2 ottobre 2011

- L’amore come cura nei confronti degli altri.





Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore,
dalle ossessioni delle tue manie.
Supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
E guarirai da tutte le malattie,
perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te.
Vagavo per i campi del Tennessee
(come vi ero arrivato, chissà).
Non hai fiori bianchi per me?
Più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare.
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.
Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza.
I profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi,
la bonaccia d'agosto non calmerà i nostri sensi.
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono.
Supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
Ti salverò da ogni malinconia,
perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te...
io sì, che avrò cura di te.

Franco Battiato. La cura



“La Cura“ di Franco Battiato è una canzone, una preghiera-meditazione sulla essenza dell'amore come “cura “ nei confronti di un altro essere. Un aspetto straordinario di questo brano è che esprime il concetto di “cura ” in tutte le sue manifestazioni interpersonali, sia dell’amante verso l’amata, sia del fratello verso un altro fratello, sia del padre verso il figlio, sia dell’Essere Supremo verso la sua creatura, l’uomo. E’ la descrizione di un viaggio di accompagnamento che comprende tutte le problematiche della vita dell’uomo, incluso il dolore e l'abbandono, senza dimenticare che ogni persona può essere speciale per un'altra persona, e che i ruoli possono invertirsi. Chi canta è un saggio che ha intuito nella “Cura” l’assoluto, la verità di amare, nel senso più esteso che consiste, in questo caso specifico, nel prendersi cura di un altro essere, sollevandolo da tutto, stargli accanto, anche se è impossibile evitargli il dolore che inevitabilmente la natura umana comporta. Introdurre questa tavola con le parole di questa canzone mi permette di esporre, in modo concreto, una parte del raffinato significato della parola “Cura”. L’etimologia di “cura” deriva dal latino cura ed ancora più anticamente da “coera” e “coira”, che gli antichi etimologisti ricongiunsero a “cor” , cuore e, fantasticando, insegnarono “cor-urat” perché scalda, ossia stimola il cuore e lo consuma. Altri fanno derivare questo termine da “cusa” (la r muta in s) e “Ku” assume il significato di battere, di martellare, di accudire. Altri ancora farebbero derivare questa parola dalla radice “Kau” che significa nelle lingue slave o russe osservare, guardare o da “Kavi“che vuol dire assennato, saggio o da “kuti”, conoscere, guardare, ascoltare. Comunque, possiamo sintetizzare che tale termine esprime sollecitudine, grande ed assidua diligenza, vigilanza premurosa, assistenza, grave e continua inquietudine. Se esaminiamo le definizioni delle virtù utilizzate per lodare gli imperatori romani, riportate nelle varie fonti letterarie, epigrafiche, numismatiche o monumentali, oltre alle quattro virtù fondamentali cioè virtus, clementia, iustitia e pietas, inscritte per la prima volta nello scudo aureo conferito a Cesare Augusto, il primo imperatore, ritroviamo tra le oltre cinquanta, anche il termine “cura”. La cura, una virtù simile alla diligentia, ha significato di zelo e di scrupolo con cui si opera. Cicerone, infatti, comprende la cura come un aspetto della diligentia. Il significato della “cura” varia a secondo dell’ente oggetto della cura. Può essere utile, secondo me, al fine di una più articolata esposizione e una migliore comprensione del termine, suddividerla almeno in tre categorie:
1. La cura di sé
2. La cura del mondo che ci circonda, o delle cose
3. La cura verso il nostro prossimo
LA CURA VERSO SÉ
La Cura verso di sé, è pro-curare nutrimento alla propria anima, per farla star bene; è energia di vivere; è impulso esistenziale; è interesse, amore per il proprio essere; è piacere di esistere. Il significato profondo della “Cura di sé” si disvela in maniera articolata in Goethe ed in Heidegger.
