Un'immagine può sempre essere considerata da un'infinità di punti di vista e ad ogni pensatore è consentito scoprire un significato conforme alla logica delle proprie concezioni.Le immagini infatti sono destinate a risvegliare le idee assopite nel nostro intelletto.Esercitando una suggestione sul pensiero, lo stimolano ed in tal modo portano alla luce le verità sepolte nella profondità del nostro spirito. Oswald Wirth
8 settembre 2015
10 agosto 2015
P. GALIANO: LE CHIESE
DEL FIORE, ED. ADYTUM – pp. 140,
70 ill., € 18
Le chiese a sei absidi,
costruite tra IV e XII secolo in tutta l’Europa, nascondono nel disegno del
loro piano costruttivo un simbolo particolare, il Fiore a sei petali, il
cosiddetto “Fiore della vita”, simbolo tipico dell’architettura medievale (e
non specifico dei Cavalieri Templari, come spesso si afferma). Questo lavoro ha
preso avvio dal ritrovamento in Italia dell’unica chiesa di tale forma
conosciuta fino ad oggi e riportata alla luce tra il 2008 e il 2013 dopo sette
secoli di oblio a Montieri (GR): la Canonica di San Niccolò, di cui proponiamo
uno studio comparativo con le chiese di pianta analoga presenti in Europa, da
Roma alla regione del Caucaso, esaminando lo sviluppo di questa insolita forma
di edificio liturgico a partire dalla fine dell’Impero romano ed
approfondendone il significato simbolico insito nella composizione geometrica.
Alla base del disegno architettonico vi è
l’esagono il cui lato coincide con il
raggio della circonferenza in cui è inscritto, simbolo del passaggio dal mondo
dei numeri non-razionali rappresentato dal π greco a quello dei numeri
razionali, espressione della totalità dell’esistente nella sua forma di numero,
secondo la concezione pitagorica per cui nel numero consiste tutta la creazione
e dal numero si genera la creazione.
Questo simbolismo, come quello degli altri elementi
costitutivi dell’edificio, in particolare le cupole dell’abside e le mezze
cupole delle semiabsidi, e le considerazioni numerologiche sulla figura della
“mandorla” presente in ciascun petalo del Fiore, fanno sì che la chiesa esapetale
sia manifestazione della compresenza del visibile e dell’invisibile, della
creazione manifestata e della causa della manifestazione; in essa si uniscono
il mondo del razionale e dell’irrazionale, o meglio del non-razionale, quindi è
ponte di unione tra i due aspetti del conoscibile; è la figura dell’eterno
rapporto tra il Creatore e la sua creazione nel trascorrere del tempo scandito
dalle stelle dello Zodiaco, espresso dal dodecagono presente nelle dodici
finestre della chiesa; è la porta di accesso agli stati superiori dell’Essere
celata nella “mandorla” nascosta nel suo disegno di base, il Fiore a sei petali
simbolo della totalità.
IL
PROGETTO DELLA CHIESA ESAPETALE: IL “FIORE A SEI PETALI”
Applichiamo
ora alcuni principii del simbolismo geometrico alla chiesa esapetale
ripercorrendo la modalità del progetto che hanno seguito i costruttori di essa
per cercare di penetrare il significato di questo particolare edificio.
Come
si può facilmente riprodurre con riga e compasso, i mezzi consigliati da
Vitruvio nel De architectura I, 2, 4
(regula et circinus) per disegnare il
progetto dell’opera architettonica, la pianta della chiesa-tipo esapetale nasce
da un’intersezione di cerchi maggiori e minori aventi come raggio il lato
dell’esagono inscritto o la metà di esso.
Si tratta di
un particolare rapporto geometrico che permette di comprendere perché la chiesa
esapetale è da considerarsi il simbolo della completezza: nel suo consistere in
un esagono iscritto in una circonferenza in cui il raggio dell’una e il lato
dell’altro sono eguali tra di loro è presente l’unione nello stesso disegno del
mondo dei numeri razionali, rappresentato dall’esagono, e di quello dei numeri
irrazionali, in quanto il raggio della circonferenza è espresso da un numero
irrazionale, il π greco, che s’identifica con la misura razionale del lato
dell’esagono. Questo rapporto è espressione della totalità dell’esistente
rappresentato nella sua forma di numero, secondo la concezione pitagorica per
cui nel numero consiste tutta la creazione e dal numero si genera la creazione.
