18 marzo 2012

- ( 1 ) Simboli d'individuazione nella basilica sotterranea di Porta Maggiore in Roma












21 aprile 1917. Una voragine si apre sotto un binario della linea Roma-Napoli, nei pressi di Porta Maggiore, e viene scoperta una basilica sotterranea a tre navate, di cui la centrale termina in un'abside semicircolare. Gli esperti hanno modo di stabilire che i muri perimetrali ed i pilastri erano stati ottenuti scavando prima il terreno secondo le forme e profondità volute, e poi riempiendo gli scavi di malta e calce; il tempio era stato successivamente vuotato di tutta la terra attraverso un ampio foro adattato in ultimo a lucernaio; il pavimento della parte centrale veniva così investito dalla luce che cadeva dall'alto. L'aspetto più sorprendente della basilica, o almeno quello che più colpisce il visitatore, sta nella presenza di un gran numero di stucchi, perfettamente conservati, che riecheggiano alcuni temi fondamentali della mitologia greca. Il giornale « Notizie sugli scavi », nella prima comunicazione che della scoperta venne data a! mondo scientifico, avanzò con molta prudenza l'ipotesi che il monumento fosse stato adibito al culto di qualche religione misterica. In seguito lo studioso belga Franz Cumont, notando che la caratteristica principale del tempio consisteva nel suo essere sotterraneo, si richiamò agli spelei mitriaci. Ma bisogna dire che la maggior parte della decorazione interna è in netta contraddizione con i riti connessi alla religione di Mitra: due soli elementi, il toro e i gemelli, potrebbero riallacciarsi a tale culto; però, come verrà chiarito, questi due stucchi si riferiscono a tutt'altra simbologia. Nel 1923, infine, lo storico ed archeologo francese Carcopino dimostrava l'appartenenza della basilica ad una setta neopitagorica. Carcopino, con una buona dose di fortuna, si era imbattuto in un passo poco conosciuto di Plinio il Vecchio, là dove si accenna ad una certa erba che aveva la proprietà di rendere affascinante all'altro sesso chiunque riusciva a trovarla nelle campagne: cosa che capitò a Faone, e la povera Saffo, innamoratasi perdutamente di lui senza esserne corrisposta, si uccise lanciandosi dal promontorio di Leucade. Ora, dice Plinio, « a ciò credevano non solo quelli che si interessavano di magia, ma anche i pitagorici ». L'episodio di Saffo fa parte degli stucchi della basilica, ed occupa anzi una posizione predominante: tutta la parte superiore dell'abside semicircolare. Vedremo in seguito come questo stucco, alla luce della dottrina pitagorica e a quella della psicologia analitica, rappresenti, insieme allo stucco del ratto di Ganimede, la sintesi finale del mitologema espresso plasticamente sulle pareti e le volte della basilica. Accertata dunque l'appartenenza del monumento alla setta neopitagorica romana, e fattane risalire la costruzione al primo secolo dopo Cristo, l'attività degli studiosi ha potuto stabilire ben poco d'altro; solo il Bendinelli, in un'erudita monografia, ha sostenuto che la basilica serviva da grande tomba per una ristretta cerchia di aristocratici. Dicevamo che la parte più sorprendente del tempio consiste nei meravigliosi stucchi che lo decorano. Essi, con ogni probabilità, non avevano soltanto un puro scopo ornamentale, ma, trovandosi in un luogo di raccoglimento e di meditazione, dovevano anche significare qualcosa: dovevano ispirare a chi li contemplava un certo dramma, una certa teoria, una particolare visione dell'esistenza umana. Avevano cioè quella funzione meditativa esercitata, per esempio, dagli emblemi scolpiti nei monumenti mitriaci di Ostia e di Santa Prisca a Roma, o dalle pitture parietali della Villa dei Misteri a Pompei, o dalle iconografie dei templi religiosi moderni. Se la basilica apparteneva ad una setta neopitagorica, la prima chiave di interpretazione degli stucchi ci sarà fornita da un'analisi del pensiero pitagorico, soprattutto in riferimento al modo di concepire la vita e la condizione dell'uomo. Vorrei ricordare che, come è stato talvolta accennato, si possono trovare nella psicologia junghiana alcuni addentellati con la filosofia pitagorica: condivido in parte tale ipotesi, e cercherò di dimostrarla analizzando gli stucchi che tratterò, dal punto di vista metodologico, come una serie di sogni. Quest'analisi, alla luce della dottrina pitagorica e a quella della psicologia analitica, condurrà a porre in evidenza il concetto di « individuazione », inteso come processo psicologico inerente alla vita umana.

Il pensiero pitagorico.

