- Mircea Eliade esoterico
La casa editrice “Settimo Sigillo” di Roma ha da poco pubblicato un libro, Mircea Eliade esoterico, che credo farà discutere parecchio. Più in particolare, i contenuti del volume potranno essere apprezzati e dibattuti dagli studiosi di storia delle religioni e dai cultori di studi tradizionali. L’autore, Marcello De Martino, docente di Lingua e Letteratura latina presso l’Università di Harvard, nelle pagine in questione, mette a frutto pienamente la propria specifica preparazione accademica, ma mostra, altresì, di essere attento esegeta di tematiche storico-religiose e di storia dell’esoterismo, in particolare delle sue correnti novecentesche. L’autore, mosso, peraltro, da un particolare gusto per l’ambito artistico letterario, riesce a proporci una ricostruzione significativa della biografia intellettuale di Eliade, il grande storico delle religioni romeno, facendo chiarezza, finalmente, sui suoi “non detti” che, come ben sa l’avveduto lettore, riguardano i rapporti con il tradizionalismo e le scelte politiche giovanili a favore del Movimento Legionario della “Guardia di ferro”, capeggiato da Corneliu Zelea Codreanu. L’importanza del libro è da individuarsi nel fatto che pone fine alla vexata quaestio, inaugurata in Italia nel 1973 da Furio Jesi, dapprima nella voce “Mito”, da questi redatta per l’enciclopedia Isedi e, successivamente, ripresa nelle pagine del suo Cultura di destra, relativa alla prossimità di Eliade alle posizioni della Destra tradizionale. A parere di Jesi, il pensatore romeno, tanto nelle opere scientifiche, quanto nella vasta produzione letteraria, avrebbe mostrato la sua aderenza alla cultura della “Bachofen Renaissance” degli anni ‘20, accettando, fino in fondo, la sostanzialità del mito. In questa prospettiva, attribuendo sostanza metafisica ai racconti mitologici, Eliade avrebbe aderito a una sorta di mistica della morte, in grado di spiegare la sua adesione al movimento dell’estrema destra romena.
Il libro di De Martino conferma la prossimità di Eliade agli autori della tradizione come Evola, Guénon, Coomaraswamy ma inverte di segno il giudizio di Jesi. In qualche modo, nella descrizione e nella elaborazione del giudizio sul mondo arcaico, vera e propria pars construens dell’opera di interprete delle religioni, Eliade è debitore alla visione del mondo prodotta dai pensatori della tradizione e dagli esoteristi. De Martino dimostra tutto ciò, alla luce di una documentazione ineccepibile: traduce direttamente dal romeno i testi eliadiani, in particolare quelli diaristici e letterari nei quali l’autore, come si comprende facilmente, era libero dai vincoli scientifici dell’accademia e poteva esprimersi direttamente, innanzitutto sul proprio mundus imaginalis, cosa che si evince dai romanzi, nonché sui propri interessi, letture e frequentazioni, cose che si desumono, compiutamente, solo dalle pagine diaristiche. Inoltre, il libro presenta l’iter formativo di Eliade, dal periodo giovanile a Bucarest, durante il quale all’università fu suo maestro Nae Ionescu che ebbe, in quanto metafisico e Guardista, un ruolo centrale nella formazione del giovane, al periodo parigino: è nella capitale francese che il pensatore romeno frequenta casa Hunwald, dove incontra, tra gli altri, Eugène Canseliet, considerato negli ambienti degli esoteristi europei l’unico discepolo di Fulcanelli, grazie al quale matura l’interesse eliadiano per l’ermetismo e l’alchimia. Ed è sempre a Parigi che Eliade, a contatto con i surrealisti di Breton e Daumal che, come si sa, avevano propensione per l’introspezione psicologico-onirica, ma anche per le variazioni degli stati di coscienza studiati e realizzati dalle correnti esoteriche, sviluppa quella concezione alla luce della quale la letteratura svolge, per l’uomo contemporaneo, la stessa funzione che, nel mondo tradizionale, era svolta dal mito: la lettura come momento ritualmente propedeutico al recupero del tempo delle origini. E’ questa tesi eliadiana a spiegare l’esegesi esoterica della Finnegans Wake di Joyce, oltre che la passione per Inferno di Strindberg e Séraphita di Balzac, che De Martino ci propone: per lo storico delle religioni l’opera dell’irlandese era, nei suoi effetti, comparabile ai miti australiani del Tempo del Sogno (non casualmente crediamo, riproposti negli ultimi anni da Bruce Chatwin in forma romanzata), in quanto riposizionavano il lettore nel tempo mitico. L’apparente banalità dei personaggi di Joyce e il loro insensato e giornaliero peregrinare, rappresentano la trasposizione contemporanea di quanto significato negli antichi miti dei popoli australi. Eliade, su quest’argomento, si esprime molto semplicemente: “Noi ci meravigliamo e ammiriamo, proprio come gli australiani, che Leopold Bloom si fermi in un bar e ordini una birra” (p. 138).