Vediamo
FIG. 69 come si compie l’operazione:
disegnato il primo cerchio si tracciano sei cerchi fra di loro tangenti aventi
lo stesso diametro della prima circonferenza e centro sul perimetro di essa;
l’unione dei centri di questi cerchi dà i lati dell’esagono inscritto. Facendo
centro sulla metà del lato dell’esagono si vanno a disegnare altri sei cerchi
di raggio pari alla metà dei primi, che vanno a descrivere le semicupole dei
sei absidi della chiesa impostate sui lati dell’esagono; si tracciano altri sei
cerchi minori con centro sui vertici dell’esagono, sempre con raggio pari a
metà del lato dell’esagono inscritto, che vanno così ad intersecarsi con i
primi sei. Le dodici linee che partendo dal centro del cerchio di base passano
per i centri dei sei + sei cerchi minori consentono di individuare i punti in
cui costruire i lati del dodecagono che inscrive l’esagono. Come si vede, il
procedimento per disegnare il progetto della chiesa esapetale è semplice ma al
tempo stesso geniale.
Tracciare
sul terreno la pianta, azione che si faceva con un piolo ed una corda legata ad
esso, consentiva di trasferire l’idea della costruzione sul piano della
realizzazione materiale, e a questo punto l’esperienza dell’architetto stabiliva
le dimensioni dell’edificio e lo spessore da dare ai muri e ai pilastri perché
sostenessero il peso del tetto che doveva coprire l’edificio. La maggior parte
delle chiese, e in particolare quelle meglio conosciute della Croazia, hanno
tutte circa lo stesso diametro intorno ai dieci metri, come la stessa chiesa di
San Niccolò a Montieri, segno dell’esistenza di un rapporto ideale tra pianta
ed elevazione dell’edificio.
Poiché
tutte le chiese esaconche che conosciamo sono del periodo preromanico o romanico,
non si adoperavano ancora i contrafforti che nel gotico avrebbero consentito
forme slanciate ed ampie aperture, per cui le finestre erano di forma stretta
ed allungata, creando lame di luce che tagliavano l’ombra, favorendo così la
concentrazione e la meditazione; se, data la funzione spesso funeraria, non si
richiedeva un edificio che avesse grandi fonti luminose, molto più importante è
il simbolismo di questa oscurità: “La
luce è considerata nemica della penitenza, così nelle chiese dell’Armenia non
vi sono finestre o sono molto piccole… esse erano delle semplici fessure nelle
pareti… Tutto questo creava un ambiente ideale per la preghiera e la
separazione dal mondo del peccato e della sofferenza”[1].
Possiamo
andare al di là dell’interpretazione funzionale di questa voluta oscurità,
perché essa rimanda al simbolo della caverna[2],
il luogo oscuro delle forme primordiali che nella religione iranica (alla quale
si rifecero più o meno consciamente gli architetti armeni e georgiani) si
identifica con la caverna di Mithra dove il sacrificio del Toro genera il
cosmo, simbolismo che ritroviamo nel mito della caverna di Platone fino a
giungere alla caverna in cui si trova la mangiatoia in cui viene deposto il
Cristo. Scrive Plotino[3]:
“I Persiani iniziano il miste istruendolo sulla discesa
delle anime sottoterra e sulla nuova uscita, dando il nome di caverna al luogo…
Quando Zoroastro consacrò una caverna naturale sui monti vicino alla Persia, la
caverna costituiva per lui un’immagine del mondo che Mithra creò…
Dopo questo Zoroastro, invalse l'uso anche presso gli altri di compiere i
riti iniziatici in antri e caverne, sia naturali, sia costruiti da mano umana…
Da qui, credo, presero le mosse anche i Pitagorici; e, dopo questi, Platone
rappresentò il mondo come un antro o una caverna”. Non a caso, “molti studiosi sono dell’opinione che le forme di architettura
dell’Armenia cristiana sono ampiamente in continuità con i templi di Zoroastro”[4].
Non dimentichiamo che la regione caucasica è stata sottoposta al dominio
politico, culturale e religioso dell’antica Persia, in cui Mithra era venerato
nei Templi del Fuoco, a pianta centrale quadrata, ed il tempio di Armaztsikhe,
di età tardo-romana ma non di struttura romana, in cui alla pianta quadrata è
associata la struttura interna circolare a sei absidi, potrebbe aver costituito
il prototipo a cui gli architetti delle chiese esapetali si sono rifatti unendo
la struttura interna del tempio alla pianta circolare dei mausolei romani.
