3 maggio 2011

- Inconscio



Forse la distanza più grande che separa Jung da Freud sta nella loro differente interpretazione dell’inconscio. Jung condivide l’impostazione freudiana di una mente inconscia, svincolata da qualsiasi controllo cosciente, che sta alla base dei meccanismi psicologici dell’individuo. E condivide l’enorme influenza che l’inconscio può avere sul comportamento umano cosciente. Ma ne distingue due forme: un “inconscio personale”, generato dall’individuo nel corso della propria vita, ed un “inconscio collettivo”, al quale appartengono contenuti non strettamente personali bensì “prodotti psichici” generati dall’Uomo nel corso di tutta la sua evoluzione.
Inconscio personale
In altri termini, mentre il cosiddetto inconscio personale è fatto di contenuti che provengono dalla storia della vita dell’individuo, vale a dire ciò che è rimosso, retrocesso, dimenticato, sepolto al di sotto della soglia della coscienza, l’inconscio collettivo è un patrimonio ereditario comune a tutti gli uomini e la sua presenza è talmente primigenia da risultare il fondamento di ogni psiche individuale.
Inconscio collettivo
In particolare, l’inconscio collettivo consta di contenuti che rappresentano i tipici modi di reagire dell’umanità, fin dai suoi inizi, nei confronti di situazioni di natura genericamente umana quali la paura, il pericolo, la lotta contro le forze superiori, le relazioni tra i sessi o fra figli e genitori, le figure del padre e della madre, il comportamento di fronte all’odio e all’amore, alla nascita e alla morte, la potenza dei principi dell’oscurità e della luce, ecc. Jung dice al riguardo: “L’inconscio collettivo è la poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo umano, che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale”. E a chi gli obiettava che la scienza escludeva la possibilità che potessero essere ereditate caratteristiche acquisite o ricordi di immagini, Jung rispondeva: “Con questo concetto non si intende una “immagine ereditata”, ma certi percorsi ereditati, dunque il modo innato in cui il pulcino esce dall’uovo, gli uccelli costruiscono i loro nidi, certe vespe colpiscono col pungiglione il ganglio motorio del bruco e le anguille trovano la loro via verso le Bermude; in altre parole esso è un modello di comportamento”. “Sarebbe un grave errore” dice ancora Jung“ supporre che la psiche del neonato sia una tabula rasa, nel senso che sia assolutamente vuota”. Il bambino, sempre secondo Jung, nasce con un cervello già impostato dall’eredità. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, il neonato non agirà in un modo qualsiasi, ma con un atteggiamento già specifico. Si potrebbe cioè dimostrare che i suoi comportamenti sono degli istinti ereditati e dei modelli preformati. Ciò significa che la psiche del neonato nasce già strutturata e che si comporta: “come una lastra fotografica che sia rimasta esposta durante le generazioni anteriori”. “Di conseguenza” insiste Jung “tutti questi fattori che furono essenziali ai nostri antenati, prossimi e lontani, saranno essenziali a noi stessi, incorporati come sono nel sistema organico ereditato”. L’inconscio collettivo è quindi raffigurabile come un grandissimo serbatoio contenente tutte queste emozioni inconsce ma attive, che risalgono alla notte dei tempi del genere umano e che generano dei simboli potenti, delle creazioni artistiche, delle suggestive religioni, ecc. Un inconscio siffatto è paragonabile ad una “biblioteca”, uguale per tutti, dove sono raccolti numerosi volumi (archetipi), da utilizzare per il progressivo sviluppo delle proprie potenzialità psichiche.