“La sostanza dell’uomo è l’esistenza”, dice Heidegger (1889-1976) e la “cura di sé” fa sì che “gli importi del proprio essere”. La cura è un fenomeno esistenziale, primario e fondamentale. La cura in tal caso è intesa come “preoccupazione vitale”. Nella cura si fondono sia il volere che il desiderare, sia la pulsione che l’attrazione . L’uomo deve prendersi cura di sé apportando o pro-curando un impulso “a vivere “, ad andare “in – avanti verso…..” ad ogni costo. Il filosofo tedesco Martin Heidegger nel suo capolavoro “Essere e tempo” del 1927, per fare comprendere meglio il significato della cura, riporta una favola di un poeta latino, Gaio Giulio Igino. La Cura in questa favola è il nome di una divinità minore. La favola inizia con «Cura cum fluvium transiret…» Mentre attraversava un fiume, la “CURA” scorse del fango argilloso, lo prese pensosa e cominciò a modellare un uomo. Mentre considerava tra sé e sé che cosa avesse fatto, sopraggiunse Giove; l'Inquietudine (cura) lo pregò di infondere lo spirito nell'uomo, cosa che ottenne facilmente da Giove. Ma siccome l'Inquietudine pretendeva di darle il proprio nome, Giove (glielo) proibì e disse che invece bisognava dargli il suo. Mentre l'Inquietudine e Giove disputavano sul nome, si fece avanti anche la Terra, e sosteneva che bisognava imporgli il suo nome, dal momento che (essa) aveva fornito il proprio corpo (per plasmarlo). (Allora) presero come giudice Saturno; ma Saturno decise diversamente: "Tu, Giove, poiché infondesti lo spirito, dopo la morte dell'uomo riceverai la (sua) anima; tu, Terra, dato che fornisti la materia, riprenderai il (suo) corpo; l'Inquietudine, siccome lo ha modellato per prima, lo possieda per tutta la vita. Ma, dal momento che c'è disaccordo sul suo nome, sia chiamato homo, perché è fatto di humus (terra). In questa favola emerge bene il significato della cura, come qualcosa a cui l’essere umano “per tutta la vita” appartiene; inoltre la presenza della cura coincide con la nota concezione dell’uomo come “compositum” di corpo (terra) e di spirito (anima). In questa favola il termine latino di Cura va inteso come preoccupazione vitale, ansia vitale, inquietudine esistenziale, che, personificata a una dea, accompagna l’uomo tutta la vita. Il termine esprime anche apprensione, affanno, sollecitudine, premura e devozione, tutte caratteristiche inscindibili dell’animo umano. La cura è la vera creatrice e accompagnatrice dell’uomo. L’uomo si caratterizza, secondo Heidegger, non solo perché sa parlare, o ha la ragione o tiene il logos ma perché gli importa del proprio essere. L’uomo, dice Heidegger, non è ebreo o greco, razionale o irrazionale “uomo è colui che si chiede chi e che cosa e come egli stesso sia”. “È colui che si pone la “domanda”, rifiutando ogni “ tesi somma”, ogni “verità assoluta ed eterna”. Ecco il senso stesso della “Cura di sé ”, secondo il filosofo tedesco: rispettare il senso dell’essere, anzi, del suo esserci. Anche Johann Wolfgang Goethe (1749-1832 - Letterato tedesco, che aderì con entusiasmo alla Massoneria e fu iniziato a Lipsia nel 1780 nella notte di S. Giovanni, nella Loggia “Anna Amalia alle tre rose”, affronta nella seconda parte (atto V) della sua opera più importante il “Faust”, il simbolismo della cura. Il Faust di Goethe è uno scienziato, insoddisfatto dei limiti del sapere umano, che, ormai vecchio, viene tentato dal demonio Mefistofele. Gli vende la propria anima in cambio di giovinezza, sapienza e potere. Ma alla fine del suo viaggio Faust, sente il desiderio di essere libero, e sotto il dominio della “Cura” ritorna uomo, accettando di nuovo la vita reale, con il suo susseguirsi di bene e di male, con la sua alterna vicenda di tormento e di serenità. Faust, accogliendo la Cura, e sotto il suo dominio, si sente un uomo nuovo, raddoppia le sue energie e sente un impeto intenso di vivere. Il nuovo Dott. Faust è più completo, più equilibrato e maturo, specialmente nei suoi rapporti con gli altri uomini. Faust si sente accresciuto di luce interiore.