Il disegno
del progetto di una chiesa-tipo esapetale consente di scoprire un simbolo
fondamentale racchiuso nella pianta di base: è la figura del “Fiore a sei petali”, che nasce dall’incrocio
dei sei cerchi maggiori costruiti sulla prima circonferenza, il cosiddetto
“fiore della vita” che costituisce uno degli elementi iconografici che si trova
nell’arte di tutto il Medioevo europeo (e che non costituisce, come si crede,
un motivo iconografico esclusivo dell’Ordine dei Cavalieri Templari). Esso è
formato da sei “mandorle”, la figura geometrica entro la quale viene
raffigurato il Cristo o la Madre sul portale delle chiese, nei mosaici o nei
dipinti, e Guénon[5] mette in
rilievo il doppio senso della parola luz
significante in ebraico “mandorlo” ma che è anche il nome della città in cui
Giacobbe lottò con l’Angelo. La “mandorla” è la porta che mette in
comunicazione il mondo umano con l’oltre-umano, porta ierofanica attraverso cui
il Divino si mostra all’uomo, passaggio per mezzo del quale si raggiunge la
luce della conoscenza.
La “mandorla” è chiamata anche vesica
piscis con riferimento alla vescica natatoria dei pesci: da qui
l’accostamento del simbolo della mandorla al “pesce”, l’essere che vive
nell’acqua e quindi è figura del germe delle possibilità presenti nell’Acqua
primordiale nella quale è contenuta ogni potenziale manifestazione. Ricordiamo
solo per inciso che fin dal paleocristianesimo l’acronimo del Cristo in greco
dava la parola ΙXΘΥΣ, pesce.
Se
interpretiamo la vesica piscis nei
suoi aspetti matematici, applicando quei principii del simbolismo matematico
così ben conosciuti nel cristianesimo fin dai suoi inizi, abbiamo la
possibilità di trovare ulteriori significati. Il rapporto tra altezza e
larghezza della vesica piscis è il
numero irrazionale 1,73202… che esprime la radice quadrata di 3, la cui prima
approssimazione espressa con numeri razionali si ottiene con la divisione
265/153, dove 153 è un numero con particolari proprietà, in quanto è la somma
dei primi 17 numeri interi. Come scrive S. Agostino[6],
il 17 rappresenta l’unione tra Dio e l’uomo, poiché è la somma del 10, che si
origina dalla somma dei primi quattro numeri (la Tetractys) e che “[sommati] significano il Creatore e
la creatura”, e del 7, che è il numero dell’uomo in
quanto “la creatura consta del
numero sette, poiché il tre viene attribuito all'anima e il quattro al corpo”;
ma è anche la somma dei 10 comandamenti del Decalogo, che
costituisce il punto d’incontro tra Dio e l’uomo, e dei
7 doni dello Spirito Santo[7],
quindi l’unione della Legge e della Misericordia di Dio, la Legge che indirizza
l’uomo e la Misericordia che lo aiuta a compiere la sua strada.
Il
153 è inoltre costituito dalla somma dei cubi delle tre cifre che lo
compongono, 13 + 53 + 33 (1+125+27), dove 1 è
il numero proprio a Dio, 3 il numero della Trinità e 5 il numero dell’uomo
integrale (o se si preferisce dell’Androgine) come somma del 2, numero pari e
femminile, col 3, numero dispari e maschile. Il 153 è quindi un numero di
totalità esprimente l’unione tra la Divinità immanifestata (1) e manifestata
(3) e la sua creatura (5), che in sé simboleggia la molteplicità dell’Unità che
si rivela nella creazione. Nel cristianesimo il numero 153 compare in Giovanni
XXI, quando il Cristo, dopo la Resurrezione, si manifesta agli Apostoli sul
lago di Tiberiade nella terza ed ultima apparizione e miracolosamente fa loro
pescare 153 pesci: in questo caso il numero significa la conoscenza del Regno
dei Cieli, del piano divino della creazione in cui Creatore e creazione sono
contemplati e conosciuti nella loro simultaneità, conoscenza che è il
presupposto per gli Apostoli per giungere alla Sapienza dell’illuminazione
dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste.
