18 febbraio 2012

- ARTURO REGHINI E L’ESOTERISMO

Un’ipotetica storia dei movimenti esoterici in Italia durante il XX secolo – storia ancora tutta
da scrivere e che prima o poi, pur con le inevitabili inesattezze e lacune, qualcuno in futuro
scriverà – dovrebbe assegnare alla figura di Arturo Reghini un ruolo assolutamente centrale in quanto, al di là della sua tutt’altro che trascurabile importanza intrinseca, la biografia dello scrittore e matematico fiorentino attraversa e riassume quasi tutte le più significative esperienze e gli ambienti della sua epoca riconducibili agli interessi esoterici.
La parabola esistenziale di Reghini ebbe inizio, infatti, sotto il segno della variegata reazione al positivismo ed allo scientismo imperanti negli ultimi decenni del XIX secolo: reazione che assunse i connotati dell’intuizionismo bergsoniano e del neo-idealismo in filosofia, dell’irrazionalismo in campo letterario ed artistico, e del neo-spiritualismo nel dominio religioso e mistico. Come per molti altri personaggi nel mondo occidentale, l’approccio di Reghini al neospiritualismo avvenne per il tramite della Società Teosofica e delle dottrine di Helena Petrovna Blavatsky, singolare profetessa di una rigenerazione dell’Occidente materialistico da realizzarsi mediante l’accesso alla sapienza dei grandi maestri d’Oriente, ma si estese ben presto alle più o meno coeve espressioni di un esoterismo soi-disant occidentale, che altro poi non era se non l’occultismo soprattutto francese inaugurato dal “mago” e pseudo-qabbalista Alphonse-Louis Constant, più noto con il nom de plume di Eliphas Lévi, e proseguito dal movimento neo-martinista e neo-rosacruciano fondato da Gérard Encausse (Papus), Stanislas de Guaita e Josephin Péladan. Tuttavia queste esperienze, che negli anni giovanili lo coinvolsero a fondo, tanto da indurlo a dedicarvisi pressoché a tempo pieno trascurando gli studi matematici per i quali aveva dimostrato una precoce vocazione, erano destinate ad essere da lui superate e sottoposte nella maturità ad una critica severa e talvolta spietata. Già intorno al 1907-1910, quando avvenne il suo incontro con Amedeo Armentano, Reghini s’era distaccato dalla Società Teosofica ed andava in cerca di più appaganti prospettive, come attestato dagli articoli pubblicati tra il 1906 ed il 1907 sulla rivista Leonardo diretta dai giovanissimi Papini e Prezzolini. A quel tempo, anche l’esperienza massonica, che a partire dal 1902 lo aveva condotto a transitare tra il Rito di Memphis palermitano, il Grande Oriente Italiano di Malachia De Cristoforis ed il Grande Oriente d’Italia, sembrava almeno all’apparenza esaurita e conclusa, come era avvenuto per un intellettuale di alto profilo come Giovanni Amendola, che in quegli anni gli era stato assai vicino per interessi culturali e spirituali.
Il ricordato incontro con Armentano segnò una svolta definitiva ed il punto di partenza per
un itinerario che il matematico fiorentino seguì coerentemente e senza sbandamenti fino alla morte e che, secondo le sue successive affermazioni, s’identificava con quello della Scuola Pitagorica o Schola Italica, sopravvissuta nascostamente in Italia per oltre duemila anni attraverso un’ininterrotta trasmissione iniziatica e coincidente nella sostanza, se non anche nelle forme simboliche e rituali, con l’ermetismo neo-platonico ed alessandrino e, negli ultimi secoli, con la libera muratoria. Questa sorta di profonda affinità, sostenuta costantemente da Reghini, tra pitagorismo da un lato ed ermetismo e libera muratoria dall’altro, può fornire la chiave di lettura degli scritti reghiniani, che in effetti spaziarono principalmente tra le tre tematiche ricordate. Sempre sotto il profilo dell’esoterismo, il nome di Arturo Reghini è comunque legato alla maggiore esteriorizzazione, avvenuta nella storia italiana degli ultimi tre secoli, del tema della magia che, attraverso alcune riviste – prima Atanòr (1924), poi Ignis (1925) ed infine UR (1927-1928) – e l’ampio saggio introduttivo al De Occulta Philosophia di Enrico Cornelio Agrippa, egli fece riemergere dalle oscure conventicole, ove era rimasto confinato dopo il XVI secolo e dopo il profondo discredito sotto il quale era finito sepolto già dopo la seconda metà del secolo successivo, per riportarlo alla ribalta della cultura d’avanguardia e fino ai margini di quella accademica in termini e secondo modalità espositive non liquidabili mediante semplici scrollate di spalle. La magia da lui riproposta era, infatti, la magia “colta” del Ficino e d’Agrippa, del Bruno e del Campanella, con i debiti rinvii alla letteratura neo-platonica ed ermetica, e non già quella, “volgare” ed arruffona, dell’occultismo francese ed inglese del XIX secolo. Con notevole anticipo rispetto alla “riscoperta” che dello stesso tema avrebbero fatto alcuni decenni più tardi alcuni dei migliori studiosi del Rinascimento, e sia pure per ispirazione e con intendimenti ben altri rispetto a quelli “soltanto” culturali, il Reghini vi si accostò con rigore critico e con impiego di mezzi filologici esemplari per la sua epoca e nel suo ambiente, e senz’altro sorprendenti se si pone mente al suo totale isolamento rispetto alla coeva ricerca universitaria, a quel tempo in Italia attardata nel rimescolamento di triti argomenti e nell’avvilente funzione di retroguardia rispetto ad altri Paesi, e questo quando il conseguente provincialismo ancora non era stato aggravato dalla clausura, per così dire autarchica, determinata dalla dittatura fascista. Né, d’altra parte, proprio in ragione delle ricordate caratteristiche, la magia nell’accezione reghiniana può essere confusa con quella praticata o propagandata nella stessa epoca da altri personaggi, assai diversi tra loro ma più ancora dal Reghini, come Aleister Crowley o Julius Evola, benché siano documentati sporadici contatti con il primo e sia ben nota la collaborazione protrattasi per alcuni anni – tra il 1924 ed il 1928 – con il secondo, soprattutto nella direzione della rivista UR.