Pitagora nacque nell'isola di Samo intorno al 571 a.e. In gioventù, stando alla tradizione, viaggiò in tutte le parti del mondo allora conosciuto. Particolare importanza ebbe per lui l'incontro con la civiltà egiziana, che gli permise d'essere iniziato ad alcune religioni esoteriche. Dal contatto con il popolo ebreo, sembra che abbia poi appreso l'arte di interpretare i sogni. Verso i quarant'anni, non potendo più sopportare la tirannia di Policrate, lasciò Samo e si stabilì definitivamente a Crotone. Qui dette vita alla sua famosa scuola. Più che di scuola, si dovrebbe parlare di una comunità a sfondo prevalentemente etico-religioso, che però si occupava anche di concreti problemi sociali e politici. A lungo andare l'atteggiamento aristocratico dei pitagorici, ed il fatto che nella comunità venivano accolti soprattutto i giovani delle migliori famiglie, diede fastidio al partito democratico. Pitagora fu costretto a lasciare Crotone. Si rifugiò nel Metaponto dove morì verso il 479. La scuola, secondo la tradizione, gli sopravvisse ancora per un secolo, finché non venne eliminata dai democratici che uccisero tutti i suoi adepti. Si salvarono soltanto Liside e Aristippo; il primo si rifugiò a Tebe dando vita a quella che fu poi chiamato il pitagorismo tebano; il secondo fu l'iniziatore del pitagorismo tarantino. Pitagora non lasciò nulla di scritto, e ciò rende piuttosto difficile la differenziazione del suo pensiero da quello dei suoi discepoli. Dato però che nella scuola era fortemente sentito il principio di autorità del maestro, possiamo supporre che non esistano diversità sostanziali fra la dottrina primitiva — segreta — e quella che venne poi divulgata da Filolao in un'opera che ci è pervenuta soltanto in frammenti. Pitagora era profondamente convinto che il processo verso la perfezione non avesse limiti per l'uomo. Riconosceva che la strada era irta di ostacoli, ma sottolineava l'esistenza di alcuni fattori che dipendono solo da noi stessi. Per diventare artefici del proprio destino bisognava rendersi consapevoli di tali fattori, e, nel contempo, neutralizzare quelli nocivi, indipendenti dalla nostra volontà. La caratteristica essenziale del pensiero pitagorico sta nell'indagine sull'uomo e sui mezzi da prescrivergli affinchè la vita abbia uno scopo. Il problema che il pitagorismo si pone è questo: « Esiste un particolare regime di vita che, oltre ad offrire un maggior benessere fisico ed intellettuale, possa stimolare alcune facoltà latenti, privilegio di pochi fortunati? ». Ecco la « grande questione » dei pitagorici. Tutti i loro sforzi convergono verso il punto essenziale della rigenerazione umana, la nascita di un nuovo tipo di uomo. Gli storici si sono sempre trovati d'accordo nel ritenere che l'educazione impartita da Pitagora avesse lo scopo di formare uomini superiori. Tutte le riforme politiche proposte dalla scuola, pur aspirando ad un maggior benessere dei cittadini, avevano anche di mira il loro perfezionamento. Ma qual era questo ideale di perfezione? Sappiamo da Aristotele che i pitagorici sostenevano l'esistenza di tre esseri razionali: Dio, l'uomo e l'uomo pitagorico, quest'ultimo intermediario fra Dio e l'uomo. Compito dell'uomo era quello di tendere verso Dio. Si trattava quindi di un vero e proprio « superamento », ottenibile secondo i pitagorici, attraverso un particolare regime di vita, regime che « mirava a potenziare, trasformare, glorificare corpo ed anima; l’ uomo pitagorico era tale se anche fisicamente più bello, più vigoroso, più resistente alle fatiche, alle privazioni, alle malattie, più giovanilmente longevo, era tale solo se possedeva maggiori e più varie attitudini che lo rendessero atto a tutti i bisogni della vita; se possedeva un'intelligenza più vasta, un più ampio orizzonte intellettuale, una più profonda capacità di penetrazione nei segreti della misteriosa natura ». L'uomo pitagorico si distingueva dunque per una certa sua capacità taumaturgica, un dinamismo psichico che faceva di lui un centro di irradiazione, che gli consentiva di dominare la natura spiritualmente, non meccanicamente, di penetrarla e comprenderla non dall'esterno, ma dall'interno. Nulla era lasciato al caso in quest'opera di profonda trasformazione. Pitagora aveva capito che ognuno può essere l'artefice del proprio destino, e che per ottenere la realizzazione di sé stessi bisogna innanzitutto farsi consapevoli di quel che dipende soltanto da noi. Egli espresse in versi questo concetto: Conoscerai che gli uomini di propria scelta si procacciano i mali, infelici che, stando loro appresso i beni, non li guardano né intendono... . « Gli uomini si procacciano i mali ». Ma quando il male colpisce ciecamente? Come superare il problema dell'apparentemente arbitraria distribuzione del bene e del male su questa terra? E qui si innesta un altro punto capitale del pensiero pitagorico: la metempsicosi. L'anima, prima di giungere una volta per sempre a Dio, deve sottostare ad un certo numero di prove, ed ogni vita trasmetterà i suoi effetti ad una vita successiva, che sarà migliore o peggiore a seconda di quel che avremo precedentemente meritato. Ecco perché possono riversarsi tante disgrazie su di un uomo che sembra nascere per la prima volta; è l'effetto di precedenti esistenze vissute nella malvagità e nell'errore. L'avvicinarsi dell'anima a Dio, alla sua forma originaria e propria, da cui un tempo parti, è un processo graduale e lento, pieno di ripensamenti, di ritorni e di dolore. Secondo la metempsicosi la vita è un circolo, nel senso che l'anima è naturalmente protesa al ritorno verso il luogo originario, il pitagorico perciò era