13 novembre 2011

- Dante - Epigenesi di un mito




Il mito massonico - tutto ottocentesco - che vuole Dante Alighieri “iniziato” non è un mito “primario”: è sovraimposto, ovvero “epigenetico”, come direbbe un naturalista, ed è basato su un sillogismo.
Premessa mitica n. 1: Dante era Templare e Rosa Croce;
Premessa mitica n. 2: Templari e Rosa Croce erano dei (proto)-massoni;
Conclusione: Dante era una specie di (proto)-massone.
Quod erat demostrandum.
In Massoneria si è guadagnato un ampio spazio, del quale è debitore soprattutto a René Guénon, senza che questo debba farci dimenticare i numerosi precursori. Se si vuole individuare un precursore “minore”, questi potrebbe essere Marziale Reghellini, massone vicentino, patriota esule a Bruxelles, autore di un La Maçonnerie considérée comme le résultat des religions Egyptienne, Juive e Chrétienne, del 1829.
Il suo pensiero influenzò probabilmente il vero padre e propalatore del mito, e cioè Gabriele Rossetti 1
, che infatti lasciò scritto (cito a memoria) “Reghellini dice che il poema di Dante è un poema massonico, ma c’ero già arrivato anche io”.
All’origine c’è Inferno IX, 61-63:
O voi che avete gli intelletti sani / mirate la dottrina che si asconde / sotto il velame de li versi strani”.
Troviamo questi citatissimi versi anche nell’introduzione della Beatrice, l’opera con la quale Rossetti lanciò un’idea che, pure se del tutto sprovvista di supporto storico, attecchì ed è tuttora molto presente in Massoneria:
Dante, e come lui gli altri poeti stilnovisti, sarebbero stati membri di una setta iniziatica (i “Fedeli d’Amore”) entro la quale la tematica amorosa “copriva”, con un linguaggio criptato, idee “pericolose”, e messaggi soprattutto politici, in particolare la condanna della Chiesa degradata e l’utopia di un generale rinnovamento guidato dalla Croce e dall’Aquila (ovvero, la Chiesa stessa e l’Impero).
In quest’ottica, “Beatrice” è l’idea imperiale, “amore” è la setta stessa, eccetera. Interessante notare che l’idea del Rinnovamento Universale riappare nel Rinascimento, ma i tempi sono cambiati……
Rossetti spinse parecchio la sua analisi e aprì una strada che molti percorsero. Eugène Aroux, scrittore prolifico, letterato e uomo politico, ci ha lasciato una serie di opere generalmente considerate bizzarre. Nel 1854 proponeva un suo Dante eretico, rivoluzionario e socialista e due anni dopo ci dava una “Chiave della commedia anti-cattolica di Dante Alighieri, pastore della Chiesa albigese nella città di Firenze, affiliato all’Ordine del Tempio, ove si spiega il linguaggio simbolico dei fedeli d’amore nelle composizioni liriche, romanzi, epopee cavalleresche dei trovatori».
Siamo a livelli di elucubrazione altissimi: a lui si deve l’interpretazione (poi ripresa da Guénon) delle lettere F.S.K.I.P.F.T. che compaiono in un ritratto di Dante come Frater Sacrae Kadosh, Imperialis Principatus, Frater Templarius.
Francesco Paolo Perez, nell’attribuire a Beatrice il significato simbolico di “Sapienza Mistica”, si esprime però molto severamente con certi interpreti iper-simbolici di Dante e del paganesimo (Beatrice Svelata, 1865). Parla di un sincretismo dantesco grazie al quale tutti hanno ritenuto di farlo proprio, guelfi e ghibellini, eretici, ortodossi e protestanti.
Respinge l’idea dell’affiliazione di Dante ad una setta segreta, e qualifica Rossetti come sopraffatto “da un’erudizione raccolta in fretta e però mal digesta” e “dominato dal preconcetto che Dante sentisse e pensasse come un libero muratore o come un Voltaire”.
Paragona i critici moderni a Luciano di Samosata (“il Voltaire del paganesimo”) che fa dire a Giove: “Dacchè la filosofia e le quistioni di parole vennero crescendo tanto laggiù, io debbo o starmi per necessità con gli orecchi turati, o lasciarmi assordare da quelle mal cucite filastrocche di certe loro cose incorporee che vanno ad alta voce predicando”.