“La notte sembra scendere sempre più fonda ma brilla entro di me una luce chiara…”
Tutta la vita, il pensiero e l’arte di Goethe fu dominata dalla sua massima prediletta “ricordati di vivere”.
“Memento mori !
perché dovrei,
in una vita così breve,
tormentarmi?”
L’amore per la vita
Queste righe sono un inno alla vita. Fanno comprendere una disposizione costante: un amore illimitato alla vita, la meraviglia di fronte alla vita e all’esistenza. In contrapposizione al “memento mori” (ricordati che devi morire dei cristiani, neoplatonici e romantici). Fu proprio durante il suo viaggio in Italia, al contatto con l’arte antica, incontrata nelle vie di Roma, di Napoli, di Pompei, che scoprì il modo di vivere degli uomini dell’antichità, da lui chiamato “la salute del momento” ovvero la gioia spontanea e immediata di vivere, opposta alla nostalgia di un aldilà, cara ai cristiani. L’esercizio spirituale, caro a Goethe, era quello di concentrarsi sull’istante presente, che permette di vivere intensamente ogni attimo dell’esistenza, senza lasciarsi distrarre dal peso del passato o dal miraggio del futuro (“Attimo fuggente, arrestati, sei bello!”). Un secondo esercizio spirituale era quello dello sguardo dall’alto (come immaginarsi di salire su una montagna), che consiste nel distanziarsi dalle cose e dagli eventi, sforzandosi di cogliere una prospettiva d’insieme, distaccandosi dal proprio punto di vista individuale, parziale e particolare. Il pericolo che minaccia l’uomo, diceva Goethe, è di non potersi innalzare oltre la banalità o la mediocrità. In tal caso la vita risulta una routine banale, senza ideali, dominata dall’abitudine e dagli interessi egoistici che ci nascondono lo splendore dell’esistenza. Goethe incarna la figura di un uomo antico e pagano, ovvero un uomo felice, che vive nel presente, la cui figura viene opposta all’inquietudine morbosa dell’uomo moderno che si protende quasi costantemente verso il futuro. Anche se la rappresentazione della vita felice per gli antichi greci, fatta da Goethe, è stata oggetto di critiche. August Boeckh scriveva: “I greci erano più infelici di quanto credano molti” e Schopenhauer metteva in risalto il profondo pessimismo greco, scrivendo:
“ La miglior cosa per gli uomini di questa terra è non essere nati e non vedere la luce del sole, ma se son nati, allora quanto più presto possibile valicare le porte dell’Ade e giacere profondamente sepolti”
Anche Orazio già parlava dell’“oscura pena degli uomini” e Lucrezio denunciava l’inquietudine interiore degli uomini :
“Gli uomini sentono il peso del loro animo che li tormenta e li opprime …
li vediamo non sapere che cosa ciascuno desideri, e sempre cercare di mutare luogo nell’illusione di trovare sollievo. Così ognuno fugge se stesso e suo malgrado vi resta attaccato e lo odia”. Seneca addirittura analizza le “malattie dell’anima” (la moderna sindrome depressiva) come l’avversione verso se stessi (condizione completamente opposta della “Cura” che esprime come abbiamo detto amore verso se stessi, interesse al proprio essere-ci), il disgusto della vita e dell’universo. Il pensiero di Goethe riprende sia la dottrina epicurea, sia quella stoica, in quanto entrambe privilegiano il presente a scapito del passato e, soprattutto, del futuro, e stabiliscono il principio che la felicità deve trovarsi solo nel presente. La saggezza consiste nel ricercare la tranquillità dell’anima, cioè in definitiva uno stato di piacere. Secondo gli epicurei, gli stolti, cioè la maggioranza degli uomini, sono divorati da desideri insaziabili, che hanno come oggetto ricchezza, gloria, potere, piaceri carnali disordinati. Tutti piaceri che non possono essere soddisfatti nel presente. Gli stolti, quindi, non sanno godere del presente, aspettano solo i futuri e poiché questi non possono essere sicuri sono logorati sempre da angoscia e timore. Il pensiero epicureo impone, quindi, una vera e propria trasformazione radicale dell’atteggiamento umano nei confronti del tempo, una metamorfosi che deve essere effettuata in ogni istante della vita.