sempre teso al superamento della sua personale esistenza: ma vedeva forse questo superamento soltanto in funzione di una beatitudine eterna? Il genuino pensiero pitagorico era ben lontano da una simile impostazione. I pitagorici si impegnavano moltissimo per modificare le condizioni ambientali, sociali e politiche, perché sapevano che tali condizioni sono in ogni tempo determinanti per l'armonioso sviluppo dell'individuo. Essi volevano che l'uomo « fosse un potenziato su questa terra e per questa terra in cui il destino lo fa nascere» ; ma erano anche certi che il potenziamento in ogni singola vita favorisce, nelle vite successive, quella crescente assimilazione a Dio che dovrà rompere in ultimo il giro dell'esistenza. Si doveva però sempre vigilare, perché la vita umana scorre in continua lotta tra la spinta al superamento e l'attrattiva della banalità. Alla base di questa lotta sta il dinamismo degli opposti, il pari e il dispari, che sono « l'archetipo di tutta quella sequela di opposti, antinomie fisiche e morali, di cui il mondo è costi - trito ». I pitagorici sentirono in modo prepotente tale aspetto della realtà: l'inevitabile presenza, in ogni « caso » del vivere, di due opposti non contraddittori, ma destinati alla sintesi per mezzo dell'anima. Questa teoria, appunto perché presuppone una sintesi che armonizza gli opposti trascendentali, si riallaccia alla concezione del divenire continuo di tutte le cose. In un frammento pitagorico si narra di come un tizio, per liberarsi dal suo creditore, ricorresse ad alcuni argomenti filosofici: « ...così, vedi, sono anche gli uomini. L'uno cresce, l'altro sale: in mutamento siam tutti, per tutto il tempo. Dunque: quello che muta per natura e mai resta nel medesimo stato, mi sembra che sia già per essere diverso dal mutato. Anche tu ed io siamo altri oggi da quelli di ieri, e altri saremo in futuro né mai i medesimi, secondo identica legge... ». Il primo sistema filosofico che viene in mente è quello di Eraclito. Ma questa derivazione dall'eraclitismo è stata dimostrata del tutto falsa sia con argomenti filosofici che cronologici, tanto che spetta senz'altro alla scuola pitagorica il merito di aver formulato le prime tesi riguardo al continuo mutare dell'universo e alle categorie ordinatrici di questo mutare. Un suggestivo parallelo potrebbe essere individuato nella concezione dell'I King: lo Yin e lo Yang sono i principi (l'uno femminile, l'altro maschile) centrali e cosmogonici della realtà mutevole, e, al di sopra di essi, sta il Tao. Il Tao non rappresenta la loro somma, ma il Superiore principio che li sintetizza: è una forza regolatrice, ritmica, armonizzatrice. E veniamo al concetto di numero, pilastro della filosofia pitagorica. Alcuni studiosi ritengono che la teoria del numero sia balenata a Pitagora durante i suoi esperimenti nel campo dell'acustica. Servendosi di un monocordo, egli era giunto a scoprire il rapporto che passava fra l'altezza del suono e la lunghezza della corda: deducendo da tale fenomeno una certa espressione numerica, si accorse che questa, allo stato delle conoscenze di allora, poteva applicarsi a tutti i fenomeni naturali; da ciò concluse che l'elemento primordiale di tutte le cose fisiche, come pure delle entità ideali, fosse il numero che venne cosi a identificarsi con il « principio » lungamente cercato da tutte le filosofie precedenti. L'uno, o monade, è dunque il primo principio. Dall'uno si genera la diade, poi la triade, portentoso simbolo della divinità. Simbolo geometrico della triade è il triangolo. La tetrade era invece ritenuta l'origine della eterna natura: basti ricordare i quattro elementi, i quattro trimestri dell'anno, i quattro umori, i quattro temperamenti e le quattro facoltà critiche dell’ uomo. L'anima stessa, oltre che come un cerchio e una sfera, era considerata come un quadrato. La tetrade aveva inoltre attinenza con le età dello uomo: sappiamo che i pitagorici distinguevano nella vita quattro età, e che ritenevano difficile l'armonizzarle: « Esse infatti, quando una saggia guida non operi fin dalla nascita, tendono ad essere corrotte l'una dall'altra». E vediamo come, secondo il pitagorismo, la vita d'un uomo può essere suddivisa: fanciullo fino a vent'anni adolescente fino ai quaranta; giovane fino ai sessanta; vecchio oltre i sessanta. Tale suddivisione presuppone sempre il concetto dell'armonia, e quindi la problematica dei contrari: «Tener questo conto delle età, vuoi dire metterle in armonia le une con le altre, regolare ed assecondare i trapassi che da esse conseguono, recuperare nel conflitto delle opposte tendenze l'armonia generale della vita; e questo è alla fine il segreto dell'educatore e la specialità dei Pitagorici ». Ma la scuola pitagorica, in termini di « armonizzazione », si assunse un altro compito veramente rivoluzionario: la rivalutazione della donna. Nel VI secolo il primo compito della donna era quello di generare figli. Subordinata al marito, aveva soltanto doveri da assolvere, mentre la sua formazione culturale non superava l'orizzonte delle cose domestiche. Pitagora si presenta alla ribalta della storia come il paladino del sesso femminile, ne difende i diritti e rivaluta la missione della donna in seno alla società: « Egli insegna agli uomini che opprimere la donna è colpa. La femmina non deve essere soggetta allo sposo, ma deve stargli a lato dotata di un identico diritto ». La donna diventa compagna dell'uomo, e, pur non perdendo le sue virtù tradizionali, viene resa partecipe delle più alte forme di vita spirituale. Pitagora, in uno dei suoi discorsi, sostenne che per i due sessi esistono senz'altro