del soggetto: questa modalità, tanto per dare un nome, viene chiamata da Jung archetipo. Quella dell'archetipo è una espressione innocente che ha suscitato ansie ed improperi specialmente fra gli incompetenti che non hanno mai consultato un testo di Jung, documentandosi soltanto sull'ormai famigerato falso scientifico del signor Glover! Dice Jung: « Gli archetipi si possono definire fattori e motivi, che ordinano gli elementi psichici in certe immagini... e in modo tale che si possono riconoscere soltanto dal loro effetto. Esse sono preconsce e formano presumibilmente le dominanti strutturali della psiche in genere... Come condizioni a priori, gli archetipi rappresentano il caso psichico del ' pattern of behaviour — modello di comportamento — familiare al biologo, che presta ad ogni essere vivente il suo modo psichico ». E' più oltre « L'attivarsi di un archetipo è assai probabilmente dovuto a un mutamento dello stato di coscienza che esige una nuova forma di compensazione ». Ed eccoci a parlare di Esione. Le fonti mitologiche riportano di questa fanciulla pochi ed insignificanti particolari. Sembrerebbe quasi che la sua figura serva da stimolo e veicolo per le imprese altrui: nel nostro caso, ad esempio, ella provoca sia pur indirettamente la rigenerazione di Èrcole. Credo quindi si possa affermare che Esione rappresenti il tipo psicologico della donna mediatrice, la cui prima caratteristica è lo spirito di sacrificio: in tutti i racconti mitologici in cui una vergine viene offerta in olocausto al mostro, è ella stessa che si reca impavida sul luogo. Inoltre, aspetto più importante, questo tipo di donna rappresenta uno strumento attivatore dei processi archetipici maschili: Èrcole, che era stato schiavo di una donna, si riscatta salvando una donna attraverso la lotta che, come abbiamo visto, allude ad un processo. Esione evidenziò il suo ruolo di mediatrice anche in un'altra significativa circostanza: Troia era stata distrutta da Èrcole e Telemone, che avevano annientato quasi tutta la famiglia reale: sopravvissuti erano soltanto Esione ed il più piccolo dei suoi fratelli, Priamo; la fanciulla implorò Èrcole, di risparmiare almeno il bambino, e l'eroe esaudì la preghiera. I discendenti di Priamo dovevano poi sostenere una parte molto incisiva nella storia del mondo antico. Vorrei ora soffermarmi sul fatto che Esione ottenne la salvezza del fratello non solo supplicando, ma anche facendo dono ad Èrcole di un velo ricamato in oro: il velo, da un lato è simbolo di protezione femminile, dall'altro rappresenta l'« invisibile », quindi lo spirito; Esione impegna tutto il suo spirito — tutto il suo inconscio — per salvare il piccolo Priamo: « la donna mediatrice è quasi schiacciata dagli effetti dell'inconscio; essa è assorbita e formata da esso e qualche volta quasi lo rappresenta». Riassumiamo ora il significato dei quattro quadri mitologici. Il motivo comune è il viaggio nel mondo sotterraneo, che quasi sempre è l'ultima fatica o l'ultimo obbligo che viene assegnato all'eroe. Ed è un'avventura che simboleggia lo sforzo verso l'individuazione. Il ritorno prelude ad un completo rinnovamento dell'eroe che è riuscito a superare la più difficile delle imprese. (Si ricordi ad esempio la discesa di Enea nell'oltretomba, e come egli ne ritorni più forte e più coraggioso). Il mito di tale viaggio trova il suo equivalente psicologico nell'indagine analitica dell'inconscio. Che tale indagine sia pericolosa e richieda molto coraggio, è inutile sottolineare. Quest'indagine tende all'individuazione che è, nel senso pitagorico, armonia e bellezza. I quattro quadri stanno inoltre a simboleggiare le funzioni e le strutture psicologiche femminili. Ma non dobbiamo intendere tali funzioni e strutture come rigidamente separate, vale a dire come rigidamente caratteristiche dell'uno o dell'altro sesso: la contrapposizione maschio-femmina mette anzi in luce il rapporto anima-animus all'interno dello stesso individuo, uomo o donna che sia. Nel momento in cui Pitagora, primo nell'antichità, riabilitava la funzione della donna, intuiva profondamente il rapporto psicologico fra le componenti maschili e femminili nella personalità di qualsiasi essere umano. Vorrei a questo punto ricapitolare brevemente tutto quanto finora esposto, aggiungendovi magari qualche altra considerazione: l'uomo deve conquistare e mantenere il suo tesoro più intimo con una lotta che non ha