LA CURA VERSO IL MONDO E VERSO LE COSE
La cura verso il mondo è un atteggiamento costante di attenzione alla realtà quotidiana, al paesaggio. E’ la volontà di stupirsi, istante dopo istante, di essere-ci; è la capacità di riuscire a trovare dolcezza nel naufragare nell’inesauribile “arcobaleno di stelle” della nostra breve esistenza. La “Cura”, in questo specifico caso, esprime la forza interiore dell’uomo di riflettere, di interpretare e di interiorizzare tutto ciò che vede.
Ci sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice:
“Salve, ragazzi, com’è l’acqua oggi ?”
I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e dice:
“ Che cavolo è l’acqua?”.
L’aneddoto, tratto da “Questa è l’acqua” di David Foster Wallace (1962-2008) , scrittore americano, esprime bene quello che io intendo con il termine “Cura verso il mondo o verso le cose”, cioè una continua attenzione, dedizione, consapevolezza, curiosità, rivolta con grande cura a tutto ciò che ci circonda, alla nostra realtà, giorno dopo giorno. Questa è l’acqua! Dobbiamo imparare a conoscerla, a guardarla, a sperimentarla, a interiorizzarla.
La cura verso il sublime.
Il filosofo Ludwing Wittgenstein (1889-1951), figura emblematica della filosofia del ‘900, scrisse:
“In ogni percezione echeggia un pensiero; sia perché l’occhio è sempre antico da un punto di vista filogenetico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni vecchie e nuove che gli provengono dall’orecchio, dal naso, dalla lingua , dalle dita, dal cuore e dal cervello”.
L’uomo ha sempre cercato di costruire se stesso sfidando la grandezza e il predominio della natura. Da tale confronto (uomo/natura) l’individuo sente dentro di sé risvegliare la parte più profonda dell’anima, innalzandola ad altezze che diversamente non avrebbe mai raggiunto. Questo rapporto aiuta l’uomo a ritrovarsi e a forgiarsi. Questa peculiare emozione definita “calma inquieta”, caratterizzata da un piacere misto al terrore, si prova quando si contemplano spettacoli “sublimi”, in cui la natura mostra la sua smisurata grandezza e la sua forza distruttrice e l’uomo sente la sua debolezza fisica, la sua vulnerabilità, ma anche la sua superiorità dovuta alla presenza del pensiero. La forte emozione permette al soggetto di dilatare la sua anima e di entrare in armonia con il cosmo, con l’eterno, intuendo il senso dell’infinito e della trascendenza. Spettacoli sublimi sono per esempio: il cielo stellato, il vento che agita le onde del mare .…. gli oceani, le montagne, le foreste, i vulcani, i deserti. Il sublime si distingue dal bello; sublime è una bellezza maestosa, ma inquietante, che ti attrae, ma, contemporaneamente, ti allontana: “La notte è sublime, il giorno è bello”. Sublimi sono quelle situazioni in cui viene meno qualcosa, esprimono l’assenza. Sublima è l’oscurità (assenza di luce), il silenzio (privazione di suono), il vuoto (privazione di oggetti); solitudine (privazione di socialità), l’infinito (in quanto privazione di limiti) e soprattutto l’oggetto più sublime che esista, quello della morte (in quanto privazione della vita). L’individuo comunque esce temprato da questa prova con il sublime. E’ un tirocinio che ha come scopo quello di controllare le proprie angosce e rendere familiare, per quanto possibile, una realtà piena di pericoli. Quest’aspetto può essere correlato con il