occupazioni diverse e caratterizzanti, ma che le più alte prerogative della vita umana sono ad entrambi accessibili; le donne vedevano così spalancarsi la porta della filosofia, e si trovavano vicine all'uomo nell'apprendimento di verità psicologiche: « Le donne iniziate da Pitagora ricevevano con riti e precetti i principi supremi della loro funzione; egli dava a quelle che ne erano degne la coscienza del loro ufficio. Svelava loro la trasfigurazione dell'amore nel matrimonio perfetto, che è la fusione di due anime, il centro stesso della vita e della verità. L'uomo, nella sua forza, non è il rappresentante del principio e dello spirito creatore? La donna, in tutta la sua potenza, non personifica la natura della sua energia plastica, nelle sue realizzazioni meravigliose, terrestri e divine? Ebbene, che questi due esseri giungano a fondersi interamente, corpo, anima, spirito, e formeranno insieme un compendio dell'universo... C'è una ricerca disperata dell'altro sesso, ricerca che nasce da un divino stimolo inconscio e sarà un punto vitale per la ricostruzione dell'avvenire: perché quando l'uomo e la donna avranno trovato sé stessi e l'uno e l'altro per virtù dell'amore profondo e dell'iniziazione, la loro fusione sarà la forza luminosa e creatrice per eccellenza... ». Il motivo ricorrente della problematica pitagorica è la convinzione che l'uomo possa migliorare indefinitamente. Per questo i pitagorici avevano elaborato «il regime di vita pitagorica»: si alzavano molto presto al mattino e, soli, se ne andavano passeggiando in luoghi tranquilli, rallegrati da boschi e da templi: volevano sentirsi ben disposti d'animo prima di venir in contatto con gli altri; più tardi, mediante la ginnastica, si prendevano cura del loro corpo; poi la colazione con pane, miele e decotto di mele; durante il giorno non bevevano mai vino. Dopo la colazione ognuno si dedicava ai propri uffici. A sera riprendevano le passeggiate, non più soli ma in compagnia, richiamando alla mente gli insegnamenti e i precetti della dottrina. Poi mangiavano la carne di quegli animali che era lecito sacrificare, e bevevano del vino. Al termine del pasto il più giovane leggeva dei libri, mentre il più anziano sovraintendeva alla lettura dicendo che cosa e come dovevano leggere. In ultimo il « maestro » impartiva i suoi insegnamenti e ciascuno se ne tornava a casa. La mattina dopo il pitagorico non si alzava dal letto senza prima aver ricordato le cose avvenute il giorno innanzi: si sforzava di richiamare alla memoria le prime parole dette e ascoltate e i primi ordini dati ai familiari; poi, man mano, tutte le altre cose dette, ascoltate o fatte. Ciò perché la memoria e il suo esercizio erano ritenuti utilissimi per la conoscenza, esperienza e intelligenza. Ora, in chiave psicologica, non è difficile vedere in tale pratica un vero e proprio « esame di coscienza », una volontà di mantenersi vigili ai fatti della vita quotidiana: si trattava non tanto di esercitare la memoria, quanto di acquistare una maggiore consapevolezza. Non ci è dato sapere fino a che punto l'inconscio fosse congetturato dai pitagorici. E' comunque indubbio che la psicologia del profondo ha dei lontani precedenti in alcune religioni misteriche, nelle quali si prestava una certa attenzione alla voce dell'inconscio. Pitagora, stando alla tradizione, era esperto nell'interpretare i sogni, ma non sappiamo in che misura egli adoperasse questa perizia nella sua comunità. Siamo però informati che la fisionomica nasce con Pitagora. Egli osservava per un lungo periodo gli aspiranti discepoli, li guardava nei momenti di maggiore rilassatezza, durante il gioco per esempio, o i pasti, particolare attenzione dedicava al riso, perché aveva intuito che in quei momenti il volto non poteva mentire; Pitagora sapeva dunque che l'espressione emotiva, non soggetta alla forza cosciente, era il mezzo più efficace per la conoscenza dell'uomo. E' chiaro che non intendo esporre qui tutti gli aspetti del pensiero pitagorico; ne trascurerò ad esempio i contributi propriamente scientifici; desidero solo esaminarne quelle intuizioni che trovano un'eco suggestiva nella psicologia junghiana. A questo proposito non bisogna dimenticare che, se due pensatori giungono a conclusioni analoghe riguardo all'essere umano, da ciò non si deve necessariamente dedurre che uno abbia conosciuto il pensiero dell'altro; si può soltanto affermare che, se si studia l'uomo in modo genuino e profondo, si incontrano sempre analoghi problemi. Gli storici, come già detto, si sono sempre trovati d'accordo nel sostenere che tutto l'insegnamento pitagorico, anche quello più propriamente scientifico, tendeva alla trasformazione dell'uomo. Il termine trasformazione ha una diffusa risonanza nel mondo della psicologia analitica; come pure in quello dell'alchimia; quando Jung cominciò a studiare la mitologia e le religioni, si imbattè in simboli alchimistici che subito gli richiamarono alla mente alcune analogie con un misterioso processo trasformativo individuato in vari suoi pazienti; tale processo si svolgeva « attraverso » simboli alchimistici nel senso che, in certo modo, questi ne rappresentavano le tappe e i punti di riferimento; ed erano inoltre dotati di una forza impulsiva in vista di futuri sviluppi. Ma come avviene, secondo Jung, il processo psichico di trasformazione? Mediante l'assorbimento di contenuti inconsci da parte del conscio, così da sviluppare ed accelerare la tendenza verso una personalità più comprensiva e più vicina alla « totale » individualità dell'uomo. Tale personalità più profonda, che com'è ovvio trascende l'« lo », è da Jung definita il « Sé », inteso appunto come globalità di coscienza e inconscio. La « trasformazione » che porta a tale risultato viene definita « processo di individuazione ». A me sembra che anche l'uomo pitagorico fosse coinvolto in un processo simile. Ma qual era il fattore che provocava la metamorfosi e l'ampliamento della personalità? Il regime di vita pitagorico doveva certo avere il suo peso, ma solo come sistema per creare un favorevole « temenos » di condizioni oggettive, dato che sostanziali mutamenti psicologici non possono derivare soltanto da una tecnica; io credo che la trasformazione dell'uomo pitagorico avesse il suo punto focale in una progressiva e particolare assimilazione di un concetto caratteristico di quella dottrina: la metempsicosi. Secondo tale concetto, « le anime passano di generazione in generazione, dall'uno all'altro corpo di uomini, di bestie, di piante, scontando di tanto in tanto nelle regioni dell'Ade i loro peccati, ma sempre rinascendo in esseri migliori o peggiori a seconda dei meriti acquisiti... ». Finché l'anima per grazia divina, sarà sottratta al giro di esistenze mediante pratiche e riti iniziatici che le religioni misteriche insegnavano ai loro adepti. Quale significato ha questa dottrina da un punto di vista endopsichico? Il passaggio dell'anima attraverso varie vite — di uomini, bestie, vegetali — configura un'idea importante, quella cioè della parentela psicologica di tutte le forme viventi; non solo, ma per il pitagorico qualsiasi forma vivente, anche la meno nobile, può essere utile ad affinare e comprendere — nell'ambito del susseguirsi delle vite — la dialettica del proprio comportamento psicologico. Ebbene, a me sembra che questo processo sia suggestivamente analogo al processo di assimilazione dell'ombra: assimilare l'ombra, vale a dire i nostri aspetti negativi e rimossi, prenderne coscienza, venire a patti con loro e riconoscerli come aspetti importanti della nostra personalità, rappresenta una vera e propria rinascita spirituale; significa veramente abbandonare uno stato psichico per un altro più profondo addirittura una vita per un'altra, un destino per un altro. Pitagora teneva moltissimo al concetto di continua rinascita dell'anima. Egli cercava sempre di rammentarlo ai suoi allievi e impiegava tecniche particolari per raggiungere il loro intimo e calare in esso quell'idea; in special modo si serviva della musica (l'espressione artistica più vicina all'inconscio). Con la musica, inoltre, egli preparava l'animo dei compagni ai sogni profetici della notte. La Wickes parlando della rinascita psicologica come risultato della volontà di vivere, dice: « Secondo questa concezione, l'uomo non rinasce solo due volte, ma di continuo. Se la vita richiede da noi nuovi compiti e un nuovo orientamento interno, ciò che di vecchio in noi esiste deve perire perché il nuovo possa nascere. Ci sono delle crisi spirituali durante le quali la rinascita porta seco una trasformazione dell'intera personalità. Tutte le cose che erano accumulate vengono allora liberate da una nuova concezione spirituale... Il nuovo atteggiamento porta ad un processo di individuazione superiore, ad una visione più profonda delle cose ed a maggior senso di responsabilità: processo che si ripete sempre di nuovo. Ben presto, il nuovo lo trova ostacoli che deve superare, e da ciò consegue un'altra rinascita. L'energia psichica lotta per conquistare una nuova forma, e ogni qualvolta si giunge ad un simile rinnovamento ha luogo per l'individuo un grande processo interiore... ». L'interpretazione della metempsicosi come assimilazione dell'ombra non deve essere considerata un tentativo di psicologismo. Per usare le stesse parole di Jung, tutti gli atteggiamenti e i fenomeni spirituali implicano certe strutture e contenuti psichici dei quali lo psicologo ha il diritto e il dovere di occuparsi. Il passaggio dell'anima da una vita all'altra rappresenta una vera e propria spirale di approfondimento che forse l'uomo pitagorico magari, senza rendersene conto, riusciva ad assimilare da un punto di vista endopsichico. Tale assimilazione provocava in lui quel lento evolversi della sua anima verso il punto di partenza a lei consono, punto che la psicologia analitica chiama « Sé ». In definitiva, per riassumere e concludere, avanzo quest'ipotesi: il pitagorico era sicuro di credere nella trasmigrazione delle anime da una vita all'altra; ma in realtà recepiva in maniera endopsichica tale credenza, e quindi finiva col riferirla, sia pur inconsciamente, al passaggio della propria anima da uno stato a quello successivo più ampio e profondo. E torniamo a considerare un'altra caratteristica del metodo pitagorico: quale significato poteva avere il ricordare ogni mattina tutti gli avvenimenti del giorno innanzi, le persone e gli animali incontrati, le parole dette? Già ho affermato che per me si trattava non tanto di un modo per esercitare la memoria, quanto di un tentativo per allargare la coscienza. Tentativo condotto, al fondo, mediante l'esame dei comportamenti altrui e il confronto con i propri: ciò che portava a intuire — inconsciamente — un'anima almeno in parte comune a tutti gli esseri viventi incontrati il giorno prima, comune anche all'osservatore: e in lui ancora operante. Certo non abbiamo alcuna garanzia che i pitagorici avessero coscienza dei meccanismi psichici così ipotizzati. Ma credo che il processo di trasformazione non avrebbe potuto svilupparsi in loro senza i supposti contenuti e atteggiamenti dell'inconscio. Ricca di significato è poi la rivalutazione della donna, che trova oggi il suo parallelo nella scoperta dell'androginia dell'anima. Quando