Indipendentemente dalla cornice culturale entro la quale si colloca, e per andare più a fondo nella questione della magia, si può concordare con lo Zolla quando afferma che il messaggio reghiniano più autentico consiste nel «tentativo severo e secco, talvolta toscaneggiante con disinvoltura violenta, di delineare l’esperienza centrale, l’estasi filosofica». Il riferimento è alla descrizione del transumanare o del pitagorico abbandono del corpo o della morte iniziatica, che una prima volta il Reghini esemplificò mediatamente attraverso l’integrale citazione di un singolare scritto, La prattica dell’estasi filosofica, attribuito al Campanella e poi, direttamente sebbene in terza persona, in un articolo su Ignis: « se, spenta ogni viltà, se lasciata ogni speranza, rinunciando con assoluta e profonda sincerità a tutto quello che ne fa un individuo umano, ei si riduce, indifferente ma non insensibile, a vivere perinde ac cadaver come un morto ambulante, e di nuovo si affaccia sereno ed impassibilmente all’orlo del pozzo metafisico, sente ancora la misteriosa e paurosa attrazione dell’antro immane, ma non ne subisce più la vertigine. E, sicuro, equilibrato e sereno, procede oltre, senza sottrarsi, senza smarrirsi; e s’interna, gradatamente e tranquillamente profondando. Si lascia afferrare dall’attrazione affascinante e solenne e trascinare invincibilmente giù per le liscie pareti del formidabile santuario, fino alla cripta del Tempio. Ei prova allora la sensazione indicibilmente intima di insinuarsi attraverso una sottile commettitura, che dà sul di dentro; e, sospinto, compresso, svesciato, ne sguscia via internandosi; oltrepassatene le pareti, si tuffa nel santuario, e si inabissa nei penetrali dell’intima sua non impenetrabile natura. Come un morto, penetra nell’invisibile, nell’Ade, e diviene immateriale, a-eides. Talora la misteriosa
attrazione opera in modo così veemente che ci si sente come sradicare, come divellere dai cardini; talora è così rapida che è come un salto, un rapimento; altre volte infine è come un tranquillo salir di marea, è un subentrare alto e fatale, una graduale, purissima, nitida effusione di una chiara alba spirituale, un lento e silente affiorare di una ieratica insostenibile beatitudine». Di codesta esperienza Reghini tornò a parlare alcuni anni dopo in UR e stavolta in termini autobiografici, sia pure sotto il velo del semianominato, come della “coscienza della immaterialità”: «Circa quattordici anni fa stavo un giorno, fermo ed in piedi, sul marciapiede del palazzo Strozzi a Firenze, discorrendo con un amico; non ricordo di che ci intrattenessimo . Era una giornata affatto simile alle altre, ed io mi trovavo in perfetta salute di corpo e di spirito, non stanco, non eccitato, non ebbro, libero da preoccupazioni ed assilli. E, ad un tratto, mentre parlavo od ascoltavo, ecco, sentii diversamente: la vita, il mondo, le cose tutte; mi accorsi subitamente della mia incorporeità e della radicale, evidente, immaterialità dell’universo; mi accorsi che il mio corpo era in me, che le cose tutte erano interiormente, in me; che tutto faceva capo a me, ossia al centro profondo, abissale ed oscuro del mio essere. Fu un’improvvisa trasfigurazione; il senso della realtà immateriale, destandosi nel campo della coscienza, ed ingranandosi col consueto senso della realtà quotidiana, massiccia, mi fece vedere il tutto sotto una nuova e diversa luce; fu come quando, per un improvviso squarcio in un fitto velario di nubi, passa un raggio di sole, ed il piano od il mare sottostanti trasfigurano subitamente in una lieve e fugace chiarità luminosa. Sentivo di essere un punto indicibilmente astratto, adimensionale; sentivo che in esso stava interiormente il tutto, in una maniera che non aveva nulla di spaziale. Fu il rovesciamento completo della ordinaria sensazione umana; non solo l’io non aveva più l’impressione di essere contenuto, comunque localizzato, nel corpo; non solo aveva acquistato la percezione della incorporeità del proprio corpo, ma