L’arcipelago
Per meglio entrare nel senso di concetti non troppo frequentati da chi non è “addetto ai lavori”, tornerà senz’altro utile questo indovinato parallelismo proposto da Frank Tallis: “L’architettura del sistema junghiano si chiarisce ricorrendo a una semplice analogia: l’arcipelago. Le menti umane sono come singole isole in successione, e la superficie del mare è come la soglia di coscienza. Sotto il mare, ogni isola poggia su una formazione rocciosa unica. Questa corrisponde all’inconscio personale. Ancora più in basso, queste colonne isolate di roccia si fondono, condividendo una parte del fondo marino. Il livello in cui le diverse isole si uniscono è l’equivalente di ciò che Jung ha chiamato “inconscio razziale”, un deposito di antiche memorie associate a specifici gruppi etnici (per esempio, i mongoli o gli ariani). Continuando a scendere, si raggiunge un punto dove tutte le isole e le masse terrestri si fondono. Questo, il livello più profondo, coincide con l’inconscio collettivo ”. Una conseguenza strabiliante di questa concezione è che l’inconscio collettivo non è mai malato semplicemente perché è impersonale! Si tratta, quindi, di un inconscio superiore che funziona come un’eredità mentale comune a tutta l’umanità e che ci mette in contatto con la parte più intima dell’Uomo, da sempre immutata.
L’inconscio universale
Ad onor del vero, anche se il concetto di “inconscio collettivo” viene considerato come uno dei contributi più significativi del pensiero junghiano, dobbiamo tuttavia ammettere che tale concetto ben corrisponde alla vecchia idea romantica dell’inconscio universale, un’astrazione le cui sfumature abbiamo già visto essere state esplorate da un’intera generazione di poeti, filosofi e artisti. E già i romantici avevano supposto che nell’inconscio universale fossero presenti immagini primordiali (cioè primitive e arcaiche) che potevano affiorare alla coscienza tramite i sogni o altri stati psichici alterati (ad esempio, per effetto dell’oppio). Merito di Jung fu quello di aver meglio definito il valore e il senso di queste immagini, che alla fine egli chiamò archètipi.
Archetipi e Simboli, Teoria
Definire un archetipo non è semplice poiché è un concetto assolutamente cangiante, in grado di assumere sfumature di significato sempre diverse. Lo stesso Jung, che pure di archetipi doveva intendersene, se non altro per non sconfessata paternità, è a questo proposito categorico: “Non dobbiamo cedere nemmeno per un momento all’illusione di poter una volta finalmente spiegare, e con ciò liquidare, un archetipo. Anche il migliore tentativo di interpretazione non è altro che una traduzione più o meno riuscita in un altro linguaggio figurato”. E in un’altra occasione ribadisce: “Il loro significato ultimo può essere circoscritto, non descritto”. La stessa evoluzione del concetto è piuttosto sofferta. Jung aveva notato che i motivi mitologici, le fiabe, i simboli della storia dell’umanità o le reazioni emotive particolarmente intense tradivano sempre un’origine dagli strati più profondi della psiche, dove era condensata l’energia mentale più potente perché primordiale. Proprio in quanto dotati di questa forte carica energetica emozionale, furono all’inizio (1912) chiamati da Jung immagini primordiali e più tardi (1917) “dominanti dell’inconscio collettivo”.
Suddivisioni del concetto
Solo a partire dal 1919 li chiamò archètipi ma nel 1946 ne propose una revisione distinguendo due tipi: 1) un archetipo in sé, insito nella parte profonda della psiche e non percettibile dalla coscienza; 2) un archetipo attualizzato, cioè ormai entrato nel campo della coscienza e pertanto evidente come “immagine archetipica”, come “rappresentazione archetipica” o come “processo archetipico”. Se queste sono le spiegazioni, potremmo ribadire di aver trovato ambiguità al posto di chiarezza! In effetti, le premesse non sono state certo esplicative e tutti i nostri dubbi circa l’identità degli archetipi rimangono tali. Il che non deve stupire se si tiene conto che la dottrina degli archetipi è senz’altro quella che ha suscitato maggiori controversie, persino fra gli stessi allievi di Jung, tanto che non sono rari i neo-junghiani, anche italiani, che prescindono totalmente dalla teoria degli archetipi, giudicandola del tutto infondata. Per di più, sempre Jung, nel tentativo di risultare maggiormente comprensibile, sembra avvolgersi in una spirale ancora più oscura: “ Gli archetipi non sono determinati dal contenuto. Una “immagine originaria “ è determinata da un contenuto solo quando è conscia e perciò riempita da materiale dell’esperienza cosciente. L’archetipo è in sé un elemento vuoto, formale, non è altro che una facultas preformandi. Segue il famoso esempio del cristallo, che cercheremo di sintetizzare.