L’esagono
regolare inscritto nella circonferenza di base è costituito da sei triangoli
equilateri, e il prolungamento dei lati esterni di essi va a costituire due
triangoli maggiori intersecantisi a formare il cosiddetto “sigillo di Salomone”, immagine dell’unione del Maschile e del
Femminile, la “punta” e il “vaso”, in Alchimia simbolo dell’unione del Fuoco e
dell’Acqua. Una linea retta passante per il centro della circonferenza e
parallela alla base dei due triangoli maggiori li suddivide nei simboli
alchemici dell’Aria e della Terra e, poiché il Fuoco, nelle cosmogonie dei
Presocratici e dei Pitagorici, è il Primo Elemento da cui gli altri tre
derivano secondo una loro specifica “qualità”, si può dire che “l’Acqua è Fuoco, l’Aria è Fuoco, la Terra
è Fuoco”[8].
Commentando
il disegno di una griglia che mette in evidenza i rapporti reciproci tra
triangolo, quadrato, esagono ed ottagono, Lanzi afferma: “La griglia nella quale insistono tutte le proiezioni geometriche è, a
tutti gli effetti, un quadrato magico… Ne risulta perfettamente logico che in
tale griglia anche le forme alchemico-magiche trovino il loro posto, e se le
stesse corrispondono ad alcune forme della struttura dei templi è ‘colpa’ della
geometria sacra”[9].
I dodici cerchi minori consentono una serie di
considerazioni: in quanto dodici, essi simboleggiano tutto ciò che è “dodici”,
ma ci soffermeremo solo su uno dei significati del numero, il cerchio formato
dalle dodici case dello Zodiaco. Se
la circonferenza che descrive la chiesa si trova in basso in quanto rappresenta
la Terra (come si è detto a proposito di uno dei significati del tempio rotondo
di Vesta a Roma), è giusto che lo Zodiaco si trovi al di sopra di essa e a metà
tra la Terra e il Cielo simboleggiato dalla cupola[10],
venendo così a rappresentare il “mondo di mezzo”, il firmamento dei Primi Nati
(o se si preferisce delle schiere angeliche) posto tra il Creatore e la sua
creatura. I dodici cerchi disegnano una corona,
con tutti i significati di gloria e di potere connessi a questo simbolo che
corona la testa, come dice il suo nome, significati che trovano la loro
espressione nelle corone votive che venivano appese nelle chiese, come quella
del Tesoro di San Marco a Venezia, in cui non a caso l’Imperatore è raffigurato
in mezzo ai Santi e agli Apostoli e porta sul capo come essi l’aureola che
indica il potere celeste che si unisce nella sua persona con il potere
temporale espresso dalla corona che porta sul capo[11].
L’esagono è a sua volta inscritto nel suo multiplo che
è il dodecagono, numero celeste
simbolo della totalità, e che questa non sia un’illazione a posteriori lo dimostrano già nel IV secolo il numero delle
finestre del Mausoleo dei Cercennii a
Roma (dove il numero è ripetuto due volte: due finestre per ogni abside e
dodici nel tamburo che regge la cupola); in seguito in molte chiese a sei absidi lo ritroviamo esplicitato non solo nel numero delle finestre ma anche
nella forma dodecagonale del tamburo o del paramento esterno.
Fin dal paleocristianesimo i numeri,
come le lettere dell’alfabeto latino, greco ed ebraico, sono considerati sacri
in quanto espressione di una realtà nascosta che ha la sua origine dall’Alto,
in particolare i numeri, perché, secondo la parola del Vecchio Testamento, “Tu, o Signore, tutto hai disposto secondo
misura, numero e peso” (Sap XI,
20). Il 6 e il 12 nella simbologia cristiana hanno un loro significato che
trascende il numero in quanto tale: il 6 è numero della perfezione
nell’esistente, perché 2 x 3 è il numero della generazione universale, essendo
2 pari = femmina e 3 dispari = maschio, il 12 è la perfezione suprema perché
prodotto da 3x4, l’incontro della Trinità in cielo con le quattro parti del
mondo sulla terra, quindi è il simbolo della totalità e della sacralità del
tutto, della Divinità che si manifesta sulla sua creazione. Da qui tutti gli
altri simbolismi del dodici, che tralasciamo di riportare per la loro ovvietà.