sentiva il proprio corpo entro di sé, sentiva tutto sub specie interioritatis. Fu un’impressione possente, travolgente, soverchiante, positiva, originale. Si affacciò spontanea, senza transizione, senza preavvisi, come un ladro di notte, sgusciando entro ed ingrandendosi col consueto grossolano modo di sentire la realtà; affiorò rapidissima affermandosi e ristando nettamente, tanto da consentirmi di viverla intensamente e di renderne conto sicuro; eppoi svanì, lasciandomi trasecolato». È certamente lecito mettere in discussione la natura di esperienze consimili e prospettare la loro ascrivibilità al vasto capitolo dei fenomeni dispercettivi oppure di depersonalizzazione, spesso parafisiologici e quindi di per sé non necessariamente morbosi, ma talvolta registrabili tra la sintomatologia rivelatrice di disturbi neurologici, per esempio comiziali, o psicopatologici su base delirante. Le riserve di natura razionalistica, in materia di esperienze che in qualche modo travalicano e stravolgono la “ordinaria” o “normale” funzione dei sensi, della percezione dell’immagine corporea e dello stato di coscienza, trovano il più delle volte una loro ampia e dimostrata giustificazione di natura clinica (fisio-patologica) e riposano su un sapere reale, scientifico o meramente empirico che lo si voglia considerare. Tuttavia, a meno di non scadere nel pirronismo od in una scepsi del tutto aprioristica, e quindi in un atteggiamento preconcetto ed antiscientifico, le riserve in questione non possono trasformarsi nella pura e semplice negazione della possibilità di evasioni, soprattutto se coscientemente perseguite e metodicamente (idest secondo precise modalità operative) eseguite, dal piano della “realtà” psichica quotidiana od ordinaria. “Uscite dal mondo” di questa natura appartengono ad ogni sorta di tradizione religiosa, mistica od iniziatica. Altro discorso, evidentemente più “tecnico” ed impegnativo, è se poi tutte queste siano conglobabili in un unico genus, ovvero quali siano i tratti distintivi dell’excessus mentis rispettivamente religioso (nel senso di “essoterico”), mistico (nel senso di “passivo” o “devozionale”) od iniziatico (nel senso di “esoterico”). Nel Commento alle massime di Amedeo Armentano pubblicato nelle riviste Atanòr ed Ignis, Reghini fornì inoltre qualche ulteriore elemento chiarificatore sulle tecniche impiegate e sugli obiettivi perseguiti dall’operatività esoterica peculiare della Schola Italica o Pitagorica facente capo a lui stesso e ad Armentano: «Preliminarmente bisogna soddisfare ad alcune condizioni necessarie (ma non sufficienti), e precisamente anzitutto indispensabile liberarsi da ogni credenza, pregiudizio, sentimento, passione, e dalla paura del nulla, ossia dalla paura dell’annichilimento; inoltre [è] necessario dominare il proprio pensiero. Questa purificazione preliminare, che non ha nulla di moralistico e che è raffigurata ed accompagnata dai riti catartici nelle cerimonie iniziatiche è tecnicamente indispensabile, ed una volta compiuta ne è resa possibile la contemplazione che dà la conoscenza. Per contemplare è necessario essere libero nei sensi. I sensi di cui si tratta sono tutti i sensi, tutti i legami che uniscono la nostra vita animale alla vita. Sono i cinque sensi ordinarii dell’uomo, cui corrispondono organi anatomici a tutti noti, e sono gli altri sensi meno comuni e meno definiti, più difficilmente riferibili e localizzabili ad organi anatomici determinati; e sono anche i sensi della sensualità, da cui provengono i piaceri, ed i dolori, dei sensi. È evidente che per poter contemplare è necessario non farsi dominare dai sensi, perché chi ne è schiavo od anche è semplicemente incapace di astrarre da essi, non può assorbirsi nella contemplazione. Questa libertà va conquistata rimanendo nei sensi, e non fuggendone; accettandoli e non combattendoli; adoperandoli e non rinnegandoli». Il tema, a suo modo focale e continuamente richiamato nell’opera reghiniana, del pitagorismo, richiede a sua volta qualche precisazione. Nell’accezione di Reghini “Pitagora” è, piuttosto che un riferimento preciso, l’evocazione di una tradizione complessiva, misteriosofica (prevalentemente orfico-pitagorica ma anche ermetica) sotto il profilo iniziatico e neoplatonica sotto quello filosofico e metafisico. Inoltre, nella prospettiva continuistica della philosophia perennis o dell’aurea catena iniziatica, in cui implicitamente Reghini aveva collocato la sua ricostruzione del pitagorismo e nella quale i criteri storiografici cedevano di necessità il passo alla logica interna di una “storia sacra” o di uno hieròs lógos, l’obbligo di enucleare sub specie storica, letteraria e filosofica un corpus “autentico” dell’insegnamento di Pitagora, ben distinto dalle aggiunte apocrife stratificatesi per molti secoli, era meno pressante e meno avvertito, e questo tanto più in quanto Reghini preferì esercitare il suo approfondimento sul versante alternativo di una ricostruzione matematica e geometrica, per propria natura almeno in parte sottratta all’esigenza di una puntuale revisione di carattere contenutistico e filologico. Il rilievo mosso non vuol significare che Reghini fosse ignaro delle riserve avanzate dalla critica moderna sui superstiti materiali letterari relativi alla figura di Pitagora ed