L’esempio del cristallo
In pratica un cristallo, prima di prendere la forma tridimensionale definitiva, è solo un aggregato di molecole sparse che mai farebbe presupporre l’aspetto finale. Tuttavia queste molecole hanno insita in sé una “forza morfogenica”, invisibile e inconoscibile, che le disporrà secondo un certo ordine spaziale fino a far loro assumere l’aspetto ultimo, cioè quello del cristallo formato. Un archetipo, perlomeno l’archetipo in sé, quello cioè inconoscibile perché sepolto nel profondo dell’inconscio collettivo, verrebbe quindi ad identificarsi con la “forza morfogenica” delle molecole del cristallo. Per analogia, esso sarebbe quindi in grado di “preformare” (facultas preformandi) i contenuti psichici dell’Uomo secondo linee di sviluppo ben definite, anche se non consce, che condurrebbero il processo al suo prodotto ultimo: il pensiero cosciente.
Gli archetipi come elaborazioni figurate
Anche se qualche barlume di comprensione, a questo punto, sembra accendersi e prendere vigore, si rendono necessarie indiscutibilmente ulteriori spiegazioni. Vediamo di trovarle, rovistando sempre fra gli scritti di Jung e facendo una debita premessa: nel linguaggio dell’inconscio, che è un linguaggio figurato (che si esprime cioè per immagini), anche gli archetipi assumono una forma figurata. E’ questo un concetto da tenere a mente perché ci tornerà utile per comprendere il seguito. Per adesso vediamo come in un’altra sua opera di sapore conclusivo, non per niente pubblicata postuma, l’instancabile indagatore della psiche umana, ormai alle soglie della morte, si sforzi ancora di far comprendere l’intimo significato delle sue idee: “La mia teoria sui “resti arcaici”, da me definiti “archetipi” o “immagini primordiali”, è stata sempre criticata da coloro che non hanno una conoscenza appropriata dei sogni e della mitologia. Il termine “archetipo” è spesso frainteso in quanto viene identificato con certe immagini definite o precisi motivi mitologici. Questi, in realtà, non sono altro che rappresentazioni consce. L’archetipo è invece la tendenza inconscia a produrre rappresentazioni della realtà”. Il che significa che il cervello umano possiede l’innata tendenza a trasformare in “elaborazioni mentali figurate soggettive” determinati “aspetti invarianti e ripetitivi” della realtà. È sempre Jung che tenta di spiegare: “ Esistono per esempio molte rappresentazioni del motivo dei “fratelli nemici”, ma il motivo rimane sempre lo stesso. I miei critici hanno sempre erroneamente sostenuto che io presupponga all’esistenza di “rappresentazioni ereditarie” e su questa base hanno liquidato l’idea di archetipo come mera superstizione. Essi non hanno preso in considerazione il fatto che se gli archetipi fossero veramente rappresentazioni create (o acquisite) dalla nostra coscienza, noi dovremmo essere sicuramente in grado di comprenderle senza trovarci stupefatti e perplessi quando essi si presentano alla coscienza. Essi, in realtà, sono “tendenze” istintive altrettanto marcate quanto lo è l’impulso degli uccelli a costruire il nido, o quello delle formiche a dar vita a colonie organizzate”.
Tendenza della mente
In un estremo sforzo di semplificazione potremmo quindi dire che non si ereditano le immagini, i racconti o le fiabe quanto la tendenza a costruire immagini, racconti o fiabe quando la mente umana incontra vicende esistenziali dotate di una forte valenza primitiva. Il che accade quando l’Uomo viene in contatto, ad esempio, con l’Idea del Coraggio, dell’Origine della Vita, della Saggezza, ecc. Da queste “sollecitazioni mentali” primordiali, che per lungo tempo hanno agito sulla mente dell’Uomo primitivo, si sono pian piano originate delle modalità di reazione psicologica che, alla fine, sono divenute connaturate alla stessa struttura psichica dell’Homo Sapiens. Dato poi che l’inconscio parla solo attraverso immagini, tali reazioni psicologiche non poterono che palesarsi sotto un aspetto figurato, assumendo la vaga forma di “elaborazioni mentali figurate inconsce”, quali ad esempio la figura del Vecchio Saggio, del Grande Padre, dell’Eroe, ecc.