i pitagorici parlavano di partecipazione della donna, intendevano soprattutto riferirsi al campo spirituale, ai momenti finali e delicati dell'iniziazione, momenti in cui la donna non solo partecipava al mistero, ma contribuiva a che il rito fosse più fecondo per gli stessi uomini. Quando a Jung facevano notare come la maggioranza dei suoi discepoli fosse composta da donne, egli rispondeva che la psicologia è la scienza dell'anima e che non era colpa sua se l'anima è donna. D'altronde gli studi di Jung sul sentimento e sulla intuizione come strumenti conoscitivi, ci chiariscono i motivi per cui l'anima femminile è cosi attratta da certe discipline: essa, come afferma Baudouin, sembra possedere dei doni particolari che le rendono congeniale la psicologia analitica. Un'altra brillante anticipazione della scuola pitagorica sta nella scoperta della mistica numerica e geometrica, la cui validità ha trovato una conferma empirica nell'analisi dei simboli mandalici presenti nel linguaggio inconscio: certi sogni che preludono alla armonia delle funzioni ed al superamento delle proiezioni in vista di un graduale costituirsi del Sé, sono ricchi di simboli geometrici — triangoli, quadrati, cerchi, il cui significato unificatore ed armonizzante Jung non ha mai smesso di evidenziare. E' stato detto testualmente: « La rivoluzione del concetto pitagorico riguardo all'anima, intuita come quadrata, e il riconoscimento di un valore scientifico moderno alla mistica tetrade, quale espressione di un archetipo sotto la specie di mandala, non sfuggirono a Jung medesimo, che dallo studio medico sui nevrotici aveva saputo estendere la ricerca psicologica al corpus delle dottrine iniziatiche d'Oriente come di Occidente... Ma la luce che dalla moderna psicologia degli archetipi torna alla filosofia esoterica e alla mistica numerologica dell'Antico, non si limita al significato psicologico della tetrade, quale proiezione d'un contenuto psichico inconscio che è allusivo della struttura stessa dell'anima; bensì l'intera aritmologia di Pitagora con la simbolistica correlativa viene ad acquistare dal punto di vista della psicologia scientifica il significato di proiezione dell'inconscio, in rapporto a quei processi di svolgimento e perfezionamento della personalità spirituale già suscitati dalla mistica iniziazione... ». Dallo sguardo che abbiamo lanciato sul pensiero pitagorico rapportandolo alla psicologia analitica, mi sembra sia emerso un elemento fondamentale: il concetto di trasformazione psicologica, meta principale di entrambe le dottrine. Tale concetto acquisterà un rilievo più plastico e suggestivo dalla concreta indagine sugli stucchi della basilica pitagorica.

GLI STUCCHI DELLA BASILICA

L'Arimaspe.

Limiterò il mio esame agli stucchi dell'abside e della volta centrale, gli elementi architettonici su cui più facilmente converge l'attenzione del visitatore. La prima domanda da porsi è questa: da quale punto cominciare? Gli stucchi della volta centrale sono disposti lungo un grande rettangolo nel cui interno è la scena che io ritengo rappresenti il compendio, la conclusione di tutte le altre; questa scena, come vedremo in seguito, farà eco all'altra raffigurata nella abside. Mi è parso giusto procedere con l'esame dalla periferia verso il centro del rettangolo in modo da convergere verso il motivo dominante: ho voluto cioè adottare lo stesso metodo impiegato da Jung per l'interpretazione onirica, metodo basato sul presupposto che i sogni non derivano in linea retta lo uno dall'altro, ma si situano concentricamente intorno al tema principale. Ai quattro estremi del rettangolo troviamo ripetuto lo stesso motivo mitologico: la lotta dell'arimaspe con il drago. Gli arimaspi erano un popolo misterioso del l'Asia minore, sempre in lotta per la conquista di un tesoro custodito dal mostro, o per impedire a quest'ultimo di riprendersi il tesoro già conquistato. Il significato endopsichico d'una lotta così incessante mi sembra piuttosto chiaro; ci troviamo innanzitutto di fronte ai modelli della ricerca di un tesoro e della lotta col drago; ricerca e lotta che hanno il loro equivalente nell'indagine alchimistica, la quale com'è ampiamente dimostrato, non mirava certo ad un tesoro di tipo materiale, ma spirituale, quello stesso tesoro, potremmo dire, che Jung denomina « Sé ». Nella lotta dell'arimaspe sono adombrati, a mio giudizio, il concetto pitagorico della continua perfettibilità umana e la tendenza della psiche verso l'individuazione. E questo sforzo è reso ancor più drammatico dal fatto che il tesoro può essere sempre di nuovo perduto: la lotta non ha mai fine, è un modello che si ripete senza speranza. Qualé allora, nell'ambito del mitico motivo della lotta per un tesoro, l'elemento su cui con maggiore intensità si ferma l'attenzione dei pitagorici? Proprio questa impossibilità di mantenere senza fatica le posizioni acquisite, che restano sempre, potenzialmente, alla mercé dell'avversario. E qui bisogna ricordare quanto dice Jung « II significato ed il disegno di un problema sembra essere non nella sua soluzione, ma nel nostro cimentarsi con esso incessantemente ». Il tesoro che l'uomo cerca è il « Sé », ma ogni vittoria in questa direzione comporta una nuova prospettiva che, nel momento stesso in cui viene alla luce, è già insufficiente perché subito adombra un nuovo balzo in avanti. La lotta dell'arimaspe sottolinea appunto, io credo, l'impossibilità di raggiungere in modo stabile la meta finale; e mostra come tutto lo sforzo consista in un processo dinamico il cui termine può trovarsi soltanto in un cambiamento di stato totale, cioè nella morte. Chi potrà