Vengono, inoltre, analizzati e approfonditi in appositi capitoli, le relazioni che lo studioso romeno intrattenne nonchè le influenze intellettuali che ricevette nel periodo indiano, durante la permanenza, dapprima, presso Dasgupta e, successivamente, presso il guru Swami Shivananda. In India, lo studio e la pratica dello yoga, conducono Eliade a incontrare il tantrismo, della qual cosa ci rendono edotti le pagine di Notti a Serampore, di La luce che si spegne, nonché quelle de Il Segreto del dottor Honigberger, romanzi che manifestano come l’interesse del romeno non fosse semplicemente scientifico ma realizzativo. Altro momento significativo di questa biografia intellettuale è da individuarsi nell’incontro ad Ascona con Olga Frobe-Kapteyn e, soprattutto con Jung. De Martino si sofferma ad analizzare le pagine di diario di Eliade in cui questi annotò dei sogni lucidi avuti ad Ascona, che lo studioso stesso interpretò come sogni sciamanici, divinatori, dai quali sarebbe emersa la corrispondenza psiche/realtà teorizzata da Jung. Si tratta della scoperta del tema della sincronicità del tempo, che renderebbe possibile la divinazione. Di essa Eliade tratta, ancora una volta, nelle pagine di un romanzo, L’indovino delle pietre. Insomma, dalla lettura complessiva dell’opera letteraria di Eliade, supportata da molte pagine di diario e dall’epistolario, emerge chiaramente, come sostiene De Martino, che indubitabilmente lo studioso romeno possa essere definito esoterico. Nelle opere scientifiche, questo legame con la cultura “segreta” e i suoi maestri, è meno evidente, sempre ben celato dalla prudenza accademica che fino agli ultimi giorni condizionò tanto lui, quanto il suo discepolo Culianu. Questi, comunque, seppe la verità su tali temi, sia per la prossimità di vita, almeno per un certo periodo, con il maestro, sia per gli studi che, a seguito della pubblicazione della bio-bibliografia su Eliade, aveva condotto sulla storia della Romania tra le due guerre. Probabilmente, dopo la morte del maestro, se non fosse stato brutalmente assassinato in circostanze misteriose all’Università di Chicago, avrebbe potuto chiarire, fino in fondo, il caso Eliade.