Queste indicazioni hanno per oggetto la pianta in
piano della chiesa-tipo esapetale, ma se la consideriamo nel suo insieme
tridimensionale si rileva un ulteriore, interessante simbolismo. L’edificio
sacro è sempre stato considerato figura dell’uomo come Macrantropo[12] o del Cristo come Colui che accoglie e
protegge i suoi fedeli: se questo concetto è evidente nella chiesa a croce
latina, considerando la figura del Cristo sdraiato sul pavimento di essa (la
navata è il corpo disteso, il transetto le braccia aperte, il coro con l’altare
maggiore la testa, la cripta sottostante il cuore di cui la cupola sovrastante
ne è la proiezione celeste), meno palese esso risulta nel caso di una chiesa a
pianta centrale. In tal caso l’immagine del Cristo va considerata in posizione
seduta FIG. 70, come nella figura
del Cristo Pantocrator dei mosaici absidali: la sua testa va a coincidere con
la cupola che copre l’aula rotonda, mentre il suo corpo in trono poggia i piedi
sulla Terra, e così Egli pervade della sua presenza l’intero cosmo di cui la
chiesa è figura.
Se la cupola è il simbolo della parte celeste
dell’intera creazione, le sei absidi hanno un duplice significato: esse sono “mezze cupole”, quindi il significato di
“cielo” è pertinente anche ad esse, ma si tratta di una “mezza cupola”, cioè
una cupola/cielo non totalmente visibile agli occhi umani. Il senso più
profondo della chiesa è forse proprio qui, nel suo essere via di accesso verso
dimensioni superiori, alcune visibili (la cupola), altre intuibili ma non
visibili, le “mezze cupole”, che in quanto sei indicano anche le sei direzioni
dello spazio, che troviamo raffigurate in piano fin dal paleocristianesimo
nella “croce a sei corna”, secondo la descrizione fatta dal padre Emanuele
Testa[13],
e come figura tridimensionale nella croce formata da due croci intersecantisi
per il centro su due piani perpendicolari.
Ma in ambedue i casi le sei direzioni nascondono la
settima direzione, la direzione del Cuore che è celata nel punto da cui le sei
direzioni si dipartono, nascosta nel punto più piccolo perché, dicono i
brahmani, Brahma si trova “nel ventricolo
più piccolo del cuore”, e la settima direzione nel disegno con il quale
abbiamo costruito il progetto della pianta della chiesa esapetale è il centro
del cerchio centrale di base da cui tutto si diparte nello spazio in larghezza
ed altezza, perché solo al centro spetta la profondità.
Sulla base di queste considerazioni, possiamo intuire
quale sia il significato simbolico che si realizza nella chiesa a sei petali: è
l’affermazione della compresenza del visibile e dell’invisibile, della
creazione manifestata e della causa della manifestazione; in essa si uniscono
il mondo del razionale (il lato dell’esagono) e dell’irrazionale o meglio del
non-razionale (il raggio del cerchio), quindi è ponte di unione tra i due
aspetti del conoscibile; è la figura dell’eterno rapporto tra il Creatore e la
sua creazione nel trascorrere del tempo scandito dalle stelle dello Zodiaco, la
porta di accesso agli stati superiori dell’Essere celata nella figura nascosta
nella sua pianta, il Fiore a sei petali simbolo della totalità.
[1] HALEBLIAN Art, Theology, and
Contextualization cit.
2 Sul significato simbolico della caverna a partire
dal Paleolitico si veda BONIFACIO La
caverna cosmica – La potenza dello
shamanismo nell’arte rupestre paleolitica, ed. Simmetria, Roma 2005.
3 PLOTINO L’antro
delle Ninfe, par. VI, VIII e IX.
4
HALEBLIAN Art, Theology, and
Contextualization cit.
5 GUÉNON Il Re
del mondo, ed. Atanòr, Roma 1952 pagg. 56-63.
6 AGOSTINO cap. 57 del De diversis quaestionibus: De centum quinquaginta tribus piscibus, esegesi dell’episodio evangelico della pesca
miracolosa dei 153 pesci di cui diremo appresso.
7 Per chi non avesse a portata di mano un trattato
di teologia, ricordiamo che essi sono: Sapienza, Intelletto, Consiglio,
Fortezza, Scienza, Pietà e Timor di Dio.