Si distingue la forma dell’archetipo dal simbolo
Non va tuttavia confusa la “forma” (figura) primordiale dell’archetipo con quella successiva
dell’immagine simbolica. Ci dice ancora Jung: “Ciò che un contenuto archetipico sempre esprime è, anzitutto, una “similitudine”. Se esso parla del sole, identificandolo con il Leone, con il Re, con l’Oro custodito dai Dragoni o con la Vitalità o la Salute degli uomini [cioè immagini simboliche],esso non è né l’uno né l’altro bensì un “terzo ignoto” che può venire espresso più o meno adeguatamente per mezzo di tutte quelle similitudini ma che - a eterno dispetto dell’intelletto - rimane fatalmente ignoto e indefinibile”. Come avremo modo di approfondire in seguito questa “non limpidissima“ spiegazione sta a significare che l’immagine simbolica, in quanto similitudine dell’oggetto reale, non può che essere un costrutto mentale secondario, cioè suscitato dall’archetipo, e quindi ad esso successivo (cioè conseguente). Archetipo e simbolo vanno quindi ben distinti, in quanto l’uno è causa e l’altro effetto. D’altra parte sarebbero proprio i simboli, visto che l’archetipo, in quanto nascosto nelle profondità dell’inconscio, non è conoscibile, a creare un legame fra la realtà (evidente) vissuta dall’individuo in un dato momento e l’archetipo (non evidente) che a quella realtà è sotteso. Così, ad esempio, se dovessimo trovarci in una situazione (realtà evidente) che richiede fermezza d’animo e coraggio, potremmo essere aiutati in questo compito gravoso dalla visione di un simbolo, quale ad esempio la Croce, che potrebbe rimandarci ad una inconscia idea figurata di Eroe o di Dio (non evidente) sepolta nelle profondità della nostra psiche.
Simbolo come ponte tra soggetto e archetipo
L’elemento simbolico, in quanto ponte fra soggetto e archetipo, renderebbe a quel punto possibile l’utilizzo delle preziose energie psichiche dell’inconscio e, quindi, il superamento del “blocco psicologico” creatoci da quella difficile esperienza di vita. E’ questa, ad esempio, una delle potenti molle psicologiche che spinge il soldato a correre incontro alla morte. Un conflitto esistenziale così crudele sarebbe infatti difficilmente superabile senza lo sprone simbolico di un crocifisso (Dio lo vuole!) o della bandiera nazionale (La Patria – cioè la Grande Madre – lo vuole!). In definitiva le vaghe figure inconsce (figura dell’Eroe, figura di Dio o del Grande Padre, ecc.) sono gli “archetipi in sé” mentre i racconti, i miti o le fiabe rappresentano gli “archetipi attualizzati”, cioè la trasformazione cosciente e consapevole di un dato psichico inconscio solo vagamente avvertito. Gli “archetipi in sé” funzionerebbero come “nuclei di aggregazione” (una sorta di invisibili calamite psicologiche) attorno ai quali si strutturano i comportamenti degli uomini di ogni epoca. E’ questo un assunto importante ed è essenziale capire meglio come il processo possa realizzarsi. Abbiamo già visto come Jung considerasse l’archetipo un elemento inconoscibile, “vuoto” e “formale”, cioè sprovvisto di sostanza propria e dotato di una forma figurata approssimativa. Ebbene, questa forma, priva di contenuto, “vuota”, si comporterebbe alla stregua di una scheletrica impalcatura di sostegno interna, sempre uguale a se stessa, su cui è possibile costruire una forma (figura) esterna (visibile), dotata di senso compiuto. In un certo senso, ciò ricorda i grandi carri allegorici del Carnevale dove la carta straccia, opportunamente lavorata e sagomata dall’artista, restituisce una figura a tutti comprensibile (drago, diavolo, uomo politico, ecc.) solo grazie all’azione sostentatrice della intelaiatura metallica interna (invisibile). Allo stesso modo, ogni uomo può colmare il vuoto formale dell’intelaiatura archetipica (non conoscibile direttamente) rivestendolo con i propri (cioè personali) contenuti psichici, divenuti, a questo punto del processo mentale, evidenti e consci. E sarà questa sovrastruttura conscia che determinerà lo sviluppo dei suoi successivi comportamenti.