percorso del libero muratore che esegue una sorta di “tirocinio simbolico” utile ad affrontare le difficoltà insite nella vita, compresa quella della malattia e della morte. Shelling diceva che “ La grandezza dell’uomo si manifesta anche nella calma accettazione della morte e nei rovesciamenti di fortuna, nella virile sopportazione del dolore e dell’infelicità”. Per percepire e ricercare il sentimento del sublime occorre una appropriata educazione, una “Cura nei confronti del reale” che ci innalzi al di sopra della condizione di mediocre banalità. Se manca, si è ciechi e sordi di fronte al sublime. Il fattore estetico è indispensabile a forgiare il “sé” più nobile dell’individuo. In Massoneria, l’adepto percepisce costantemente ed impara a curare il senso del sublime. Il sentimento del sublime, che ha avuto il suo apice nell’Europa del ‘700-‘800 (Romanticismo), ha inciso infatti in modo significativo sugli ideali massonici.
La cura verso le cose
Rivolgere la nostra cura verso il mondo che ci circonda vuol dire non solo verso la natura, come abbiamo descritto sopra, ma anche verso le “cose”. Le cose sono tutto ciò che interessa a noi, che ci sta a cuore. Le “cose” non sono soltanto cose ma recano tracce umane, recano i segni del tempo. Esse sono il nostro prolungamento. Dobbiamo cercare di comprendere la vita delle cose, il corso delle cose, cioè intravedere quello che c’è al di là delle cose, dovremmo fare come i pittori che hanno uno sguardo affinato, riescono a vedere l’invisibile nel visibile. Le cose stesse sembrano parlare, “res ipsa loquitur”, e guardarci. Le cose, inoltre, nascondono precisi valori simbolici, ed i simboli, per la loro natura, congiungono il visibile rappresentato all’invisibile assente. Il fascino delle rovine, per esempio, è forte, la loro incompletezza offre spunti di riflessione sul passare del tempo, sulla caducità, sulla natura effimera della vita umana. Gustave Flaubert, dopo una visita alle Terme di Caracalla, nel 1846 scriveva a un amico:
”…ho visto alcuni ruderi…pensai di nuovo ad essi ed ai morti che non avevo mai conosciuto….amo soprattutto la vista della vegetazione che copre le vecchie rovine, questo abbraccio della natura, che viene a seppellire rapidamente le opere dell’uomo nel momento in cui la sua mano non riesce più a difenderle, mi colma di una gioia ampia e profonda”.
L’analisi dei dipinti, altro esempio, specialmente delle nature morte, basti pensare a quelle del Caravaggio, di Matisse, di Picasso, di De Chirico e di Morandi, ci induce, se non siamo distratti e superficiali, come dicono i critici d’arte, “ a prestar orecchio alla loro voce ”. L’aspetto simbolico prende il sopravvento su quello materiale. La capacità di porre attenzione anche alle cose che ci circondano, di avere cura di esse, significa “ordinare e dare senso e bellezza al mondo -Diakosmesis- , in tal modo diamo senso e bellezza anche a noi stessi”. Credo che anche questo atteggiamento dell’animo umano, espresso sotto forma di “cura verso le cose”, faccia parte integrante dell’insegnamento massonico, specialmente riferendosi alla sua formazione simbolica e trascendentale.
LA CURA VERSO GLI ALTRI
La prima domanda da fare è capire chi è il nostro prossimo. La risposta viene dalla lettura della parabola del buon Samaritano, che è una lezione sull’“universalità” dell’amore per il prossimo.
“ Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova…...Aveva chiesto a Gesù chi è il mio prossimo? “e Gesù disse: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un Sacerdote… lo vide e passò dall’altra parte, anche un Levita... lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione… e si “prese cura” di lui. Poi Gesù disse: chi di questi tre ti sembra sia il prossimo di colui che è incappato nei briganti? Quegli rispose: “chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va e anche tu fa lo stesso”. Quindi l’amore per il prossimo ha i suoi confini, non è come crediamo genericamente l’altro, chiunque sia ma è “colui che mi è più vicino”. In greco “plesion” è colui che mi è vicino. Il “Sacerdote” e il “Levita” 1
, ambedue uomini di culto dedicati alla devozione, anche se erano a lui prossimi, sono passati ma solo il Samaritano si è chinato verso il sofferente e lo ha soccorso facendosi prossimo a lui. Mi preme sottolineare che quindi “prossimo si diventa”; un soggetto diventa prossimo all’altro solamente quando si “fa prossimo egli stesso”. Il mio prossimo è colui che mi soccorre nel bisogno, è colui che ha avuto compassione di me. In tal modo riusciamo anche a capire chi, nonostante sia prossimo/vicino a noi, non si comporta o non si è comportato come mio prossimo.
Noi possiamo cambiare anche la domanda “chi è mio fratello?”.
Mio fratello o mia sorella è colui/lei che potenzialmente potrebbe diventare “mio prossimo”, anche se il “prossimo non si sceglie”, potrà essere chiunque, anche il mio peggior nemico, ed io stesso posso essere il peggiore degli uomini, per il mio prossimo. Se estendiamo il concetto diventano fratelli/sorelle tutti quelli/e che hanno bisogno del nostro aiuto, delle nostre cure, così “prossimo” e “fratello/sorella” possiamo considerarli sinonimi. La Libera Muratoria, essendo un Ordine Iniziatico, è una cerchia limitata di soggetti “scelti” e quindi tutti vincolati a “curare” nel bisogno, a farsi prossimi in modo particolare ai propri Fratelli. Farsi prossimi all’altro, curare l’altro introduce concetti come l’altruismo e la carità. La carità 2
è dare quello che non si ha, una generosità lontana dall’altruismo, che invece è addomesticamento dell’altro, è una variante dell’egoismo. La “caritas” è quell’impulso interiore, quella “verità interiore”, quella “cura” ad agire nei confronti degli altri, in modo giusto e vero (Caritas in Veritate). I due termini - cura e carità - coincidono. La prima è un’espressione prevalentemente laica, la carità invece è legata all’insegnamento cristiano - la carità è tutto “ Dio è carità - Deus Caritas est”. Agostino indica l’esistenza dentro l’anima umana di un “senso interno” “la nostra coscienza” - assolutamente vero e certo - che ci è stato dato e che ci permette di sceglier tra il bene e il male al di fuori delle normali funzioni della ragione, è un atto intuitivo, istintivo. Il nome che Agostino dà a questa “verità interiore “ è “Dio”. La giustizia è “inseparabile dalla carità”. “Curare” o fare “carità” all’altro, significa dare all’altro quello che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare, in rapporto a ciò che gli compete secondo giustizia. Pertanto l’individuo deve essere “giusto” nella cura verso gli altri. La “Cura”/“Caritas” è alla base non solo delle micro-relazioni (rapporti familiari, amicali, di gruppo) ma anche delle macrorelazioni (rapporti sociali, economici, politici). “Curare” gli altri, implica quindi anche prendere in considerazione, oltre al bene individuale, il bene comune (di noi tutti e della comunità sociale, della polis, dei grandi problemi etici e perfino una posizione politica) al fine di favorire lo sviluppo umano nella sua integrità. La “Cura” verso gli altri, inoltre, sintetizza i tre grandi principi della Massoneria.