alle dottrine attribuitegli. Al contrario, codeste riserve furono da lui esaminate e discusse, ma con il limite di una certa riluttanza ad espungere dal corpus pitagorico complessivo questa o quella testimonianza, recuperata o difesa al bisogno mediante brillanti exploits filologici od ermeneutici. Non ci si può nascondere che, al pari degli pseudo-pitagorismi fioriti numerosi nel XIX secolo, anche il pitagorismo reghiniano, se ed in quanto indefinito ed indistinto dal mito della schola e della prisca sapientia italica, trasposto in chiave politica in guisa di retroterra ideologico dell’“imperialismo pagano”, costituì un formidabile anacronismo nell’epoca dei totalitarismi, finendo per avallare, quand’anche in forma ancillare, un progetto politico sostanzialmente di segno opposto a quello caldeggiato dal Reghini, quale fu il fascismo reale della ventennale dittatura: destino, di essere usato in funzione di disegni politici contingenti, cui il medesimo mito era andato incontro al termine della sua ultima grande valorizzazione nel corso del Rinascimento e fino agli strascichi vichiani. Strumentale alle glorie dinastiche del granducato di Toscana nella versione pelasgico-tirrenica (Scipione Maffei, Girolamo Tiraboschi), alla cripto-propaganda babuvista nella versione rivoluzionaria di Sylvain Maréchal, all’esaltazione dello status quo moderato-autoritario del regime bonapartista nella fictio letteraria di Vincenzo Cuoco, all’utopia del “primato degli italiani” nella versione neo-guelfa del Gioberti, il mito a quel punto abusatissimo della Schola italica fu definitivamente riposto tra gli arcaismi inservibili, almeno per quanto riguarda la storia delle idee e della cultura “ufficiale”, per effetto della discutibile operazione di reinserimento del pensiero italiano in quello europeo tentata da Bertrando Spaventa e dai neo-hegeliani dopo il 1860, ma sempre fruibile negli orticelli occultistici e/o sub-culturali. La dichiarata adesione al pitagorismo, ossia ad una complessa tradizione profondamente radicata nell’Occidente, segna peraltro un profondo motivo di discordanza rispetto a René Guénon, nei cui confronti nondimeno Reghini si profilò negli anni ’20 come l’unico interlocutore tra gli alti dignitari della massoneria a livello mondiale e, sotto certi aspetti, sembrò manifestare una profonda affinità. Il principale elemento di alterità tra Guénon e Reghini va colto nel diverso peso accordato alla visione metafisica quale cardine dell’orientamento tradizionale ed iniziatico: mentre per Guénon, infatti, la dottrina metafisica rappresentava il fondamento indispensabile, anche se non sufficiente, per un’effettiva realizzazione spirituale, Reghini riteneva che «può sembrare non necessario costituire e ricorrere a una dottrina metafisica con tanto di terminologia tecnica e tradizionale, e sufficiente costituire invece un centro spirituale dove chi effettivamente sappia dia o possa dare a chi è in grado di riceverlo quel tanto di aiuto che la natura stessa del compito da attuare consente», pur concedendo che «anche se non si voglia riconoscere assolutamente necessaria la ricostituzione di una dottrina metafisica, un ritorno alla tradizione, non vi è in questo, evidentemente, nulla di superfluo, di inutile o di dannoso». Modo garbato, questo, di prender le distanze e di manifestare un diverso indirizzo, tanto più in quanto la dottrina metafisica esposta da Guénon non si esprimeva propriamente nelle forme “occidentali” della tradizione greco-romana coltivata e prediletta da Reghini. Su un piano meno elevato di quello ora considerato ma forse di più immediata percezione, una marcata divaricazione tra lo studioso francese e l’italiano si può cogliere sul tema della magia. Per Guénon, la magia è soltanto una scienza sperimentale, «quantunque sicuramente abbastanza differente da quelle che l’insegnamento universitario conosce sotto tale denominazione. Si tratta di un ordine di cose che in se stesso non ha nulla, assolutamente nulla, di “trascendente”; e se una tale scienza [la magia] può, come ogni altra, essere legittimata dal suo collegamento ai principii superiori, da cui tutto dipende, secondo la concezione generale delle scienze tradizionali, essa non si porrà allora che all’ultimo rango delle applicazioni secondarie e contingenti, fra quelle che sono più lontane dai principii, dunque che devono esser viste come a tutte inferiori. Ora, è evidente che illudersi sul valore di queste cose e sull’importanza che conviene attribuire ad esse ne aumenta considerevolmente il pericolo; è così una vera disgrazia per gli Occidentali, che vogliono ingerirsi a “fare della magia”, la completa ignoranza