26 ottobre 2010

- Un filosofo femmina


Scrisse ben 13 volumi di commento all’aritmetica di Diofanto, 8 volumi sulle Coniche di Apollonio con relativa spiegazione delle orbite dei pianeti, un trattato su Euclide e su Tolomeo, un Corpus Astronomico che raccoglieva tavole sui corpi celesti, alcuni testi di meccanica e tecnologia, realizzò importanti strumenti scientifici come l’astrolabio piatto, il planisfero, uno strumento per misurare il livello dell’acqua detto idroscopio, un apparato per distillarla e un idrometro di ottone per determinare la densità di un liquido... ma di tutta la sua immensa opera scientifica non rimane nulla. Parliamo di Ipazia di Alessandria, matematica, astronoma e filosofa vissuta tra il IV e V secolo (circa 370-415) in un Egitto ancora imbevuto di cultura ellenistica. Figlia di Teone, scienziato e filosofo che aveva deciso di fare di lei “un perfetto essere umano”, studiò a Roma e ad Atene dove fecero impressione al tempo stesso la sua cultura e la sua bellezza. Probabilmente successe al padre come direttore della scuola di filosofia, ruolo che ad Alessandria era di massimo rilievo anche pubblico. Ebbe seguaci, ammiratori, allievi; ma insegnava anche per strada, gratuitamente, a chiunque si mostrasse interessato, illustrando a chi glielo chiedeva le idee del pensatore prescelto. Sua caratteristica fu dunque la liberalità con cui tramandava in pubblico il suo sapere, in quanto, pur praticando anche un insegnamento esoterico, non teneva la conoscenza per sé, ma generosamente la dispensava anche agli altri. La sua popolarità fu perciò grandissima ad Alessandria, una delle città culturalmente più forti di un impero romano ormai agli sgoccioli, nell’alveo dell’ultimo paganesimo. Dal punto di vista filosofico Ipazia, seguendo suo padre Teone che teorizzava l’utilizzo delle scienze matematiche a fini metafisici, aveva abbracciato il neoplatonismo e tendeva a una conciliazione delle dottrine platoniche e aristoteliche. Socrate Scolastico parla di lei come la terza caposcuola del platonismo dopo Platone e Plotino. Di lei dice un epigrammista contemporaneo: “Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine. Infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto, Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura”. Verso il cielo è rivolto ogni tuo atto, afferma il poeta, sottolineando al tempo stesso l’ampiezza della conoscenza astronomica e la tensione spirituale della filosofia neoplatonica che faceva delle scienze matematiche e celesti una base per l’elevazione spirituale. Ma Ipazia era apprezzata anche in ambiente cristiano, o meglio da quei cristiani che riconoscevano - e rispettavano - l’aspirazione metafisica degli avversari. Il suo allievo Sinesio, poi convertitosi al cristianesimo e diventato vescovo di Cirene così le scrisse, in preda alla malattia: “Detto questa lettera dal letto nel quale giaccio. Possa tu riceverla stando in buona salute, o madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant’altri mai onorato. E se c’è qualcuno, venuto dopo (di me come tuo allievo) che ti sia caro, io debbo essergli grato poiché ti è caro, e ti prego di salutare anche lui da parte mia come amico carissimo. Se tu provi qualche interesse per le mie cose, bene; in caso contrario, non importano neanche a me”. Eppure questa donna bellissima e intelligente, generosa e mistica, vera ‘vergine pagana’ che si proclamava ‘sposa della verità’, fu vittima di uno dei più infami e celebri linciaggi pubblici, vero e bestiale sacrificio umano compiuto da un branco di straccioni. A raccontarlo sono ancora le fonti storiche di poco posteriori. Alcuni cristiani fanatici attesero Ipazia al suo ritorno a casa, la aggredirono, la trascinarono in una chiesa dove, dopo averla denudata, la uccisero trafiggendola con dei cocci affilati, dopodiché bruciarono i brandelli del suo cadavere in un letamaio. L’intolleranza religiosa verso una pagana d’élite si spinse a un atto estremo che non fu legalmente perseguito. Sia Socrate Scolastico che Damascio, narratori dei fatti pochi decenni dopo, accusano pesantemente dell’episodio il patriarca Cirillo. Damascio anzi afferma: “Una volta accadde che Cirillo passando davanti alla casa di Ipazia, vedesse che vi era una gran ressa di fronte alle porte, confusione di