8 LANZI Sedes
Sapientiae cit. pag. 306.
9 LANZI Sedes
Sapientiae cit. pag. 160.
10 Ricordiamo che negli esempi meglio conservati, in
particolare quelli caucasici, la copertura della chiesa esapetale all’esterno è
conica ma all’interno è una semisfera. Così in Italia la Rotonda della Spada di
San Galgano a Montesiepi (SI) ha un (tardo) tamburo cilindrico ma all’interno è
conservata la cupola emisferica originaria, il cui raggio è esattamente la metà
dello spazio tra l’apice della cupola e il centro del pavimento, quindi la
Rotonda di Montesiepi contiene una sfera perfetta.
11 LANZI Sedes
Sapientiae cit. pag. 142 fig. 41.
12 Rimandiamo a LANZI Ermetismo e mistica. Il cristianesimo e la via iniziatica, ed.
Simmetria, Roma 2015 pagg. 123-140, dove si trovano interessanti riferimenti
tra le dieci Sephirot e quelli che l’Autore chiama “i centri sottili della chiesa”.
13 TESTA Il
simbolismo dei giudeocristiani, Franciscan Printing Press, Jerusalem 19812.
17 maggio 2015
19 marzo 2015
- PITAGORA O NEWTON Nelle radici della massoneria.
Il pitagorismo, uno dei fondamenti del pensiero massonico
Se l’indiscussa presenza di un filone pitagorico nella
Massoneria non può ovviamente essere ricondotta ad un filo ininterrotto che
dalle società pitagoriche giunge sino alla istituzione liberomuratoria,
altrettanto superficiale sarebbe identificare le similitudini nella sola
matrice iniziatica comune tanto alla Massoneria quanto alle società
pitagoriche. Si tratta piuttosto del recupero, da parte massonica, di una
tradizione esoterica ed iniziatica (in questo simile al recupero di tante altre
tradizioni, da quelle gnostiche a quelle templari, da quelle ermetiche
rinascimentali a quelle alchimistiche, e così via), teso a formare un corpus
sincretico di discipline poste a fondamento della ricerca libero muratoria. Il
manoscritto che Locke recuperò dalla biblioteca Bodleyana nel 1696, e che la
tradizione attribuisce al re Enrico VI d’Inghilterra (1421-1471), indica
chiaramente la matrice pitagorica della Massoneria. Si narra nel manoscritto
che un tal Peter Gower (nome foneticamente equivalente alla lettura inglese di
“Pitagora”), viaggiò nelle terre in cui i Fenici (indicati nel manoscritto come
Veneziani) avevano fondato Logge massoniche, ed in particolare in Egitto e
Siria; poi, iniziato egli stesso alla Massoneria, avrebbe fatto ritorno a
Crotone per innalzare le colonne di una Loggia. È palese l’intento mitopoietico
di questa narrazione, ma ciò non toglie che essa equivalga ad un riconoscimento
del pitagorismo come uno dei fondamenti del pensiero massonico. Non stupisce
che Arturo Reghini, nel tentativo di dare dignità e autonomia alla Massoneria
italiana, abbia riconosciuto nella cosiddetta Scuola Italica (leggasi
pitagorica) una matrice fondamentale del pensiero libero muratorio; peraltro,
egli sottolineò anche che – fuori della mitologia – il legame tra pitagorismo e
Massoneria non poteva essere quello di una ininterrotta derivazione storica,
quanto piuttosto quello di una “filiazione spirituale”. Quel ramo della
Massoneria che si riconosce in questo legame di filiazione spirituale è in
Italia ancora oggi vivo e fecondo, specialmente all’interno del Rito Simbolico
Italiano (e in misura minore nel Rito di Memphis e Misraim, che tende a
riconoscere una più ampia filiazione di origine “mediterranea”). D’altra parte
alcuni simboli di chiara ispirazione pitagorica sono presenti nella tradizione
massonica: il pentalfa soprattutto, e poi la tetraktis. Come ricorda Davide
Arecco, anche “l’arciprete Domenico Angherà nella prefazione del 1874 alla
ristampa degli Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori del Rito
Scozzese Antico e Accettato (…) afferma categoricamente che l’Ordine massonico
è la stessa, stessissima cosa dell’Ordine pitagorico. (…) In particolare l’arte
geometrica della Massoneria deriva, direttamente od indirettamente, dalla
geometria ed aritmetica pitagoriche; e non più in là, perché i pitagorici
furono i fondatori di queste scienze liberali”[1].
