10 gennaio 2010

- Giordano Bruno - Il processo.


Giordano Bruno non si reputava eretico; egli sapeva di aver cercato con onestà intellettuale la verità religiosa, credeva in una Divinità panteistica che permea tutto e tutti, lui compreso, e non riusciva a comprendere per quale motivo la Chiesa Cattolica non si comportasse con la medesima onestà e impedisse la libera ricerca di Dio.
Il processo di revisione critica, attualmente in atto, all’interno della Chiesa Cattolica nei confronti dei famigerati comportamenti inquisitoriali, che produssero la condanna di Galileo Galilei, può, forse, evidenziare una certa buona volontà delle gerarchie ecclesiastiche nel riconoscere i propri errori passati e, al contempo, il chiaro imbarazzo di chi si vede costretto a difendere posizioni ormai anacronistiche e irrevocabilmente condannate dalla storia, ma sicuramente non può nascondere il profondo e indissolubile legame che unisce tali eccessi al dogmatismo intransigente di una fede religiosa, quale è quella cattolica, convinta di detenere il monopolio della verità assoluta e rivelata. Infatti, mentre riguardo al processo Galileo il Papa vacilla e sente sulle proprie spalle il peso di tutta la vergogna che deve ricoprire l’ignoranza di una dottrina ormai sconfitta dalla ricerca scientifica, rispetto al processo Giordano Bruno tace e tenta di far dimenticare il rogo sul quale fu bruciato il 17 febbraio 1600 in Campo dei Fiori a Roma, per ordine del successore di Pietro, del rappresentante di Cristo in terra, di quel Clemente (di nome e non di fatto) VIII, il filosofo di Nola. La doppia verità, quella religiosa e quella scientifica, servì a salvare Galileo dal rogo all’epoca del processo e serve oggi alla Chiesa, al di là delle sofisticate ricerche e congetture di Pietro Redondi (P. Redondi, Galileo eretico, Einaudi, 1983) intorno alla vera accusa occultamente mossa dal Collegio romano dei Gesuiti a Galileo, a ritrattare la propria posizione senza minimamente intaccare il proprio dogmatico e fanatico credo. Ben diversa, invece, è la situazione nei confronti di Giordano Bruno, il quale volle entrare nel merito della verità filosofica e religiosa per discutere il magistero stesso della Chiesa. Galileo si occupava di scienza, Bruno parlava di temi religiosi, intendendo per religione la ricerca intorno ai grandi interrogativi esistenziali dell’uomo: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
Il libro di Luigi Firpo
Luigi Firpo affronta con grande rigore storico e fuori dalle contingenti polemiche politiche il processo a Giordano Bruno. Tra il 1948 e il 1949 egli pubblicò in due puntate sulla Rivista Storica Italiana un saggio intitolato Il processo di Giordano Bruno. Tale saggio venne poi raccolto in un libro edito nel 1949 dalle Edizioni scientifiche italiane di Napoli e ora, dopo la scomparsa dell’Autore avvenuta il 2 marzo 1989, è disponibile una nuova edizione del 1993, curata da Diego Quaglioni, ad opera della Salerno Editrice di Roma. Il libro attualmente in distribuzione si apre con un’articolata introduzione di Quaglioni, che inquadra con precisione sia la ricerca dell’Autore, sia le principali problematiche storiche e storiografiche relative al processo in esame, e si chiude con una fedele e voluminosa raccolta di tutta la documentazione processuale ad oggi disponibile. Racchiusa tra questi due estremi è collocato il testo di Firpo, che rende conto delle vicissitudini di Bruno tra l’agosto 1591, anno del suo rientro in Italia, e il 1600, data fatale della sua esecuzione capitale. L’autore sottopone ad esame la denunzia, anzi le denunzie presentate da Zuane Mocenigo all’inquisitore di Venezia Giovan Gabriele da Saluzzo contro Giordano Bruno (maggio 1592); si sofferma con attenzione sulle prime testimonianze e sulla fase veneziana del processo, che termina con la concessione da parte del Senato di Venezia, su richiesta del Sommo Pontefice, dell’estradizione del Nolano e con la conseguente traduzione del medesimo a Roma (febbraio 1593); affronta il tema della seconda denunzia per eresia mossa al Bruno da un ex compagno di cella del periodo di detenzione veneziana, il cappuccino Celestino da Verona (autunno 1593), che verrà poi bruciato vivo in Campo dei Fiori cinque mesi prima del Nolano; quindi analizza le varie fasi del processo inquisitoriale romano, compresa la ricerca dei testi scritti dal filosofo, quali elementi di prova a carico, e la censura dei medesimi, sino a concludere la sua fatica con la sentenza di condanna del Bruno, che con tenace decisione si era rifiutato di riconoscersi eretico sia di fronte alle otto proposizioni sottopostegli dal cardinale Roberto Bellarmino, sia di fronte all’estremo tentativo di ricevere la sua abiura compiuto dal generale Beccaria e dal procuratore Isaresi, confratelli domenicani del filosofo di Nola.