mai fine, lotta che in sostanza è un perenne confronto con l'inconscio: la situazione inconscia è infatti uno stato naturale. Dice Neumann: « non si può desiderare di rimanere inconsci, perché di fatto si è inconsci ». Il desiderio della consapevolezza è un tentativo di violenza alla stessa natura. Fra tutte le specie viventi, soltanto l'uomo manifesta questo tipo di ansia. Ma la lotta per la consapevolezza non può avere successo senza l'aiuto degli aspetti inconsci della personalità, i quali non controllati criticamente dalla censura che mira ad inserire ogni cosa nell'ambiente in cui viviamo, sono spesso più saggi e lungimiranti degli atteggiamenti consci. Si ricordi però l'affermazione di Jung: « la presunta onniscienza delle parti funzionali inconsce è naturalmente una esagerazione. Di fatto esse dispongono — e ne subiscono l'influenza — delle percezioni e dei ricordi subliminari, così come dei contenuti istintivi dell'inconscio con carattere di archetipo. Questi appunto procurano all'attività inconsce informazioni di insperata esattezza ». I miti e le fiabe ci parlano spesso di aiuti soprannaturali: tali aiuti sul piano psicologico, rappresentano il benefico influsso dell'inconscio. Il fatto straordinario e stupefacente è che, in concreto, l'uomo sulla via dell'individuazione, l'uomo cioè che vive in un continuo e vitale confronto col proprio inconscio riesce a fronteggiare e risolvere situazioni apparentemente senza via d'uscita: egli si affida soprattutto alla comprensione e assimilazione del concetto di sintesi degli opposti, per cui riesce spesso ad avere visioni per così dire « globali » delle varie circostanze e problemi, egli inoltre, non dimentica mai la presenza e l'indissolubile simultaneità di luce e ombra nella vita personale di qualsiasi individuo. Quella che Jung chiama « la più meravigliosa di tutte le leggi psicologiche, cioè la funzione regolatrice degli opposti », non fu, come già abbiamo visto, una scoperta di Eraclito, ma una formidabile intuizione pitagorica. Ricordiamo poi il valore del ratto, che, sul piano psicologico, va inteso come « rottura degli schemi » rifiuto della banalità organizzata, ricerca di una soluzione individuale al dramma dell'esistenza. E mi sembra che, oltre a ciò, il ratto possa anche alludere al rapporto anima-animus, rappresentando una volontà di unione mistica tra le componenti maschili e femminili dell'individuo. La strada verso l'armonia e la realizzazione del Sé, si snoda poi attraverso la presa di coscienza delle varie funzioni atte ad affrontare e risolvere i problemi del vivere, ma la discesa nell'inconscio è l'elemento decisivo, la condizione imprescindibile per la completa rinascita e trasformazione dell'uomo. Questa rinascita è illustrata dal ratto di Ganimede e dall'ultimo episodio della vita di Saffo.

Ganimede e Saffo

II quadro centrale della basilica ci mostra la elevazione di Ganimede all'Olimpo. Come narra Omero nell'Iliade, Ganimede era un bellissimo fanciullo, che, a causa delle sue attrattive, fu rapito direttamente in cielo per fare da coppiere agli dei. Ganimede è uno dei pochissimi esseri umani innalzati alla immortalità. Il fatto che questo quadro occupi la posizione centrale non è certo un caso: esso doveva, in un certo senso, raccogliere e sintetizzare il significato di tutte le altre illustrazioni. Tale compito va naturalmente attribuito anche agli stucchi dell'abside, che, come nelle chiese cristiane, aveva la funzione di riassumere i concetti più alti da ispirare ai fedeli. In quest'abside appare una figura femminile sul ciglio di un promontorio. Sulla testa ha un velo gonfiato dalla brezza marina. Sembra che la fanciulla stia per tuffarsi nelle onde lievemente agitate del mare. Nella mano sinistra ha una cedra. Eros la spinge premendole col braccio le spalle. Nel mare un tritone stende un velo per riceverla, mentre un altro tritone suona la buccina. Su uno scoglio siede un giovane pensoso, con la guancia al palmo della mano. In alto si vede Apollo che impugna l'arco rituale. Lo stucco si riferisce all'ultimo episodio della vita di Saffo, così come è stato tramandato dalla leggenda: respinta da Faone per la sua bruttezza fisica, Saffo si uccide lanciandosi in mare dalla rupe di Leucade. Viene subito in mente una considerazione: suscita meraviglia il fatto che i pitagorici abbiano posto in risalto un episodio tanto in contrasto col loro ideale di vita: il