La ratio determina e sostiene anche l’etica
L’influenza pitagorica sulla Massoneria si evidenzia nel
valore simbolico dato ai numeri e alle figure geometriche: ciò che nel
pitagorismo era il significato del numero come principio stesso della realtà,
così che la legge di formazione dei numeri diventava legge di formazione del
mondo fisico e per estensione anche legge di formazione delle norme etiche ed estetiche
(insomma, il numero come arché, natura ultima del tutto, punto di partenza di
ogni cosa, fisica o morale che fosse), in Massoneria diventa il riconoscimento
che simboli, numeri e figure possono assumere una valenza evocativa ed
(intellettivamente) energetica, e in maniera del tutto simile a quanto
affermato dai pitagorici, la consapevolezza che questa riflessione deve anche
condurre a conseguenze etiche. Vi è poi,
ad accomunare pitagorismo e Massoneria, anche un aspetto religioso e mistico in
senso lato: religioso, nel senso etimologico di creare un vincolo (da
re-ligare, unire insieme), che si estrinseca nella fratellanza degli adepti; e
mistico nel senso etimologico di mystikos, ossia relativo ai misteri. È
evidente, soprattutto nella Massoneria inglese del periodo di transizione tra
Logge operative e Logge speculative (dalla fine del XVII all’inizio del XVIII
secolo) la diretta influenza di opere neopitagoriche (ad esempio la Introductio
arithmetica di Numenio di Apamea e l’Enchiridion harmonices di Nicomaco di
Gerasa[2])
che fanno da fondamento ad una mistica del numero e dell’armonia. Non c’è
dubbio che, in questa fase storica, il ricorso ad argomenti di tipo religioso
(in senso lato) tendeva ad ovviare ad un apporto ancora troppo scarso da parte della
scienza, alla quale evidentemente la Massoneria non dava ancora troppo credito.
In particolare, in questo periodo, lo
studio dei numeri sacri non poteva che avere come strumento privilegiato
l’aritmogeometria dei pitagorici, tanto sul piano strettamente matematico
quanto su quello della aritmetica formale (secondo la definizione che ne aveva
dato Pico della Mirandola), ovvero della aritmetica simbolica. Infine, nel
processo di appropriazione dell’eredità pitagorica da parte della Massoneria,
non poteva rimanere escluso il grande filone della musica, come espressione più
evidente della teoria pitagorica dell’armonia; un esponente di questa ricerca
fu il musicista Francesco Saverio Geminiani, il primo italiano iniziato in
Massoneria[3].
Dopo Pitagora, Newton
Dalla scienza l’etica
La religiosità dei pitagorici – una religiosità non formale,
che risponde ad una richiesta di comprensione da parte dell’uomo di cogliere
l’essenza dell’ordine universale – è in fondo la stessa religiosità che
impregna tutto il pensiero di Newton. Non stupisce quindi che, quando
l’influenza della matrice pitagorica inizia a perdere vigore nella Massoneria
inglese settecentesca a vantaggio dell’introduzione di tradizioni
ermetico-alchimistiche e rosacrociane[4],
il newtonianesimo tende a prendere il posto fino ad allora occupato dal
pitagorismo. D’altra parte l’elemento alchemico che pare fare il proprio
ingresso tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo nelle Logge che
cominciano ad accettare persone non lavorativamente coinvolte nel mondo dei
costruttori (basti qui ricordare l’alchimista Elias Ashmole) non era materia
estranea al pensiero newtoniano, in cui convivono istanze preilluministiche e
deiste, a fianco di influenze ermetiche, alchimistiche, cabalistiche e forse
rosacrociane. Ancora nel novecento il Reghini ha strenuamente sostenuto come,
nella storia dell’istituzione liberomuratoria, le due anime – pitagorica ed
ermetica, arricchita dalla più tarda componente alchimistica – abbiano
convissuto senza che i nuovi innesti di tradizioni esoteriche abbiano posto in
posizione di subalternità la componente italico-pitagorica[5]. Questo giudizio – che
in senso stretto appare afflitto da una pregiudiziale neopitagorica, essendo
innegabile una sostanziale scomparsa
della componente italica dalla massoneria inglese intorno
alla metà del Settecento – trova però forse nel doppio volto del newtonianesimo
una sua indiretta conferma[6].