I capi d’accusa
Tra i personaggi del processo spicca per bassezza morale e ottusità intellettuale, come sostiene Firpo stesso, la figura del patrizio veneziano Mocenigo, il quale, dopo aver invitato presso di sé il Bruno per essere erudito nell’arte della memoria, ma in realtà maggiormente interessato a tanto mirabolanti quanto inesistenti segreti di natura magica, deluso e stizzito lo denunzia all’Inquisizione. Giordano Bruno viene accusato di avere opinioni avverse alla S. Fede e di aver tenuto discorsi contrari ad essa e ai suoi ministri; di avere opinioni erronee sulla Trinità, la divinità di Cristo e l’incarnazione, sulla transustanziazione e la S. Messa; di sostenere l’esistenza di molteplici mondi e la loro eternità; di credere alla metempsicosi e alla trasmigrazione dell’anima umana nei bruti; di occuparsi di arte divinatoria e magica; di non credere, infine, alla verginità della Madonna. Appare subito evidente che i capi d’accusa rivolti al Nolano nella prima denunzia da lui subita (ma la situazione non cambia per le successive denunzie e accuse, che sostanzialmente ripercorreranno i medesimi argomenti) riguardano tutti indistintamente un tipo di reato che oggi verrebbe definito d’opinione. Ossia l’Inquisizione della Chiesa Cattolica muove contro il filosofo non per atti da lui compiuti, ma per le idee espresse e cercherà per tutta la durata del processo di indurlo al pentimento e alla ritrattazione. Successivamente un altro personaggio ignobile compare sulla scena processuale: è il cappuccino Celestino da Verona, il quale, convinto erroneamente di essere stato danneggiato nella sua situazione giudiziaria da alcune e non meglio precisate dichiarazioni del Bruno, presenta contro quest’ultimo un’ulteriore denunzia di eresia e di blasfemia.