Comunque, va fatto rilevare, solo una volta, nell’opera scientifica del pensatore danubiano, si fa diretta professione di vicinanza all’esoterismo: si tratta dello scritto del 1937, Il folclore come strumento di conoscenza. Chiunque legga questo testo può rendersi conto di come lo studioso credesse, tra l’altro, possibile l’acquisizione di “poteri”, in grado di concedere un controllo magico sulla realtà. Il libro che stiamo analizzando è una vera miniera di informazioni sulla cultura del Novecento, più in particolare su quella tradizionale. Abbiamo pertanto scelto, tra i molti percorsi di lettura possibili, di spendere qualche parola in più sul rapporto Eliade-Evola. Innanzitutto, De Martino dimostra, ponendosi sulle tracce di Culianu, che il personaggio indicato dalle lettere J. E., nel romanzo Il segreto del dottor Honigberger, è sicuramente Julius Evola, inoltre, individua in un personaggio del romanzo La luce che si spegne, Manuel, lo stesso esoterista romano: qui, infatti, Manuel si fa propugnatore di un idealismo magico che ha, come De Martino mette in luce attraverso la comparazione dei testi eliadiani di questo romanzo con quelli filosofici di Evola, prossimità non solo contenutistica ma addirittura espressivo-lessicale con il filosofo dell’Individuo assoluto. Per di più, nelle pagine di diario, diverse volte lo studioso romeno fa riferimento a un saggio da lui scritto nel dicembre del 1928, sulla nave che lo portava da Porto Said a Colombo, intitolato significativamente Il fatto magico, poi andato smarrito: possiamo arguire che questo scritto era di argomento evoliano poiché a esso Eliade fa riferimento nella recensione a Rivolta contro il mondo moderno del 1935, in cui affermava di aver trattato della filosofia magica del tradizionalista ma che, tale studio, era rimasto allo stadio di manoscritto. In ogni caso, Eliade ravvisava nella filosofia magica una struttura logica compiuta, in grado di dar luogo a un sistema filosofico in sé completo. Nella stessa recensione egli scrisse che considerava Teoria e Fenomenologia dell’individuo assoluto: “Il libro più serio sull’Idealismo magico che sia stato scritto fino a questo momento” (p. 269).
Per Eliade è la filosofia di Evola a rappresentare il cuore del sistema di pensiero del romano che, per di più, in quanto idealismo magico, non è in contraddizione con i successivi sviluppi che il pensatore dette alle proprie produzioni intellettuali e al proprio percorso di vita. Per il romeno, come per Evola, il mondo è un dato creato magicamente dall’Io per eliminare la propria insufficienza, mondo che sempre si ripropone come ostacolo, come nuova necessità da superare. Cosa, questa, notata già da Gino Ferretti sulle pagine de L’Idealismo realistico, come puntualmente ricorda lo stesso De Martino. E’ certo che l’aspetto magico è da considerarsi il discrimine che Eliade pose tra il contemplativo Guénon e l’attivo Evola e che, in qualche modo, gli fece valutare più positivamente il contributo teorico-pratico fornito da quest’ultimo. Ma è altresì il medesimo aspetto magico, che emerge dalla lettura che Evola sviluppò dei misteri di Dioniso, intesi a far sì che l’io si imponga in termini divini, ad allontanare, ambiguamente, Eliade da Evola. Infatti se il personaggio Manuel-Evola giunge a sostenere: “ Dio non esiste, occorre che l’individuo lo crei, facendosi divino” (p. 282), Eliade coglie, nelle pagine di diario, proprio in ciò l’aspetto luciferino dell’esoterista romano e attribuisce alle sue pratiche rituali la stessa paralisi che, come si sa, colpì il filosofo al termine del secondo conflitto mondiale.
Lo storico delle religioni, così come emerge dalle stimolanti pagine di questo libro, ci pare un ossimoro vivente che si rapportò alla tradizione spinto da un rapporto di amore – odio. Ciò è spiegabile, certo, come mostrano le lettere che Evola gli scrisse il 15 Dicembre e il 31 Dicembre del 1951, all’interno di un progetto culturale, mirante a introdurre la cultura tradizionale nella cittadella accademica. In quest’ottica l’opera scientifica eliadiana avrebbe svolto la funzione di “cavallo di Troia”, insediatosi oltre le mura nemiche; oppure, quest’ambiguità, potrebbe certamente rinviare alla necessaria prudenza politica cui un personaggio come Eliade doveva attenersi, per ragioni strategiche, all’interno dell’Accademia statunitense, non tenera nei confronti di chi avesse sostenuto