in cui si trovano per necessità, attualmente e in mancanza di ogni insegnamento tradizionale, di fronte a ciò che con cui hanno da fare in simile caso. Per finirla con la magia e con le altre cose dello stesso ordine, dobbiamo ora trattare un’altra questione, quella dei pretesi “poteri” psichici. Ciò che chiamiamo in tal modo non è in fondo che la facoltà di produrre “fenomeni” più o meno straordinari, ed infatti la maggioranza delle scuole pseudo-esoteriche o pseudo-iniziatiche dell’Occidente moderno non si propone altro; si tratta di una vera ossessione per la gran maggioranza dei loro aderenti, che s’illudono a tal punto sul valore da attribuirsi a questi “poteri” da prenderli come il segno di uno sviluppo spirituale ed altresì del suo scopo, mentre, anche quando non sono un semplice miraggio dell’immaginazione, appartengono unicamente al dominio psichico, che in realtà non ha niente da vedere con lo spirituale, e spesso non sono che un ostacolo all’acquisizione di ogni vera spiritualità». Al contrario, nella visione reghiniana la collocazione della magia era intermedia tra la sfera psichica e quella spirituale, in mancanza di una vera e propria distinzione tra i due àmbiti. In effetti, nelle sue categorie di pensiero, il dominio proprio del para-normale e dei fenomeni extra-sensoriali assumeva un valore particolare ed era sovrapponibile, almeno in parte, alla sfera spirituale. In Reghini, senza dubbio, fortissima fu l’attrazione per la “magia” in tutte le sue forme ed estrinsecazioni e, retrospettivamente, codesta attrazione appare come un indubbio punto debole in un individuo di non comune levatura, come per tanti riguardi egli era. Ma è anche vero che il matematico e filosofo neo-pitagorico fu non primo e non ultimo della lunga catena di vittime, particolarmente numerose negli ambienti dediti all’esoterismo, del fascino per il “soprannaturale”, per il “miracoloso” e per l’“occulto”, che lo condusse all’esperienza, nel complesso per lui negativa e pessimamente esitata, del “Gruppo di UR”, nel cui seno la tendenza “magica” si estremizzò e divenne quasi esclusiva. Ma si deve almeno far cenno, sia pure brevemente, all’impegno del Reghini per una rigenerazione in senso iniziatico ed esoterico della massoneria, nella quale – come si è detto – egli vedeva la continuazione, sia pure deviata e distorta, della tradizione pitagorico-ermetica. Il primo e più corposo tentativo in questo senso lo compì nel 1922 attraverso la pubblicazione del saggio su Le parole sacre e di passo ed il massimo mistero massonico che – bisogna ben dirlo - non suscitò alcun evidente stimolo al recupero del patrimonio simbolico-rituale originario della massoneria operativa, i cui residui erano sopravvissuti nei documenti “non autorizzati” e nei proto-rituali inglesi tra XVII e XVIII secolo che il Reghini aveva per primo in Italia fatto oggetto d’approfondimento e di studio e nei quali aveva indicato le sorgenti alle quali attingere per un rigeneratore ritorno alle origini. Oltre venti anni dopo, caduto il fascismo, ripresentò in versione più meditata e svincolata da polemiche contingenti la propria visione della massoneria come organizzazione iniziatica e dell’iniziazione come via d’accesso al divino. Le 155 pagine del suo ultimo saggio di contenuto massonico – I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica32 - espongono con chiarezza esemplare il suo pensiero e rappresentano, nonostante la concisione, la più “alta” trattazione in materia scritta finora in Italia. L’inizio è folgorante e va dritto in medias res: «la Massoneria ha per fine il perfezionamento dell’uomo», del singolo uomo e non già quello dell’umanità nel suo insieme. È questa la “Grande Opera”, del tutto affine a quella che si propone l’Arte Regia ermetica. Secondo invece la concezione massonica profana e meno antica, il lavoro del perfezionamento va attuato sopra la collettività umana, è la umanità ossia la società che bisogna trasformare e perfezionare; e in questo modo all’ascesi spirituale del singolo si sostituisce la politica collettiva. I lavori massonici acquistano in tal modo uno scopo ed un carattere prevalentemente sociali, se non unicamente sociali; ed il fine vero e proprio della massoneria, cioè il perfezionamento dell’individuo, viene posto in seconda linea, se non addirittura trascurato, dimenticato ed ignorato. La prima alterazione appare in Francia. Il fermento degli spiriti in cotesto periodo, il movimento dell’Enciclopedia, si ripercuotono nella Massoneria che si diffonde largamente e rapidamente: ed accade così per la prima volta che l’interesse dell’Ordine si dirige e si concentra nelle questioni