Processo alle opinioni
Di fronte a questi squallidi personaggi e intenti sorge subito spontanea una riflessione: un processo fondato sulla delazione e sul pentimento di soggetti coinvolti a qualche titolo nella vicenda giudiziaria stessa, come è appunto il processo inquisitoriale in esame, non solo mette necessariamente in pericolo i diritti dell’imputato, ma non fornisce neppure sufficienti garanzie intorno alla ricerca di una verità fattuale e non preconcetta. Tale riflessione potrebbe tranquillamente essere ripetuta per molti processi a noi contemporanei, condotti da una magistratura inquirente, che ha ereditato il ruolo e lo spirito della magistratura inquisitoriale. Il processo contro Giordano Bruno, dunque, non fu solo un processo alle opinioni del filosofo, ma si fondò anche su un sistema probatorio profondamente inquinato dalla violenza di lunghe detenzioni preventive, dall’intimidazione di continui tentativi di costringere il detenuto al pentimento e alla confessione e dal sospetto legato alla delazione anche anonima. Nonostante tutto ciò il modello inquisitoriale non riuscì a produrre una qualche sentenza, se non dopo ben quasi dieci anni di detenzione dell’indiziato. E di indiziato in senso tecnico si trattava, infatti, anche per le leggi dell’epoca, dal momento che tutto il processo fu costruito e tenuto in piedi sulla base di semplici indizi e solo il rifiuto opposto dall’imputato a ritrattare l’elenco di otto capi d’accusa, estratti dagli atti del processo dal gesuita Bellarmino, produsse la sua condanna. In breve, l’Inquisizione era prevalentemente interessata al ravvedimento spirituale del Bruno e quindi cercava una sua piena confessione con relativo pentimento. Di fronte al diniego del filosofo essa trasportò sul piano giudiziario la sua condanna di ordine morale e religioso, ma fece ciò non senza ipocrisia. Ipocrisia che si legge con raccapriccio nella copia parziale della sentenza destinata al Governatore di Roma (8 febbraio 1600). In essa il Tribunale ecclesiastico affida Giordano Bruno al braccio secolare affinché venga punito, con la raccomandazione, però, di mitigare il rigore della legge e di evitare al condannato la pena di morte o la mutilazione. Era a tutti noto, allora come ora, che la consegna al braccio secolare con una sentenza di condanna per eresia come quella comminata al Bruno comportava automaticamente il rogo. A poco vale la riflessione di Firpo secondo la quale la Chiesa Cattolica avrebbe applicato senza preconcetta acredine nei confronti dell’imputato la normativa penale e processuale vigente. È proprio tale normativa, in quanto vigente ed espressione di violenza contro l’individuo, di assolutismo politico e di intolleranza nei confronti delle idee, che suona come irrevocabile condanna della Chiesa romana.
L’estradizione a Roma
Il processo e la relativa documentazione ci forniscono un interessante quadro sociologico della realtà carceraria dell’epoca, ma, soprattutto, delle dinamiche intercorrenti tra i vari personaggi: denunziante e accusato, tribunale e imputato, testimoni, ecc. In particolare, emerge una dinamica tipica dei processi penali: quella relativa alla competenza di giudizio. L’Inquisizione veneziana sosteneva la propria, ma quella romana pretendeva l’estradizione dell’imputato in quanto pubblico e convinto eresiarca, suddito napoletano, religioso regolare e, soprattutto, già inquisito in Napoli e Roma. Il Nunzio Apostolico Ludovico Taverna motivò con tali argomentazioni il desiderio di Papa Clemente VIII di processare il Bruno a Roma. Tuttavia, come scrive Firpo: «Quello che… faceva difetto nel discorso del nunzio era la sincerità, poiché il Bruno non era stato per nulla convinto di eresia dall’unico teste e poteva semmai dirsi parzialmente confesso; inoltre i giovanili processi di Napoli e di Roma riguardavano l’Ordine domenicano e non già l’Inquisizione…» (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno Editrice, Roma, 1993, p. 38) In ogni caso, non fu facile sottrarre a Venezia la giurisdizione: era un problema di prestigio e di sovranità politica della Serenissima. Infatti, mentre in un primo tempo il diniego fu deciso e apparentemente irremovibile, successivamente e solo dopo aver riconosciuto l’eccezionalità del caso, che in nulla intaccava l’autonomia di Venezia, si convenne di concedere quanto richiesto da «Sua Santità come segno della continuata prontezza della Repubblica in farle cosa grata». (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 212) Le ragioni di Stato erano salve sia sotto il profilo della sovranità della giurisdizione veneta che sotto quello dei buoni rapporti con la Santa Sede, ma i diritti dell’imputato erano stati decisamente dimenticati e, comunque, subordinati a ben più rilevanti interessi di natura politica.