mai dire durante la propria esistenza « Ecco! ho finito, sono tranquillo, ho raggiunto quella pace spirituale cui tanto anelavo? ». Nessuna situazione psichica potrà mai considerarsi chiusa in una totalità statica, e ciò che oggi può apparirci come il tesoro conquistato, domani purtroppo non avrà più lo stesso valore. Ed è per questo che il vero senso della vita umana non sta nella ricerca di una felicità astratta, ma nella continua realizzazione del proprio autentico « essere individuale » che man mano si evolve, nella ricerca di una fedeltà sempre adeguantesi a quest'essere individuale che, finché vive, non giunge mai ad una fine: l'individuazione è un processo non una meta. Vorrei ora notare che, la lotta con il drago per la conquista di un tesoro che può essere sempre perduto e ricuperato, allude anche al mito dell'eterno ritorno e al problema dell'ansia. L'ansia è uno stato primordiale comune a tutti gli esseri viventi: sarà di volta in volta paura di perdere la vita, la salute, i mezzi di sussistenza, la persona amata, una condizione particolarmente felice, il tempo, la stima sociale, il senso di sé stessi. Ma l'ansia ha pure una radice più profonda: all'uomo, come compito, è stato dato lo sviluppo della propria vita: l'ansia può essere allora timore di non realizzare questo sviluppo, e, contemporaneamente, spinta verso tale realizzazione. In genere l'ansia è una caratteristica che appare negli individui nevrotici. I nevrotici sono quasi sempre degli inibiti, che pur sentendo determinati impulsi ad agire in una certa direzione, ne sono impediti dalle loro resistenze interiori. Essi hanno, per dirla in breve, un arresto nel loro sviluppo. Ora « la sola ed unica cosa che davvero conta è lo sviluppo delle proprie potenzialità; ciò significa che perfino l'istinto di conservazione è subordinato ad una più alta legge di natura che da ogni essere vivente chiede il maggiore possibile sviluppo delle sue facoltà interiori. La vittoria sull'ansia è dunque la premessa fondamentale per la conquista del tesoro, per quell'adattamento alla nostra realtà interna che costituirà la base di ogni ulteriore sviluppo.

Calcante ed Ifigenia.

Dedicherò adesso la mia attenzione allo stucco che mostra Calcante nell'atto di recidere le chiome ad Ifigenia, operazione che prelude al sacrificio. Calcante, secondo la tradizione è il più grande indovino dell'antichità greca. Ma cosa rappresenta in tutte le mitologie la figura del « mago »? Un'incarnazione di Dio nell'uomo: incarnazione che non infonde tanto una maggior forza, quanto una conoscenza più ampia, non limitata dallo spazio e dal tempo. Il mago possiede quel tipo di personalità da Jung denominata « mana », termine che riecheggia il modello dello uomo che « sa » e che « può ». Tale immagine è una dominante dello « inconscio collettivo ». E la divinazione non è altro che la capacità di percepire l'inconscio, sia personale che collettivo, capacità preclusa all'uomo normale. Percepire l'inconscio significa dunque conoscere la sorte — e la « realtà globale » — propria e altrui. Potremmo allora dire che l'inconscio, in un certo senso, rappresenta il destino dell'uomo, e chi, o per capacità diretta o affidandosi al « mago », prende coscienza del proprio destino (quindi del proprio inconscio) e lo accetta, trova in tale accettazione un riscatto al destino stesso, quale che questo possa essere. La dolce Ifigenia, come sappiamo dalla tradizione, non si oppone alla sua sorte. Lo stucco della basilica la raffigura mentre si offre in olocausto senza apparente timore, la testa inclinata, modesta e bella, Ifigenia incarna la figura di colei che espia. Deve pagare per la colpa del padre, uccisore di un cervo sacro ad Artemide, e attende il sacrificio con dolore, ma con rassegnata serenità. Salvata poi dalla stessa Artemide, sarà costretta per lungo tempo a compiere sacrifici umani in Tauride; finché riesce a commuovere il severo Re Taonte che abolisce i sanguinosi riti; Ifigenia salva così il fratello Oreste e dona al popolo di Tauride la possibilità di una epoca civile e umana. La caratteristica essenziale di Ifigenia è quella di vivere la storia accettandola senza chiedersene o contestarne le ragioni, « e appunto in questa ingenuità dolorosamente colpita, in questa purezza che soggiace al male senza esserne offesa, nella naturale devozione con cui ella accetta gli ordini degli Dei e ammette implicitamente in essi giustizia superiore che pur non riesce a comprendere, sta la forza della sua figura ». Nell'abbandono di Ifigenia al suo destino è anche la sua salvezza. Artemide la risparmia, evento tanto più interessante quando si sottolinei il carattere violento e vendicativo di questa dea, responsabile di varie morti atroci: quella di Atteone ad esempio divorato dai propri cani, o quella del cacciatore Broteas, reso pazzo e spinto a lanciarsi nel fuoco. La salvezza di Ifigenia è l'unico atto di indulgenza che venga attribuito dai mitologi alla dea. Qual è allora il messaggio di questo stucco? Esso va individuato appunto nell'invito ad abbandonarsi alla voce dell'inconscio, a non contrastare le direttive che provengono dalle dimensioni arcaiche della vita. L'uomo deve fare il possibile per controllare gli eventi esterni, ma deve anche sapere che non può opporsi a certi disegni che lo trascendono: dalla loro accettazione potrà anzi scaturire uno sviluppo salutare. L'accettazione, in effetti, è un venire a patti con l'inconscio e con i suoi modi di procedere; è un riconoscere i complessi da cui siamo condizionati; e ciò porta ovviamente al risultato di sminuire il loro potere autonomo nei confronti della nostra coscienza.