L’archetipo nelle diversità individuali
Ne consegue che l’archetipo, pur restando sempre uguale a se stesso, in quanto “forma” pura idealizzata, può ogni volta essere ammantato con contenuti emozionali differenti derivanti dalle mutevoli esperienze vissute da individui diversi. Così lo stesso archetipo, proprio perché vestito ogni volta con “abiti” differenti, può portare a risultati comportamentali dissimili da uomo a uomo e, addirittura, difformi da momento a momento nella stessa persona. L’archetipo di Dio, ad esempio, potrebbe stimolare la parte più gentile e femminea dell’anima di un uomo suscitando in lui sentimenti di pietà verso i miseri e di vergogna per il benessere raggiunto, a dispetto dei molti che non hanno di che sfamarsi. Travolto da un irriducibile sentimento di carità, potrebbe a quel punto trovare la forza (energia psichica interna) di abbandonare i propri cari, le proprie certezze economiche, il proprio stile di vita per dedicarsi completamente all’umanità sofferente. D’altro canto lo stesso archetipo, in un altro individuo, potrebbe invece istigare la parte più virile e prevaricante del proprio essere ispirando insofferenza verso chi non è della stessa confessione ed aperta ostilità verso tutto ciò che appare incomprensibile. Le tristi conseguenze dei fondamentalismi religiosi sono sotto gli occhi di tutti a riprova di quanto male viene fatto in nome di un innato senso del sacro (archetipo di Dio) presente, più o meno inconsapevolmente, nella mente di tutti gli uomini.
Modelli di comportamento
In estrema sintesi, gli archetipi sono dei modelli primordiali di comportamento umano cui la psiche dell’Uomo fa riferimento quando deve reagire ad esperienze della vita reale che generano forti emozioni o stati d’animo primitivi quali appunto la paura, le relazioni sessuali, i rapporti tra padre e figlio ecc. L’immagine primordiale dell’Eroe è oggi, nell’anima umana, la stessa che nei tempi mitici. E il modo di agire di questo archetipo sulla psiche dell’Uomo continua ad essere sostanzialmente invariato. E’ infatti nei momenti di necessità che emerge il nostro “lato coraggioso”. In quei momenti cominciamo ad avvertire in noi una “forza interna” che spinge la nostra anima oltre i limiti consueti. E’ qualcosa di indefinibile, qualcosa che esula dal nostro comportamento abitudinario ma anche qualcosa che si fa sentire con energia e che sembra indirizzarci con convincente fermezza. E questo “qualcosa” pian piano arriva ad assumere una “forma”, prende le sembianze di una figura indistinta, si umanizza. E’ come se un “amico” si materializzasse al nostro fianco, senza tuttavia riuscire mai ad assumere un aspetto concreto. Per questo ha più parvenza di fantasma che di uomo, ciononostante ne percepiamo la nobiltà d’animo, la capacità di discernere il bene dal male, la dirittura morale inequivocabile. E come rapiti da tanto suadente carisma, inconsapevolmente ci troviamo ad imitarlo, a ragionare con la sua mente regale, a comportarci, come lui, con coraggio. Ogni volta che dubitiamo, la sua evanescente presenza torna a farsi più chiara e distinta e ci sembra di vedere (meglio sarebbe dire immaginare) il suo sorriso, fiero e leale. Oppure ne intravediamo il corpo atletico e possente, le braccia muscolose, lo sguardo attento. Così la mente fanciulla dell’umanità primigenia ha rappresentato un Eroe, e così l’inconscio ce lo ripropone per venirci in aiuto. Ed altrettanto inconsciamente così noi lo utilizziamo, facendolo divenire l’ “Eroe dentro di noi”, il nostro modello di riferimento, colui che sa cos’è il coraggio e che saprà traghettarci da uno stato di ordinaria e pavida inettitudine all’esaltazione gloriosa dell’Uomo-Eroe, metà umano e metà divino. Giova comunque sottolineare che tali modelli, proprio perché “prodotti” dell’inconscio, non possiedono alcuna qualità morale e possono suscitare sia comportamenti etici (lato chiaro) che comportamenti immorali (lato oscuro). Abbiamo già visto come l’archetipo di Dio possa anche giustificare odio e violenza. Starà quindi all’Io, cioè alla parte più cosciente della nostra psiche, fare un’opportuna opera di censura!