politiche e sociali. Affermare che la rivoluzione francese sia stata opera della Massoneria ci sembra per lo meno esagerato; è invece innegabile che la Massoneria subì in Francia, e sarebbe stato difficile che ciò non avvenisse, l’influenza del grande movimento profano che condusse alla rivoluzione e culminò poi nell’impero. La Massoneria francese divenne e rimase anche in seguito una massoneria colorata politicamente ed interessata nelle questioni politiche e sociali, e si formò quella che da taluni è considerata come la tradizione massonica, sebbene sia tutt’al più la tradizione massonica francese, ben distinta dall’antica tradizione. Questa deviazione e questa persuasione è la causa prima, sebbene non la sola, del contrasto che è poi sorto tra la massoneria anglosassone e la massoneria francese; anche in Italia essa è stata la sorgente dei dissensi massonici di questi ultimi cinquanta anni e della conseguente disunione e debolezza di fronte agli attacchi ed alla persecuzione fascista e gesuitica. L’influenza massonica francese si affermò, dopo la rivoluzione e durante l’impero, anche in Italia. La massoneria francese e quella italiana ebbero durante tutto lo scorso secolo intimi rapporti, ed assunsero insieme talora atteggiamento rivoluzionario, repubblicano ed anche materialista e positivista seguendo la voga filosofica del tempo». Il tema, indubbiamente centrale nella sua visione massonica, fu dal Reghini ripreso ed ampliato nel coevo scritto, sollecitatogli dal Parise pressoché in limine vitæ, sul rituale dell’Apprendista libero muratore: «Importa rilevare come nessun rituale massonico abbia mai detto che la massoneria ha per scopo il progresso universale; la massoneria esisteva molto prima che in Occidente si diffondesse la credenza nel progresso universale. Tutti i rituali massonici, antichi e moderni, italiani e stranieri, affermano concordemente, a cominciare dalle Costituzioni originali e fondamentali dell’Anderson (1723), che il fine della massoneria è il perfezionamento dell’uomo, e soltanto in tempi recenti (e più progrediti!) degli sconsigliati e dei profani hanno potuto assimilare e confondere questo fine con il concetto e la credenza nel progresso universale, identificazione assurda che rende ridicolo l’asserito scopo della massoneria. Col tempo e col progresso l’antica definizione dello scopo della massoneria ha subito per incomprensione delle alterazioni, ed i rituali moderni presentano delle varianti apparentemente lievi e sostanzialmente profonde, affermando che lo scopo della massoneria è il perfezionamento degli uomini (confuso con il perfezionamento del singolo), e poichè esso è il perfezionamento dell’umanità (dimenticando quello del singolo) ed in fine che esso è il perfezionamento della collettività umana ossia della società. Sono tutte definizioni cronologicamente posteriori, che risentono delle successive idee e finalità profane, sebbene verbalmente la differenza dall’antica definizione iniziatica sia lieve e passi inavvertita. Soltanto dimenticando il carattere iniziatico della massoneria è possibile disconoscere che il fine della massoneria consiste nella perfezione del singolo, da ottenersi mediante il rito, ossia detto in linguaggio massonico, nella squadratura della pietra grezza e nella sua trasmutazione in pietra cubica della maestria seguendo le regole dell’Arte». Alcuni decenni prima che Baylot pervenisse a formulare la sua teoria della “via sostituita”, Reghini aveva già istituito, e con maggior precisione, il discrimine tra la massoneria iniziatica e tradizionale e le massonerie “moderniste” e pseudo-iniziatiche. Dopo questa premessa, e lasciate da banda una volta per tutte le concezioni profane della massoneria, l’esposizione reghiniana s’inoltrava nell’esame delle dottrine e dei simboli delle tradizioni pitagorica ed ermetica, senza alcuna concessione a fonti e ad interpretazioni diverse da quelle classiche. La disamina condotta in parallelo tra pitagorismo e massoneria evidenziava in modo limpido «il carattere pitagorico, puro ed arcaico di tre simboli fondamentali della massoneria: il Delta luminoso, la stella fiammeggiante e la Tavola tripartita». A sua volta, «il significato simbolico dei numeri sacri “noti ai soli liberi muratori” coincide con la filosofia pitagorica». Infine, altri elementi di carattere pitagorico potevano essere indicati nel mistero, nel silenzio e nella disciplina imposti al novizio, nel legame fraterno simboleggiato dal nastro ondulato. Tutto ciò induceva alla conclusione che «la massoneria con la sua iniziazione cerimoniale si presenta come una continuazione nei tempi moderni dei misteri classici, affidata