uomini e di cavalli, gente che si avvicinava, che si allontanava, che ancora si accalcava. Avendo chiesto cosa fosse quella moltitudine e di chi la casa presso la quale c’era quella confusione, si sentì rispondere da quelli del suo seguito che in quel momento veniva salutata la filosofa Ipazia e che era la sua casa. Saputo ciò, egli si rose a tal punto nell’anima che tramò la sua uccisione in modo che avvenisse al più presto, uccisione tra tutte la più empia”. La causa dell’orrendo episodio sarebbe stata dunque, secondo il narratore, l’invidia (phthonos) da parte di un capo spirituale nei confronti di un avversario dotato di maggiore autorità essendo al tempo stesso amato dal popolo e rispettato dai governanti. Al di là delle spiegazioni semplicistiche bisogna tuttavia osservare che l’ambiente alessandrino era in quegli anni estremamente teso. La città dei 144.000 martiri (secondo fonti cristiane) aveva applicato alla lettera il decreto teodosiano del 392 che vietava i culti pagani. L’anno prima il patriarca Teofilo aveva aizzato i cristiani affinché distruggessero il Serapeo, episodio che portò all’incendio della vicina biblioteca, monumento di secoli di cultura. Tra i cristiani divampava inoltre un’acerrima lotta tra ortodossi e monofisiti i quali ammettevano in Cristo la sola natura divina. Lo stesso Cirillo aveva abbracciato e teorizzato il monofisismo che pochi anni dopo la sua morte verrà condannato nel 451 dal concilio di Calcedonia. I disordini erano quindi all’ordine del giorno e l’intolleranza aggressiva l’atteggiamento più diffuso. Torme di monaci vagabondi, laceri e ignoranti, provenienti dal deserto si erano inoltre riversati in città compiendo atti di vandalismo soprattutto ai danni della classe colta e ricca. In questo clima politico, tra le rovine della biblioteca e dei templi, Ipazia continuava imperterrita a elargire il suo pubblico insegnamento per strada, attirandosi al tempo stesso stima e odio, rispetto e disprezzo. Tra le fonti, ecco la versione di un denigratore, Giovanni Nikiou, che afferma: “In quei giorni apparve in Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Ipazia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica e che ingannò molte persone con stratagemmi satanici”. Ma perché morì Ipazia e, soprattutto, perché in quel modo atroce? Al di là delle interpretazioni vagamente nietschiane (l’invidia) e di quelle neopagane (i cristiani intolleranti) o post-femministe (persecuzione di maschi oscurantisti e bigotti), persiste oltre il tempo il fascino dell’adamantina coerenza di Ipazia, fedele alla sua raffinata cultura, alla sua religione metafisica, alla scienza non fine a se stessa ma base per la vera conoscenza, all’eredità del padre-maestro; insomma, in una parola, alla tradizione. In un clima di intolleranza belluina, Ipazia - aggravando il tutto con l’essere anche donna, bella, casta, sapiente e pagana - rappresentò soprattutto quello che era comunque il nemico supremo di quei tempi (solo di quelli?): la ragione. Il cervello, la memoria, la luna... non potevano essere perdonati.
La memoria del mondo
Nel III sec. a.C. Tolomeo I Sotèr realizzò la Biblioteca di Alessandria, istituzione culturale la cui fama fu seconda solo all’Accademia di Platone o al Liceo di Aristotele. Furono costruite imponenti strutture - la Biblioteca, il Museo, un osservatorio astronomico, uno zoo, un orto botanico - per ospitare i più illustri pensatori del Mediterraneo, mettendo a loro disposizione oltre mille scribi viaggiatori che giravano il mondo allora conosciuto allo scopo di raccogliere le opere e trascriverle su rotoli di papiro. A questo scopo Tolomeo concepì una lettera ‘a tutti i sovrani e governanti della terra nella quale chiedeva che ‘non esitassero a inviargli le opere di poeti e prosatori, retori e sofisti, medici e indovini, storici, e tutti gli altri ancora’. ‘Da ciascun popolo informa un trattatista bizantino furono reclutati dotti, i quali, oltre che padroneggiare la propria lingua, conoscessero a meraviglia il greco: a ciascun gruppo furono affidati i relativi testi, e così di tutto fu allestita una traduzione in greco”. La traduzione dei testi iranici attribuiti a Zoroastro - oltre a due milioni di versi – fu ricordata ancora secoli dopo come un'impresa memorabile. Il disegno perseguito dai Tolomei e messo in pratica dai loro bibliotecari non era dunque soltanto la raccolta dei libri di tutto il mondo ma anche la traduzione in greco. La Biblioteca poteva così vantare oltre settecentomila volumi, tutti catalogati. Tra le opere più famose quelle di Aristotele, Platone, Sofocle, Eschilo, Teocrito, Ipazia, Clemente e Origene. La fine della Biblioteca è tuttora avvolta nel mistero. Un primo incendio avvenne all’epoca di Cesare nel 47 a.C, nel corso di tumulti popolari. Ma la prestigiosa istituzione si riprese. Danni ulteriori furono inferti da Zenobia di Palmyra nel corso delle sue campagne militari (270) e da Diocleziano nel 295. La seconda, e ben più devastante, distruzione si svolse nel 391 su ordine del patriarca cristiano Teofilo che capeggiò una folla di fanatici contro quello che era ritenuto il fulcro del sapere pagano. Ridotta ai minimi termini la Biblioteca sopravvisse stentatamente, fino alla completa e totale distruzione nel 646 da parte del generale omayyade Amr Ibn el-as. Nell’apprendere dell’avvenuto scempio pare che il califfo Omar I, principe dei credenti, abbia commentato: ‘Se i libri non riportano quanto scritto nel Corano allora vanno distrutti poiché non dicono il vero. Se i libri riportano quanto scritto nel Corano vanno distrutti ugualmente perché sono inutili’.

Michela Torcellan

1 commento:

Anonimo ha detto...

èun articolo bellissimo.