1. L’amore fraterno inteso come tolleranza, rispetto, comprensione nei confronti degli altri.
2. Carità che deve essere praticata, non solo per loro, ma anche per la comunità nel suo insieme, sia come solidarietà che come beneficienza economica collettiva sia come lavoro volontario dei singoli individui.
3. Verità: i Liberi Muratori cercano la verità in tutte le manifestazione della vita.
CONSIDERAZIONI
Le tavole massoniche non dovrebbero mai finire con le “conclusioni” nel vero senso della parola, perché non raggiungono nessuna certezza, nessuna verità assoluta. Senza conclusione sono anche le opere dei grandi letterati russi (Fedor Michajlovic Dostoeisky, Vladimir Nabokof, Anton Cechov), perché questi autori avevano la presunzione di lasciare al lettore di aggiungere da sé ciò che mancava nel racconto. La finalità di un lavoro in Massoneria è di permettere, a colui che lo compila, di sentire il piacere, non solo dello scrivere, ma di una arricchimento interiore. Esso deve stimolare alla riflessione e aprire eventualmente nuovi fronti nella ricerca esoterica o addirittura, se nessuno si prenderà “cura”, non importa, decadrà nell’oblio. Nella tavola è stato analizzato il senso della “cura” nel suo significato latino e partendo dalla sua etimologia è stato dipanato il suo significato in rapporto all’oggetto della cura: l’Essere stesso (la cura verso sé); il mondo che ci circonda, con il suo contenuto simbolico fatto di paesaggi e di cose (la cura verso il mondo); gli altri (la cura verso gli altri), estesa non solo alle persone, ma anche al bene comune, alla società ed all’umanità intera, espressione della speranza massonica più utopistica. Questo tema sembra essere attuale in rapporto al particolare momento storico e culturale, in cui si cerca di formare un uomo sempre più tecnologico, meno riflessivo, meno umano e incapace d’amare o curare. L’uomo di oggi sembra aver perso la capacità di pensare e di meditare, da solo, in rispettoso silenzio. Questa tavola vuole essere un’esortazione a tenere sempre vivo questo particolare atteggiamento virtuoso dell’animo umano cioè quello della “cura”. Questa riflessione, penso sia utile anche a noi Iniziati, per non correre il rischio di comportarsi come il Sacerdote e il Levita, che erano ambedue uomini di culto, ambedue professionisti della devozione, che pur passando vicini/prossimi… all’uomo che scendeva da Gerico a Gerusalemme… lo ignorarono e passarono oltre. Erano il “suo prossimo” ma se ne allontanarono alla svelta.




Opus Minimum
Claudio Spinelli
R\L\ N. Guerrazzi 665 GOI, Follonica

1 Il termine Levita deriva dai membri della tribù israelitica di Levi. Ad essi era affidato il compito di sorvegliare il tabernacolo e il Tempio. Leviti avevano il compito di cantare, di suonare e di assistere. I Leviti sono descritti come i guardiani di Dio. Nel deserto non avevano adorato il vitello d'oro, ma avevano appoggiato Mosè, membro della tribù di Levi.

2 La parola carità deriva dal latino “carus” che vuol dire caro, amato, scelta per tradurre in latino la parola greca “agàpê”, uno dei quattro termini usati in greco per esprimere l’esperienza dell’amore: -storghè: l’amore fondato sulla consanguineità o sui vincoli di solidarietà naturale (familiari, amici, compatrioti); eros: l’amore come desiderio veemente, spesso legato alla sfera sessuale; philìa: l’amore come amicizia, libero e gratuito; esso ha però un limite preciso perché è determinato dal valore del soggetto amato; agàpê: rapporto d’amore che non è tra eguali; esso è da un lato amore disinteressato (indipendente dal valore della persona), e dall’altro, sentimento di riconoscenza.


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