Voleva discutere con il Pontefice
È possibile interrogarsi intorno alle motivazioni che resero il Santo Padre (detto con ironia) tanto ansioso di condurre la causa di Giordano Bruno sotto il proprio potere. Del resto, lo stesso filosofo nolano si illudeva di poter ragionare, su un piano di parità, con il Pontefice intorno ai principali temi di filosofia, di teologia e di religione. Forse, proprio questa illusione di poter avere un dialogo sincero con il massimo vertice della Chiesa Cattolica, dialogo dal quale avrebbe potuto scaturire una profonda riforma dal di dentro del Cristianesimo, una sua radicale sdogmatizzazione e razionalizzazione, condusse Bruno in Italia dopo il suo lungo peregrinare nei vari Stati europei. «Nella propria filosofia il Nolano era venuto riconoscendo sempre più distintamente un valore etico-sociale, una significazione di annunzio evangelico e di universale rigenerazione; l’insegnamento diveniva predicazione e apostolato, e la sua opera di rinnovatore della scienza – tollerata, se non applaudita, in Germania – si espandeva in un’azione di riforma religiosa, che le Chiese protestanti mostravano di reprimere con intransigenza non meno rigorosa di quella che lo stesso impulso avrebbe trovato in un paese cattolico. La religione che il Bruno propugna è una religione intellettualistica, naturalistica, semplificata, spoglia di dogmatismi, al fine di sgombrare il terreno da ogni appiglio alle disquisizioni e alle eresie; un deismo fondato sulla carità concorde degli uomini, che più nulla ha di comune con la dottrina rivelata del Cristianesimo. » (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 10) Come poteva sperare Bruno nella benevolenza e nell’onestà intellettuale di un Pontefice e di una Chiesa ormai completamente immersa negli interessi politici terreni, piuttosto che nella ricerca religiosa del trascendente? La domanda non ha facile risposta, entrano sicuramente in gioco le illusioni e la presunzione personale del filosofo, ma soprattutto appare prepotentemente quella profonda e indomabile fede del Bruno nell’universalità del Divino. Quella stessa fede che gli fece gridare contro i suoi giudici la famosa frase, ormai dimostrata non leggendaria, ma storica: «Forse con maggior timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla.»
Libera ricerca - non eresia
Giordano Bruno non si reputava eretico; egli sapeva di aver cercato con onestà intellettuale la verità religiosa, credeva in una Divinità panteistica che permea tutto e tutti, lui compreso, e non riusciva a comprendere per quale motivo la Chiesa Cattolica non si comportasse con la medesima onestà e impedisse la libera ricerca di Dio. «Si genera in lui la persuasione di essere vittima di una congiura di teologi che vogliono far passare per errore quello che tale non è, o almeno mai fu definito, ed egli sente che l’opinione sua vale la loro e non vuole accettare la sentenza; nega perciò di aver mai sostenuto eresie, non riferendosi insensatamente alla massa delle accuse del processo, ma al ristretto elenco di tesi filosofiche condannate, e rifiuta di rinnegarle non per ostinazione assoluta, ma per non soggiacere a quello che gli pare un sopruso; si appella con gli ultimi memoriali al Papa, sperando che Clemente VIII potesse intervenire, giudice imparziale, in una disputa nella quale Giordano vede se stesso e i membri del tribunale in qualità di contendenti, eguali affatto per autorità e dignità.» (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, pp. 110-111) Il Nolano si propone come paladino della libera ricerca individuale in materia filosofico- religiosa e spera nel Papa come vero e imparziale garante di Dio in terra, come sacerdote di una religione senza interessi terreni. Mai errore fu più fatale ad un uomo! Egli non si avvide di non avere di fronte una religione con interessi puramente trascendenti, ma un vero e proprio Stato votato all’egemonia politica nel mondo. Il tribunale, nel quale discuteva la propria posizione filosofica, il proprio credo religioso e nel quale riceveva contestazioni, proposizioni da abiurare e a sua volta presentava memoriali, rifiutava pentimenti e ritrattazioni, non era né l’università di Oxford né quella di Wittenberg, ma semplicemente l’Inquisizione, ossia uno strumento mondano di controllo, condizionamento e repressione dei sudditi e del loro pensiero. Bruno viene macinato lentamente nell’arco di quasi dieci anni da questa macchina mostruosa presieduta dal Papa dei cattolici. Non solo Clemente VIII non è garante di libertà, ma, al contrario, è il capo politico di uno Stato e di un partito votati al mantenimento della realtà sociale esistente all’epoca nella penisola italiana e nel mondo cattolico, è il custode di un’ortodossia religiosa che non intende lasciare nessuno spazio alla libera ricerca individuale, è il rappresentante di una casta sacerdotale che si è organizzata e istituzionalizzata per meglio tutelare i propri privilegi e il proprio potere su altri uomini e sulle loro idee.