ad una corporazione di mestiere specializzata nell’architettura sacra». Benché numerose questioni rimanessero (e tuttora siano) aperte - l’origine del simbolismo e dei rituali, i passaggi dell’eventuale trasmissione dai misteri antichi, l’epoca di acquisizione della leggenda di Hiram e delle tematiche legate al Tempio di Salomone, l’eventuale connessione degli aspetti giovannei con i movimenti ereticali del Medioevo - «il simbolismo numerico e geometrico della massoneria è quello pitagorico e siccome è esente da ogni colorazione cristiana può darsi che la fusione del simbolismo di mestiere e del simbolismo pitagorico risalga ad un periodo qualunque post-pitagorico, e certamente non si tratta di innovazione recente ma di caratteristica assai antica». Lo scopo dell’iniziazione era indicato nella palingenesi o trasformazione in senso spirituale dell’uomo, comune al percorso muratorio come a quello ermetico-alchemico ed a quello pitagorico: «Anche il pitagoreismo ha per scopo essenziale questa grande opera di edificazione spirituale che designa col termine di palingenesi. Anche nel pitagoreismo si incontra la difficoltà del mistero e del segreto, aggravata dalla scarsezza degli scritti e documenti pitagorici pervenuti sino a noi. La dottrina pitagorica della palingenesi afferma dunque che l’uomo vivente di vita corporea ha la possibilità di nascere alla vita spirituale prima della morte del corpo, afferma la possibilità di una seconda nascita ad una vita nuova senza attendere che sia terminata la vita umana ». L’approccio di Reghini alla massoneria come organizzazione iniziatica tradizionale da rivitalizzare e da ricondurre alla sua vera natura attraverso il collegamento con una sapienza esoterica veicolata da espressioni élitarie della cultura occidentale risultava fin troppo ostico sia per i gruppi dirigenti massonici maturati nei primi due decenni del XX secolo, imbevuti di positivismo attinto per lo più di seconda e di terza mano, ed avvezzi, sulla scia dei loro predecessori in epoca risorgimentale e post-risorgimentale (mi riferisco alle grandi maestranze succedutesi dal 1860 e fino all’epoca di Lemmi e di Nathan), a considerare l’Ordine muratorio come un succedaneo di formazione partitica o interpartitica con aspirazioni egemonicopedagogiche nei confronti della società civile, sia per i gruppuscoli marginali fideisticamente incapsulati nelle trivialità della sub-cultura occultistica. Il rigoroso discorso riformatore – nel senso molto peculiare di una restaurazione o di un ritorno alle origini – di Reghini non poteva, quindi, trovar ricezione né presso i mediocri politicanti alla guida delle organizzazioni massoniche ormai avviate senza possibilità di ritorno su quella che Jean Baylot una trentina d’anni fa felicemente chiamò, come si è ricordato, “via sostituita” né tra i patetici sectatores dello pseudo-esoterismo occultistico allignanti al loro interno, ossia tra i due estremi tipologici entro i quali si modellava e si differenziava, pur con molteplici varianti, la configurazione del “massone medio impegnato”: figura in ogni caso superiore a quella, probabilmente più frequente e suscettibile d’ibridazione con la prima, del massone a vocazione soltanto affaristico-clientelare, solidaristico-assistenziale, dopolavoristica, conviviale ovvero “carrieristica”, e cioè avida di titoli altisonanti, di sciarpe colorate, di collari e di grembiuli carichi di orpelli da far valere in un vanitoso ed insulso cursus honorum, il più delle volte compensatorio rispetto ad una squallida od insignificante collocazione nella vita “profana” ed in ogni caso fine a se stesso. La cruda e radicale critica reghiniana a concezioni ed a pratiche siffatte svuotava praticamente d’ogni significato e d’ogni positiva valenza la massoneria così com’era o come appariva (per esempio, agli occhi di un Croce o di un Salvemini) e, più ancora, delegittimava in radice ed in modo assolutamente esplicito gerarchie associative fondate su valori diversi da quelli spirituali, assumendo così rispetto ad esse una funzione sostanzialmente eversiva. La critica di Reghini si estendeva anche ai sistemi rituali ad “alti gradi”, dei quali faceva rilevare l’origine recente ed il carattere superfetatorio: «Come è noto, negli ultimi due secoli sono sorti in Massoneria gli alti gradi ed i differenti riti che li praticano. Storicamente la massoneria esisteva prima che sorgessero i riti professanti gli alti gradi . Tutti i riti ad alti gradi, in Italia e fuori, spenti od ancora oggi viventi, poggiano sopra la base comune dei primi tre gradi di apprendista, compagno e maestro. La massoneria si riassume nei primi tre gradi, e dal