Èrcole e Minerva.

Passiamo ora allo stucco che rappresenta l'incontro di Èrcole e Minerva, accostamento rarissimo nelle raffigurazioni mitologiche, dato che lo si è reperito in tutto quattro volte. Èrcole si avvicina solenne alla dea. Pende dalle sue spalle la pelle leonina e in mano ha la clava. Nella mitologia greca egli è per eccellenza l'« eroe ». A noi interessa analizzare non tanto le sue vittorie, quanto le condizioni in cui esse maturano. Èrcole, se vuole conquistare l'immortalità, dovrà subire un processo di trasformazione attraverso le dodici « fatiche », fatiche che dovrà compiere per volontà di Euristeo; e proprio qui sta la chiave per comprendere il profondo dramma psicologico dell'eroe. Euristeo è il tipo mediocre per eccellenza; non ha nulla di eroico, di forte, di intelligente, nulla che possa giustificare la sua posizione sociale. E' la banalità fatta persona, attenta soltanto a! proprio benessere individuale. Negli altri non vede che gli strumenti per la realizzazione dei suoi interessi. E' l'uomo delle convenzioni, l'uomo che difende le strutture sociali a lui favorevoli e che, a ragione del suo mediocre essere, del suo scarso talento e de! suo minimo valore, possiede i beni del mondo ed il potere. Ed Èrcole deve piegarsi di fronte al meschino Euristeo, del quale sente l'indubbia inferiorità. Quando apprende che dovrà compiere le dodici imprese, l'eroe cade nello sconforto: non perché tema la lotta, ma perché è costretto ad una profonda umiliazione. D'altra parte sembra un tratto particolare del destino che gli uomini grandi siano sempre soggetti a forze negative e prepotenti: mentre essi guardano allo spirito, altri lavorano alla loro distruzione. Si pensi al nazismo: la « cultura », nel senso più ampio del termine, fu il primo nemico ad essere attaccato e sgominato. Ma per quella legge che fa seguire alla degenerazione la generazione, le anime sofferenti sparpagliate per tutta la terra acquistarono capacità di sopravvivenza e rinascita in terre straniere. Alla fine della grande follia ci fu come il ritorno di un'onda da mondi lontani, e quest'onda rese familiari quei mondi: il ponte era gettato proprio da quelli che erano stati costretti alla fuga. Dalla follia sembrerebbe essere nata una consapevolezza dell'appartenenza non alle nazioni ma al mondo intero. Come un motivo ricorrente nelle fiabe, il principio distruttore è anche il principio di salvezza, nella misura in cui spinge il perseguitato ad affinare le sue doti positive. Tornando ad Èrcole, potremmo affermare che il suo dramma con Euristeo configura, da un punto di vista endopsichico, la necessità dell'eroe di fare i conti con la propria parte oscura, con la propria ombra. E ciò prima di affrontare il processo di trasformazione attraverso le imprese. Per analogia sono condotto a notare che, all'inizio dell'analisi l'elemento « ombra » assume una grande importanza ai fini dello sviluppo psicologico: capita spesso in questa fase che i pazienti sognino un viaggio ne! fondo del mare (simbolo dell'inconscio), dove sono costretti a fronteggiare realtà obbrobriose. Poniamoci ora una domanda: oltre al confronto con l'ombra, a cos'altro può alludere lo stucco di Èrcole e Minerva? Èrcole, secondo il mito, è uno dei pochissimi mortali che abbia combattuto e sofferto per conquistare l'immortalità. Al grande impulso verso la propria individuazione, che si manifestò per la prima volta nella lotta contro i due serpenti, egli non è mai venuto meno. E colui che affronta la lotta trova anche il protettore. Subito dopo la nascita, Minerva espresse la sua ammirazione per il bambino. Nella battaglia contro l'esercito della città di Orcomeno, Èrcole combattè rivestito della corazza donatagli da Minerva. Durante la pulizia delle stalle di Augia, Minerva appare soccorritrice. Gli interventi della dea stanno dunque a significare che immancabilmente subentrerà un fattore protettivo per coloro che seguono la strada autentica. « L'uomo deve soltanto lottare e aver fiducia, ed i guardiani eterni appariranno ». Non c'è storia di eroi o fiaba che non contenga questo particolare insegnamento, il quale, trasferito sul piano psicologico, vuole ammonire che le forze dell'inconscio daranno aiuto a chi subisce le conseguenze di una lotta tesa alla ricerca della personale autenticità. Dal primitivo e coraggioso abbandono alle forze dell'inconscio (Ifigenia), si passa quindi ad una fase in cui l'inconscio diventa soccorritore, sebbene con modalità che spesso appaiono contrastanti con quelli che sono obbiettivi a breve termine.

Aldo Carotenuto

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