Condanna della Chiesa-Stato, non della religione
In questo quadro risulta chiaro l’errore di Bruno; non era un errore di natura teologica, ma di natura socio-politica. Egli credeva di aver di fronte una religione e invece aveva di fronte uno Stato. Perché dichiararsi eretico se non si riconosce alla religione istituzionalizzata il diritto di definire un vero ortodosso? Perché sottomettersi a chi non possiede nessun diritto superiore a quello proprio di qualsiasi uomo di definizione della verità? Perché pentirsi se l’errore è opinabile? In breve, il Nolano contestava alla Chiesa il potere di definire l’errore filosofico-religioso e quindi la legittimità di formulare una qualsiasi condanna. E Bruno avrebbe avuto ragione se effettivamente si fosse trovato di fronte ad una vera religione alla ricerca di Dio e tollerante delle ricerche esistenziali di tutti i figli di questo Dio, ma per sua sfortuna egli invece cadde nella trappola tesa da uno Stato teocratico, organizzato e agguerrito per conseguire l’egemonia sul mondo, che, come ogni vero Stato, utilizza il proprio ordinamento giuridico e i propri tribunali per legittimare gli atti di forza che compie. La legittimità della condanna del Bruno, dunque, proviene non dalla presunta verità, detenuta da una qualche religione e, in particolare, da quella cattolica, ma dall’ordinamento giuridico intollerante di una Chiesa-Stato, quella romana, che intese imporre il proprio credo ideologico anche con la forza. Firpo riconosce, come si è già detto, a questa Chiesa-Stato l’applicazione nel processo a Bruno dell’ordinamento giuridico vigente all’epoca nei processi inquisitoriali e, in tale modo sembra voler legittimare formalmente l’operato di tale tribunale. Ma ciò che è in discussione nel nostro caso non è la legittimità giuridica di un provvedimento statale, bensì la legittimità religiosa di un comportamento contro la libertà dell’uomo e delle sue idee. Forse, e ne dubito, la Chiesa potrà essere assolta, in quanto Stato, dall’avere ucciso Giordano Bruno, ma sicuramente dovrà essere condannata come religione per questo delitto.
La Chiesa atea…
Il timore che Bruno legge nei volti dei suoi giudici mentre pronunziano la sua sentenza di morte probabilmente non è politico - la Chiesa era allora trionfante e potente -, ma soprattutto religioso. Non poteva sfuggire a quei giudici che il loro potere di condanna era meramente terreno e che il prevalere della cristallizzazione istituzionale e del fine politico nella Chiesa Cattolica non avrebbe potuto produrre altro che la fine del sentimento religioso, la fine, appunto, del Cattolicesimo come religione. Forse, una religione rivelata può anche presumere di detenere la verità, ma certamente tale possesso non può giustificare la soppressione fisica di colui che a sua volta cerca la propria strada verso la divinità. Non si tratta, in questo caso, di semplice carenza di tolleranza laica, ma di vera e propria contraddizione sul piano religioso. La scintilla divina che Giordano Bruno presuppone esistente in ciascuno di noi viene, da quei giudici, negata e Dio ridotto all’idolo, al totem legittimante i comportamenti della Chiesa-Stato. Bruno non teme la morte sul rogo perché crede «che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo a ricongiungersi all’anima universale». (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 104) Quei giudici, quella Chiesa, invece, temono la morte poiché non credono né in un Dio universale, né nell’anima individuale, espressione di questo Dio; temono la morte perché sono profondamente atei e sanno che la loro sentenza manifesta, svela al mondo questo loro ateismo, questa loro profonda, radicata e intollerante sfiducia nella divinità e nell’uomo libero.
Morris Ghezzi

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