L’esperienza dell’analisi psicologica
Se questa teoria sia effettivamente vera, oppure debba inevitabilmente infrangersi contro le inflessibili leggi dell’ereditarietà genetica, è ancora oggi motivo di discussione. Certo è che nella mente possono materializzarsi immagini tanto fantastiche e così peculiari da rendere impossibile qualsiasi nesso con la cultura e la maturità psicologica di colui o colei che quelle immagini ha involontariamente creato. Illuminanti, a questo proposito, i sogni di una bambina di otto anni che Jung analizzò su espressa richiesta del padre, fra l’altro psichiatra, che si ritrovò fortemente imbarazzato dalla stranezza dei contenuti. Si trattava infatti di immagini ad alto contenuto religioso e filosofico, improbabili in una bambina di quell’età. La spiegazione di una esperienza così insolita, altrimenti difficile se non impossibile, poteva invece essere trovata facendo ricorso all’esistenza di concetti primordiali, innati ed ereditari della mente umana. Anche se Jung era fermamente convinto della realtà degli archetipi, e metterli in discussione, anche solo ipoteticamente, sarebbe come contraddire il suo pensiero, potremmo comunque suggerire un compromesso a chi non condivide questo aspetto del suo pensiero ricordando che lo stesso Jung, a proposito del valore simbolico dei sogni, tentò un analogo compromesso affermando che la tesi “non era vera realmente, ma lo era psicologicamente”. Nulla vieta di adottare questo giudizio prudenziale anche per l’intera impalcatura teoretica degli archetipi, che potrebbe considerarsi “vera” solo nell’ambito psicologico e non in quello biologico in senso lato. D’altra parte che “qualcosa” vada escogitato per rendere comprensibili certe manifestazioni dell’Uomo è fuori dubbio. Un altro passo di Jung potrà essere, a questo proposito, oltremodo significativo: “ Del resto gli uomini si sono mai completamente liberati dal mito? Qualsiasi uomo aveva gli occhi e tutti i suoi sensi per accorgersi che il mondo è morto, freddo e infinito e ancora nessuno ha mai visto un dio o è stato costretto ad ammetterne l’esistenza da un’esperienza empirica. Ci volle, al contrario, un ottimismo indistruttibile e contrario a qualsiasi senso della realtà per ravvisare, ad esempio, la suprema salvezza e la redenzione del mondo proprio nella morte ignominiosa del Cristo. Così si può certamente nascondere a un bambino il contenuto degli antichi miti, ma non si può portargli via il bisogno della mitologia. Si può affermare che, se si riuscisse a recidere d’un colpo tutte le tradizioni del mondo, tutta la mitologia e la storia delle religioni incomincerebbero da capo con la generazione successiva. Solo pochi individui, nell’epoca di una certa spavalderia intellettuale, riescono a disfarsi della mitologia; la massa non se ne libera mai. Tutti gli “illuministi” non servono a nulla: essi distruggono soltanto una forma transitoria di manifestazione, ma non la tendenza creatrice. Quelli che si perpetuano [però] non sono racconti di avvenimenti antichi qualsiasi, ma unicamente quelli che esprimono un’idea universale dell’umanità, idea che ringiovanisce eternamente e continuamente”. L’eterna giovinezza del sistema poggia proprio sul fatto che non solo l’Uomo di ieri, culturalmente abituato a prendere per veri i racconti fantastici ed allusivi, ma anche l’Uomo di oggi e quello di domani troveranno sempre in queste produzioni allegoriche e/o simboliche spunti di riflessione, temi di paragone, esempi da imitare o da respingere. In altre parole troveranno motivazione ed incentivo, cioè l’indispensabile energia psichica per proseguire il loro viaggio sull’accidentato percorso della vita.

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