Secondo Perez, i cristiani inizialmente derisero le fantasie dei pagani, ma poi si accorsero che bastava interpretarle simbolicamente come preannunci del monoteismo, per utilizzarle a proprio vantaggio, dopo di che le adottarono trasformandole: fecero quindi (qui cita Agostino) come gli ebrei che scappando dall’Egitto si portarono via oro e argento per farne un miglior uso (una specie di “esproprio proletario” ante litteram). Gli interpreti arrivarono a “vedere nei più osceni libri erotici dei trattati di morale ascetica”: forse un’allusione al dantesco Fiore, ma non so se al tempo di Perez l’attribuzione fosse accettata.
Sulla strada dell’interpretazione esoterica si avventurarono anche Giovanni Pascoli (autore di vari, discussi studi danteschi) e un altro accademico, il suo allievo Luigi Valli, che fu divulgatore importante, con un’opera del 1928 (Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore; Luni ed., 1994) nella quale analizzò il supposto linguaggio segreto in grande dettaglio, arrivando a proporre la traduzione in lingua “iniziatica” di una quarantina di parole del linguaggio “grosso” 2
. In tale ottica interpretativa, le poesie “belle” danno addirittura fastidio, in quanto si giustificano male. Un esempio 3 : “i Fedeli d’Amore furono seguaci di una dottrina ermetica che non accettò l’insegnamento cattolico, d’una dottrina contro il potere temporale e contro gli atteggiamenti egemonici della Chiesa, d’una dottrina che prese caratteri sempre più umanistici fino a quando in essa prevalse l’aspetto estetico su quello esoterico. Allora finì nel nulla”. Di questa scuola di pensiero, il maggiore divulgatore è René Guénon col suo L’esoterismo di Dante. Va detto che c’è una contrapposizione tra chi vede l’esoterismo limitato alla Vita Nova e chi (Guénon tra questi) lo vede esteso alla Commedia. Ciò premesso, è impossibile riassumere qui quel libro in poche righe, e bisogna limitarsi a raccogliere qualche spunto.
L’autore insiste molto su certe descrizioni dantesche, che i rituali della settecentesca “Massoneria Scozzese” sembrano riprendere. Fa dettagliate analisi di linguaggio annotando, ad esempio, insieme ad Aroux, che il Veltro è un cane, parola affine al tartaro Khan che ha una connotazione di potere, come il verbo inglese can. Illustra l’esoterismo del numero 65, connesso con 1300 che è la data del viaggio all’inferno, constatando che 65 scritto in latino vale LVX (basta invertire la X con la V!), cioè Lux che evoca la “vera luce” delle datazioni massoniche….. Ma il punto forte della trattazione è l’appartenenza di Dante all’Ordine Templare mediata dal Rosacrucianesimo e dalla setta dei Fedeli d’Amore. Ad avviso di chi scrive, niente nella biografia di Dante suggerisce che potesse appartenere all’Ordine del Tempio né a suoi succedanei. E tuttavia, la “presenza” dei Templari nella Commedia è una delle colonne della “lettura” esoterica del poema. Il riferimento principale è forse Par. XXX, 124, là dove, nell’Empireo, Beatrice addita a Dante “il convento delle bianche stole”. Secondo i commentatori “profani”, il passo è ispirato all’Apocalisse di Giovanni (7, 9 segg.) dove i portatori delle “vesti candide” sono la moltitudine dei Beati. Secondo i cultori dell’esoterismo dantesco, invece, le “bianche stole” sono i Templari. L’interpretazione è forzatissima per due motivi. Anzitutto, ciò che caratterizzava la divisa dei Templari più che il colore bianco era la croce, adottata fin dal tempo della seconda crociata. Secondo, nel contesto grandioso di Par. XXX, un gruppo sia pure importante, ma limitato, come quello dei Templari, sarebbe stato un anticlimax: non avrebbero riempito gli “scanni” di cui alla terzina seguente. La condanna dantesca di Filippo il Bello si presta ad una considerazione di carattere generale. Su 14.000 versi, quelli che possono volonterosamente interpretarsi come connessi con l’Ordine Templare sono forse una decina: una presenza tenuissima. E c’è di più: nel poema, Filippo il Bello è attaccato come falsario e come pirata. Insomma, accuse di rapacità. Poca roba in confronto al rogo del Gran Maestro, che avrebbe dovuto apparire crimine mostruoso agli occhi del poeta, se veramente fosse stato affiliato ad una setta a affinità templare. Il fatto che i Templari non siano mai nominati è da qualcuno attribuito ad una prudenza resa necessaria dal fatto che, dopo il 1314, i Templari erano diventati un tema scottante.