pitagorismo, analogamente all'idealismo cristiano, interpreta la vita umana come un perfezionamento in vista dell'immortalità, per cui non è consentito all'uomo di accorciare la durata della prova e scrollarsi di dosso il fardello. L'episodio di Saffo può essere compreso soltanto se non lo si valuta come il dramma di una morte volontaria, ma come un rito di rigenerazione che Saffo affronta con grande fede: il salto nel mare è simbolo di rinnovamento, e in questo senso si ritrova in altri racconti mitologici. Negli inni di Callimaco, ad esempio, leggiamo che Britomarte, inseguita da Minosse, riuscì a sfuggirli gettandosi in mare, e che, dopo quell'atto fu trasformata in Dea da Minerva. Apollodoro mitografo ci parla di Ino, resa folle da Giunone: dopo aver ucciso il proprio figlioletto, si lanciò in mare e divenne una divinità marina. Quando Teseo arrivò a Creta, dovette dimostrare di essere figlio di Posydone: Minosse buttò in mare un anello e gli chiese di ripescarlo. « Senza esitare Teseo si tuffò allora nel mare; un branco di delfini lo scortò fino al palazzo delle Nereidi, dove Teti gli regalò una corona ingioiellata, dono nuziale di Afrodite che più tardi cinse il capo di Arianna; altri dicono che Anfitrite, la dea del mare, gli consegnò la corona e ordinò alle Nereidi di nuotare tutt'attorno per trovarle l'anello. In ogni caso Teseo emerse dal fondo del mare reggendo sia l'anello che la corona ». Ora è senza dubbio interessante il fatto che Teseo dopo l'immersione nel mare, riporta non solo l'anello, ma anche una splendida corona. Jung ha rilevato che la corona è per eccellenza il simbolo dell'avvenuto raggiungimento di qualche alto obiettivo: chi conquista sé stesso, ottiene la corona della vita eterna. Mi sembra utile a questo punto ricordare una recente scoperta archeologica di Mario Napoli: la «Tomba del tuffatore», rinvenuta a Paestum il 3 giugno 1968. Una pregevole e plastica pittura, raffigurante un giovane teso nel tuffo, adorna la quinta lastra di questa tomba. Tra le varie interpretazioni proposte, la più convincente appare quella che si richiama ai riti di purificazione connessi alla conquista dell'immortalità. Dice Napoli: « Da quanto si è detto, apparirà chiaro che siamo presi dal forte sospetto che la Tomba del tuffatore possa essere compresa solo in chiave pitagorica. L'argomento meriterebbe una più approfondita indagine... Ma è certo che il tuffo può essere spiegato solo come allegoria della liberazione dell'anima dal peso del corruttibile corpo, per la sopravvivenza della purificata anima al di là della morte ». E' anche da riferire l'autorevole testimonianza di Carcopino: « Se noi guardiamo attentamente la Saffo della basilica, non possiamo scorgere nessuna agitazione nel suo atteggiamento; Saffo è l'esempio classico di una rigenerazione sacramentale e morale che trasforma gli iniziati » . Ma che cosa significa tutto questo in termini psicologici? Jung afferma che ogni vita, in fondo, è un processo che tende alla realizzazione della totalità, del Sé, tende insomma all'« individuazione »; e questo processo implica un rinnovamento, una « trasformazione ». Si può affermare che il vero scopo della psicologia analitica è appunto quello di provocare, in un modo o nell'altro a seconda del livello del paziente, un processo che conduce a irreversibili trasformazioni della personalità. Dice Jung: Le collettività sono somme di individui e i loro problemi somme di problemi individuali... Tali problemi non sono mai risolvibili con artifici legislativi. Per risolverli occorre un generale mutamento nei modi di concepire e affrontare i problemi dell'esistenza, mutamento che non comincia con la propaganda, coi raduni di massa o con la violenza: esso deve cominciare nei singoli, e deve consistere in una trasformazione delle loro tendenze e avversioni personali, dei loro modi di vedere le cose, dei loro valori; soltanto la somma di tali trasformazioni individuali condurrà ad una soluzione collettiva ». In un altro scritto Jung è ancora più esplicito, coinvolgendo nel processo di trasformazione anche la personalità dello psicoterapista: « Le personalità del medico e del paziente valutate « insieme » sono spesso molto più importanti — per una buona riuscita della terapia — di quanto il medico dica e pensi... L'incontro di due personalità è come l'unione di due differenti sostanze chimiche: se c'è qualche combinazione, ambedue sono