punto di vista tradizionale del simbolismo iniziatico i rituali dei primi tre gradi presentano un interesse senza confronto superiore a quello presentato dai rituali di tutti gli alti gradi dei varii riti; il che non significa che questi siano sempre privi di ogni valore. Comunque per comprendere la Massoneria, ritualmente e tradizionalmente parlando, è superflua la considerazione dei rituali degli alti gradi e basta quella dei primi tre gradi massonici odierni». Questa dichiarazione di semi-inutilità in senso iniziatico e tradizionale dei sistemi rituali ad alti gradi era tanto più significativa in quanto proveniente da un uomo che ne era tra i più profondi conoscitori e che era pervenuto ai vertici sia del Rito di Memphis e Misraim sia del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Rimane da verificare – ma è quesito cui il tempo s’incaricherà di dare risposta – se l’impegno reghiniano nei confronti della massoneria non fosse originato da un equivoco di fondo: se, cioè, a causa di un formidabile equivoco egli non avesse per avventura confuso le logge massoniche con l’accademia ficiniana o con analoghi cenacoli di raffinati intellettuali. Non desta alcuna meraviglia, pertanto, che scarsissima fortuna incontrò la riproposizione della critica reghiniana una volta caduto il fascismo e ricostituitasi la massoneria, i cui dirigenti scelsero di ricalcare gli sperimentati percorsi su quella che agli occhi del Reghini poteva apparire soltanto come una “via sostituita”. Né può sorprendere, per conseguenza, che personaggi formatisi in prossimità di Reghini e sopravvissutigli per non pochi anni, quali Galliano Tavolacci e Giulio Parise, ben scarsamente poterono operare per assicurare continuità e sviluppo alle premesse da lui tracciate, nonostante che il Tavolacci in particolare fosse pervenuto a ricoprire la massima carica del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Entrambi, e con loro pochi personaggi meno noti, dovettero limitarsi a trasmettere all’interno di cerchie molto ristrette ed attraverso rapporti personalizzati – per dirla in termini cari a Reghini: «da fiamma a fiamma» - la visione di cui erano portatori, senza reale possibilità di incidere in modo significativo sulla massoneria come organizzazione relativamente di massa e sulla sua ormai acquisita fisionomia ideologica e pratica: fisionomia, dopo il 1945 comunque costretta a confrontarsi con un mondo e con una società profondamente mutati rispetto all’epoca prefascista. E sulla figura di Reghini, controcorrente allora come lo era stato un ventennio prima, calò la rimozione del silenzio, interrotto da episodiche rievocazioni parziali o strumentali, paradossalmente più spesso ad opera e nell’ambito dei gruppuscoli occultistici, massonici ed extra-massonici, che nei suoi scritti aveva con tanta allegra ferocia strapazzato e messo alla berlina. La massoneria italiana “ufficiale”, dal canto suo, per i motivi fin qui considerati non dimostrò alcun interesse a riportare in luce un personaggio così scomodo, benché si trattasse, in definitiva, del più lucido ed agguerrito “intellettuale organico” che avesse avuto a disposizione, tra la folla di semplici “compagni di strada” – da Carducci a Bovio, da Pascoli a Quasimodo, da Antonio Labriola a Pettazzoni, per citare soltanto alcuni tra i nomi più significativi nel campo della cultura “profana” – che, per brevi o per lunghi periodi, pure ne avevano infoltito e nobilitato i ranghi ovvero, più di rado, avevano combattuto in suo nome questa o quella battaglia. Un tentativo di indirizzare il Grande Oriente d’Italia diversamente, e secondo vedute almeno in parte affini a quelle di Reghini, fu attuato tra la fine degli anni ’50 ed i primi anni ’60, tra la brevissima gran maestranza di Giorgio Tron ed il primo triennio sotto la guida di Giordano Gamberini. Non per caso ne furono protagonisti, tra gli altri, alcuni discepoli di Galliano Tavolacci e di Giulio Parise. La morte prematura di Tron e la particolare deriva seguita da Gamberini nei due successivi trienni alla guida del Grande Oriente d’Italia vanificarono il suddetto tentativo, portando per contro alle note vicende della gestione di Lino Salvini ed a quelle successive e più recenti. Si trattò di un’azione di vertice, promossa dal concorso di alcuni ristrettissimi gruppi iniziatici, cui accennò brevemente alcuni anni fa, per la parte a lui nota, Augusto Comba in un suo saggio e della quale con tutta probabilità quella odierna è la prima esplicita menzione in una sede pubblica. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia…
NATALE MARIO DI LUCA



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