L’ipotesi appare piuttosto debole, dato che il sanguigno poeta non ha avuto timidezze nel collocare in inferno altissimi personaggi consegnandoci versi di grande violenza e crudezza. Che accondiscendesse ad una (preventiva) censura della Chiesa, appare inverosimile. L’idea della presenza templare nel Paradiso dantesco troverebbe supporto nella figure simboliche che compaiono nei tre cieli di Marte, Giove, e Saturno: rispettivamente la Croce, l’Aquila e la Scala. Per quanto riguarda gli ultimi due, “è impossibile non riconoscervi quelli del Kadosch Templare” (L’esoterismo di Dante, p. 23 dell’edizione Atanor, 1992). Invero, la scala (a sette gradini) che quattro secoli più tardi troveremo nel rituale del grado massonico Templare non è nemmeno remotamente simile allo scalone, genere Wanda Osiris, sul quale si muovono i beati del cielo di Saturno.
In Inglese, l’equivoco non sussisterebbe: chiameremmo l’una ladder e l’altra grand staircase. Quanto alla croce, è vero che “dopo essere stata il segno distintivo degli ordini cavallereschi, serve ancora di emblema a parecchi gradi massonici”, ma è altresì vero che nel mondo cristiano la croce è onnipresente. Su Dante è stato detto di tutto, e la sua opera è stata qualificata persino come una raccolta di gossip fiorentino. Nelle logge di area guénoniana a volte si qualifica la Commedia come un “poema islamico” (nonostante il rude trattamento inflitto al Profeta in Inf. XXVIII), così chiudendo in modo un po’ drastico l’annosa discussione sulle fonti islamiche dell’opera. All’origine c’è il viaggio in altri mondi, il mitologema del quale la Commedia è intessuta, che si incontra in molte tradizioni, europee (attribuito a eroi quali Eracle ed Enea) ed extraeuropee compresa quella islamica. In questa ultima, in particolare, esiste un’opera (Al Mi’rậg) di Ibn Arabi, celebrato maestro spirituale, nella quale è descritto un pellegrinaggio nei cieli, che ha delle affinità con quello dantesco 4
. Ad una lettura della Commedia del tipo Valli/Guénon aderisce Alberto Cesare Ambesi, autorevole studioso di Massoneria e di religioni orientali, il quale, però, crede piuttosto ad un’origine iranica e, dubitativamente, ebraica 5 . Ma nel dopo-Guénon il mito si spinge oltre. Nel 1314 Dante a Parigi avrebbe assistito al rogo del Gran Maestro Jacques de Molay. Non vi è certezza che Dante sia mai stato a Parigi: il viaggio è menzionato da Boccaccio e da alcuni cronisti, ma non da altri. Talvolta la narrazione si arricchisce di dettagli. Esempio, sarebbe stato accompagnato da Giotto e si sarebbe spinto anche ad Oxford. Ammettendo che Dante sia stato a Parigi, non si sa se vi sia stato da vecchio (dopo l’esilio) o da giovane. Ammettendo che vi sia stato da vecchio, manca comunque ogni testimonianza che quel giorno fosse spettatore del tragico evento. Però, è bello pensarlo…. Chiaro, da quanto sopra, che tra i fautori del Dante esoterico la discordia regna su quale messaggio volesse criptare: pochi concordano con Rossetti. Per alcuni, l’illuminato deve usare un linguaggio criptato per esprimere concetti sovraumani, non per motivi di cautela, bensì in base all’aristocratico principio di “non gettare perle ai porci”.