trasformate. In ogni reale trattamento psicologico il medico è impegnato a influenzare il paziente; ma questa influenza può soltanto aver luogo se il paziente ha una reciproca influenza sul medico. Non si può influenzare se non si è influenzabili ». La conclusione del lungo iter pitagorico è dunque rappresentata dall'immortalità a cui viene elevato Ganimede, e dal rito di « rinascita » vissuto da Saffo. Mi sembrano a questo punto evidenti le notevoli convergenze tra il concetto di trasformazione insito nelle teorie pitagoriche e lo stesso concetto cosi come viene illustrato da Jung. Si pensi soprattutto all'importanza che i circoli pitagorici dettero alla realizzazione pratica e terrena dei precetti psicologici che essi venivano imparando dalle testimonianze del maestro. E qui vale forse la pena rammentare che anche la psicologia analitica, secondo noi, non può prescindere dall'esperimentazione dell'archetipo nella vita di tutti i giorni. Non è sufficiente a parer nostro ciò che dice la Jacobi, quando afferma che la individuazione porta al singolo quella tolleranza e quella bontà di cui è capace soltanto chi ha indagato le proprie oscure profondità e le ha consciamente vissute. Bontà e tolleranza sono soltanto tali quando si è nella mischia sino al collo e non nel ritiro di previlegiate situazioni. Nell'espressione di Jung « L'individuazione è un migliore e più completo adempimento delle finalità collettive dell'uomo », noi intravediamo quanto a cuore stesse a Jung che l'analisi ed il lavoro psicologico non estraniassero l'individuo dalle sue responsabilità verso l'ambiente di cui, volente o nolente, è partecipe. L'uomo ha un unico scopo nella vita, la fedeltà a sé stesso. Ma tale fedeltà si realizza sempre e solo su due fronti, interno ed esterno. Nel momento della trasformazione interiore, prima o poi ci si scontra con un ordine sociale collettivo che vede le innovazioni come elementi di estrema rovina. A noi sembra evidente che il contrasto individuo collettivo sia risolvibile prendendo in considerazione ambedue le modalità, mentre ci appare del tutto irrisoria l'enfasi che generalmente viene data all'uno o all'altro aspetto dagli psicologi o dai sociologi. I due momenti sono talmente intricati da essere, in pratica, inseparabili. Ed a questo proposito è iiluminante quanto scritto da Ernst Bernhard: « Una delle mie idee essenziali, che voglio realizzare con la mia mitobiografia, è quella della così detta presa di coscienza collettiva. Sono oggi del parere che la presa di coscienza collettiva individuale non è affatto possibile e non dovrebbe essere possibile senza una simultanea presa di coscienza collettiva. Poiché esse devono integrarsi reciprocamente... (infatti) in ogni analisi, in ogni situazione di presa di coscienza, deve sempre venire insieme elaborato il collettivo, e si dovrebbe sempre fare il tentativo di una presa di coscienza collettiva poiché questo risparmia una fatica immensa al singolo. Se i genitori restano inconsci, tocca ai figli far tutto, e così se il collettivo resta inconscio, devono far tutto i singoli. Naturalmente i singoli influenzano per così dire il collettivo, ma ciò che avviene nel singolo è già il collettivo ». D'altra parte ci sembra anche che l'umanità abbia di continuo oscillato fra i poli opposti del rifiuto assoluto della vita in terra ed il desiderio di creare in questo mondo un'esistenza più sopportabile e degna di questo nome. Ambedue le posizioni, comunque, offrono all'individuo una soluzione metafisica del proprio problema individuale rimandando a Dio o alla società le responsabilità dei propri destini. Possiamo definire queste posizioni come dei tentativi « paranoici » di comprensione della realtà. Di fatti l'individuo viene privato, nell'uno o nell'altro caso (Dio o società) delle sue capacità introspettive per cui, come ha notato Jung in un commento al Briccone divino l'etica di un tale individuo « è soppiantata dalla conoscenza di ciò che è permesso o proibito o comandato ». E' preoccupante notare lo sforzo demagogico corrente perché si dimentichi l'importanza dell'impegno individuale. Ciò è tanto più sconfortante se si pensa che una corretta interpretazione del marxismo evidenzia la necessità di modificare i rapporti fra gli uomini proprio perché i singoli si realizzino con maggiore « interezza » e responsabilità.

Aldo Carotenuto



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