pubblicamente, sia pure molti anni prima, la causa dei fascismi europei. Ma in realtà, per noi, la ragione più profonda di quest’ambiguità di fondo, la si evince dai diari. Riportiamo la seguente citazione tra le tante possibili, perché estremamente sintetica e significativa. “di fatto la tragedia della mia vita si può ridurre a questa formula: sono un pagano, un perfetto pagano classico che cerca di cristianizzarsi. Per me i ritmi cosmici, i simboli …. esistono di più e più immediatamente del problema della redenzione” (pp.424-425). Eliade si colpevolizza, alla luce della originaria educazione ortodossa, della sua struttura interiore non cristiana. Questa la lacerazione spirituale che spiega le apparenti contraddizioni rispetto alla filosofia della tradizione, da parte del pensatore. In fondo, egli da sempre interessato a ogni tipo di soteriologia, dall’ermetismo rinascimentale, allo sciamanesimo, allo yoga popolare ha mirato alla realizzazione della coincidentia oppositorum, anche nel proprio percorso esistenziale. La sua esperienza di pensiero ha, a nostro giudizio, il nucleo vitale nella cosmizzazione dell’individuo, e quindi, in definitiva, mette capo a un’antropologia filosofica della tradizione, in grado di restituire vitalità alla staticità di certa scolastica tradizionalista, soprattutto di matrice guénoniana, che non coglie il carattere dinamico dei valori. Eliade, sostiene De Martino, non fa della tradizione una controcultura ma: “introietta il sapere tradizionale in un campo più vasto, e cioè quello lato sensu della Cultura” (p. 384). Merito certamente importante, dal nostro punto di vista, da attribuire allo studioso romeno! In forza di tale posizione, egli capì perfettamente l’inanità dei tentativi iniziatici nella modernità: infatti, l’uomo contemporaneo vive nelle dimensione storica aperta dal giudeo-cristianesimo e, nonostante i nostri sforzi, nessuno di noi, se sincero, non può, parafrasando Croce, non dirsi giudeo-cristiano. Tutti, infatti, siamo immersi nell’orizzonte storico, in esso l’iniziazione può essere attivata casualmente, come capirono Eliade, Jung e ancor prima Neumann, attraverso il “rituale del destino”. È la storia stessa che ci sottopone a prove, a “ordalie” iniziatiche, come fece rilevare Culianu. Una tradizione quella eliadiana che muove, quindi, non dalla preconcetta esclusione del moderno, pur essendo internamente motivata da una tensione ultramoderna, attenta al qui e ora, aperta e colloquiante con la realtà perché cosciente di quanto intuito da un originale interprete della storia contemporanea, che pur di Eliade si interessò, il filosofo Augusto del Noce. Questi ebbe a scrivere: “La linea che oggi propongo intende porsi al di là della posizione modernista come dell’antimodernista. Il moderno e l’antimoderno sono in certa guisa veramente gemelli, così che talvolta riesce difficile distinguere la punta estrema della modernità dell’antimoderno: è il caso di Heidegger” (Modernità, p. 41).
E’ per questa stessa ragione che il libro in questione, propone al lettore una sorta di prossimità tra la tradizione e gli sviluppi della scienza, in particolare della fisica olistica. De Martino affronta i temi sviluppati dalla gnosi di Princeton, ma avrebbe potuto avvalersi, allo scopo, anche del proficuo rapporto prodottosi nel secondo dopoguerra tra Heidegger e Heisenberg. Ed è sempre alla luce delle precedenti considerazioni che Eliade giunse a riconoscere un ruolo privilegiato tra i tradizionalisti a Coomaraswamy, considerato una sorta di antesignano di “scienziato” della tradizione. Personalmente, riteniamo che in tutto ciò si corra il rischio di confondere il sacro con il profano e perciò, a tanto, non ci spingiamo. Pensiamo però che, a chiusa di questa recensione, sia bene riportare due versi di Michelangelo, sui quali Eliade tornò a riflettere molte volte. Essi presentano in poche parole la condizione umana nello stesso senso in cui fu mirabilmente colta da Platone con il concetto di metaxy, in-tra: “Al sole aspira e l’alte torri pianta / Per aggiunger al ciel, e non lo vede”. Conclusivamente, la qualità della tradizione in Eliade è eminentemente platonica, tanto in relazione al tema degli archetipi, come in merito a quelli della gnosi e dell’antropologia. Ma qui il discorso, per dirla con Clavino, si farebbe davvero interminabile.
Giovanni Sessa
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