Tra i fautori di questa teoria, ad esempio, ci sono quei cultori di islamismo che considerano il sufi Al Hallaj (giustiziato dai correligionari nel 922) come un illuminato, e al contempo approvano la sua condanna per “avere gettato perle, eccetera”. Ad avviso di chi scrive, le argomentazioni sul Dante esoterico sono indebolite proprio dalla loro varietà e diversità.

Ancora due annotazioni. La prima riguarda uno dei nodi interpretativi e cioè Beatrice: donna o allegoria? Boccaccio sostenne – come si sa - che Beatrice era una creatura reale: ebbene, secondo una certa lettura lo avrebbe fatto non perché ci credesse, bensì per distogliere da Dante il (pericoloso) sospetto che potesse esprimersi in modo simbolico/criptato: discorso che si incontra in letteratura e che definirei supercontorto.
Incidentalmente, Beatrice Portinari era una donna sposata. Come Radha, la paredra del Dio Krisna. E come la domina alla quale il trobadour tributava il suo amore-passione, circondato dal segreto, lasciando al marito l’amore “contrattuale”: la “clandestine” dell’amor cortese teorizzato alla corte di Eleonora di Aquitania e di Maria di Champagne, due secoli prima che Dante ponesse gli occhi su Beatrice. Qualche volta, osserva Mircea Eliade nella sua “Storia delle credenze e delle idee religiose”, il trobadour “riceveva il dono totale dalla propria domina”, al termine di un itinerario ritualizzato nel quale l’amore-passione sbocca nella “unio mystica”. Per Eliade, l’esempio di Radha e Krisna è significativo in quanto la “unio mystica” della tradizione indù, a differenza di quella cristiana, “proprio per sottolineare l’assoluto introdotto dall’esperienza mistica e la totale destabilizzazione della società e dei suoi valori morali, utilizza non già le immagini di una istituzione veneranda per eccellenza quale il matrimonio, bensì quelle del suo contrario: l’adulterio”. Il ciclo del Graal con i suoi elementi iniziatici – osserva – fu iniziato da Chrétien de Troyes, pupillo di Maria di Champagne e inventore di un’altra, celebre coppia adulterina: Lancillotto e Ginevra 6
. Che Dante non ignorasse la letteratura trobadorica, si può dare per certo: “noi leggevamo un giorno per diletto / di Lancialotto, come amor lo strinse”…..
La seconda annotazione riguarda il Canzoniere dantesco: per Rossetti (op. cit.),
“Le composizioni erotiche che in quella raccolta si leggono paiono scritte per una donna vera, e non per un fantasma allegorico: tanto quel modo di poetare è, oltre ogni credere, illusorio e ingannevole”. Chiaro che non c’è difesa contro simili argomentazioni. Eppure, Dante ha dimostrato di sapere rappresentare donne non angelicate: Francesca, ad esempio. In fondo, c’è lo stesso problema che si pone per il “Cantico dei Cantici”. Quelle espressioni di straordinario erotismo nacquero veramente per essere lette in chiave di mistica trasfigurazione? 7

Ho parlato finora della costruzione del mito di Dante esoterico. Se questa è un’operazione faticosa e discutibile, ma giustificabile sulla base del fatto che Dante, come chiarisce egli stesso nel Convivio, diede certamente dei messaggi da leggere al di là della lettera, ebbene, la costruzione del mito di Dante proto-massone è molto più faticosa, in quanto somma di due operazioni acrobatiche.
Primo, “lettura” esoterica di Dante; secondo, importazione di questa lettura nel bagaglio simbolico/iniziatico dell’istituzione massonica.
Dopo Guénon e Valli (anni 20 del 900), sul Dante esoterico il silenzio è durato una trentina d’anni per essere rotto dopo la seconda guerra mondiale in modo fragoroso, ovvero da un numero cospicuo di opere sulle quali non sarebbe possibile soffermarsi.
Il tema qui non è “Dante esoterico”, bensì Dante come “Mito Massonico”.

Lino Sacchi
R\L\ Pedemontana 696 GOI, Torino

1 Gabriele Rossetti (1783-1854), letterato, probabilmente massone, fu esule in Inghilterra dove divenne professore di Letteratura Italiana. Ha lasciato, oltre a vari altri studi danteschi, un’opera importante, “La Beatrice di Dante. Ragionamenti critici di Gabriele Rossetti” (1842, 5 scellini, “stampato a spese dell’autore”), importante soprattutto per la vague che ha messo in movimento.
2 Per esempio, “pietra” è la Chiesa, “fiore” è la Sapienza Santa (mah), mentre “vita” significa “verità e propriamente verità della setta”. Tra le altre parole tradotte, follia, fontana, tuono, gelo, fiume, saluto, verdura, eccetera
3 G.C.Lensi Orlandi Cardini, Il Bafometto dei Templari a Firenze, Arktos, 1988
4 Tali affinità furono messe in evidenza da un orientalista spagnolo Asin Palacios, al quale Guénon riconosce la paternità dell’idea non senza attribuirgli un fraintendimento grave: considerare El Arabi un mistico (invece che un metafisico). Dante non cita mai l’opera di El Arabi (mentre cita Averroè e Avicenna) il che, secondo Guénon, dimostrerebbe soltanto che la conobbe per vie “occulte”, e cioè attraverso gli ordini cavallereschi (op. cit., capitolo V; ad avviso del sottoscritto, può darsi anche che, semplicemente, non l’avesse letta). In Al Mi’rậg, comunque, la differenza rispetto alla Commedia è di tono, oltre che di contenuto. Il tono è didattico. I pellegrini sono due: l’adepto destinato alla salvezza e il suo amico, uomo di scienza privo di fede. Questo
ultimo perde la sua scienza e è destinato alla “fornace” tra l’esultanza dell’amico devoto. Scritti di Ibn Arabi comprendenti Al Mi’rậg sono stati tradotti in italiano a cura di Massimo Jevolella (“L’alchimia della Felicità”, ed. red, 1996).
5 Vedi ad es. “I Rosacroce”, Armenia ed., 1975, cap. 3. René Guénon (L’esoterismo di Dante), si esprime con disapprovazione sui critici occidentali moderni i quali “pretendono che questa leggenda non sia specificamente islamica ed araba, ma che sia originaria della Persia” risalendo a un libro mazdeano. Questa è proprio l’idea dottamente argomentata da Ambesi. In realtà, il contrasto tra i due studiosi è poco rilevante: entrambi riconducono il mitologema del viaggio ultramondano alla originale unicità ed universalità delle tradizioni, della quale Dante sarebbe interprete, che comprende in particolare il mito della caduta, nel quale non c’è nulla di “favolistico” (Ambesi, p. 54). Tale universalità sarebbe “rivendicata e talvolta fraintesa nel seno di quelli che si è soliti definire movimenti sincretisti” (ibid.): probabile riferimento a New Age.
6 Interessante il confronto con un altro famoso adultero l’ “uomo della frontiera” Digenis Akritas, eroe del’’omonimo poema epico bizantino all’incirca coevo dei romanzi del Graal. Stesso lo sfondo storico (guerra della Cristianità contro Turchi e Arabi). Stessa l’importanza dei codici di onore. Anche qui è centrale, nel mondo dell’eroe, la conquista della donna amata, vista però più come preda che come domina.
7 Alcuni fautori del Dante esoterico, negando l’emozione, negano, come innecessario, il Dante poeta, dal quale sono disturbati. Ma è difficile disconoscere che Dante era poeta, e grande poeta. All’idea di poeti (grandi poeti in qualche caso) che si scambiano messaggi criptati, si può rivolgere un’obiezione di fondo: perché dovevano essi ricorrere a un modo così contorto e criptico per comunicare ed esprimere, ad esempio, amor di Dio e/o ansia di spiritualità? Potevano telefonarsi o mandarsi pizzini…. Invece utilizzarono un linguaggio che fu decifrato solo mezzo millennio più tardi. E non senza incertezze, come abbiamo visto: Valli (e prima di lui Perez) dicono che Rossetti non ha capito, Guénon dice che non hanno capito né Rossetti, né
Perez, né Valli, né Aroux, e salva solo Arturo Reghini il quale, peraltro, di Dante si è occupato marginalmente. Senza contare le letture politiche ovvero “ghibelline”, che non sono delle minori: Monti, Foscolo, Carducci, Mazzini….










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