D’altra parte, anche il celebre discorso di Ramsey del 1740, con cui si
proponeva una filiazione diretta della Massoneria dall’Ordine Templare,
riconduce a tradizioni di stampo chiaramente – anche se non esplicitamente –
pitagorico: basti pensare a tutta una tradizione che rimanda a segreti templari
circa numeri, pesi e misure relativi alla costruzione del tempio di Salomone.
La polisemia del messaggio newtoniano
Fatto si è che quando il pensiero newtoniano inizia la sua
influenza sulla Massoneria, esso la esercita in molti modi differenti, a
conferma di una matrice sincretica della filosofia di Newton che trova la
propria immagine speculare nel sincretismo che è una delle cifre
caratteristiche del pensiero liberomuratorio. Così, il newtonianesimo lascia
varie impronte sul pensiero massonico: la prima, molto più visibile ed
esplicita – ma incompleta e parzialmente distorta – è quella di un contributo
pre-illuministico che raccoglie solo la parte deistica[7] (impronta che ebbe il
suo massimo fulgore in alcune Logge dei Paesi Bassi) ed empirista: basti
pensare all’emblematica figura di John Theophilus Desaguliers (il terzo Gran
Maestro della Gran Loggia Unita d’Inghilterra), grande sperimentatore
newtoniano, membro della Royal Society dal 1714[8].
D’altra parte è innegabile che, via via che il newtonianesimo ispirava il
pensiero illuminista, anche il suo contributo alla filosofia massonica si
spostò verso tendenze utilitaristiche, in ogni campo del sapere.
Un senso univoco nella polisemia
L’altra impronta è quella, altrettanto incompleta e parziale
e certamente meno esplicita della precedente, di un lascito mistico ed esoterico
del Newton alchimista e cabalista. Ma forse, come accennato, il volto più vero
del contributo newtoniano alla filosofia massonica è quello che emerge dai suoi
manoscritti inediti, per lo più di stampo alchemico ed esoterico: quello che
esprime il concetto di una sola verità che però è raggiungibile attraverso una
molteplicità di strade differenti. Il linguaggio delle profezie bibliche e
quello dei segreti alchemici, il
linguaggio della matematica per interpretare la Natura e quello degli arcani
segreti numerologici: tutti provengono direttamente da Dio, tutti
inevitabilmente devono condurre alla Verità.
Nel Trattato dell’Apocalisse scriveva:
“La verità deve essere sempre trovata nella semplicità e non
nella molteplicità e nella confusione delle cose. (…) Il mondo che a occhio
nudo mostra la più grande varietà di oggetti appare molto semplice nella sua
costituzione interna quando sia osservato con intelletto filosofico. (…) È per
la perfezione dell’opera di Dio che tutto è compiuto con la più grande semplicità.
Egli è il Dio dell’ordine e non della confusione”. Molte vie, una sola Verità,
insomma. Si scorge facilmente, in questo pensiero, un lascito fondamentale per
il sincretismo della ricerca massonica. Non solo: l’insegnamento di Newton
mostra chiaramente al Massone (forse a quello di oggi più ancora che a quello
di ieri) la possibilità di far convivere gli aspetti più razionali e
illuministici con quelli più attinenti alle tradizioni esoteriche, talvolta
confinanti con derive irrazionalistiche.
Ecco l’Utopia, o il sogno, della Legge dell’Armonia
Se dovessimo sommariamente tracciare un parallelismo tra i
contributi del pitagorismo e del newtonianesimo sulla Massoneria, le direttrici
fondamentali potrebbero essere identificate in primo luogo nella affannosa
ricerca della legge che governa il nostro Universo e che, determinando
l’armonia di questo suggerisca una analoga legge dell’armonia anche per la
convivenza tra gli uomini. In secondo luogo, tanto il pitagorismo quanto il
newtonianesimo mostrano un’ispirazione simile quanto al tentativo di
esplorazione della dimensione del sacro, dove persino alla matematica e alla
scienza[9]
finisce per essere associata una mistica (nel già visto senso etimologico di
relativo ai misteri) di matrice religiosa. Alcune famose citazioni su Newton
(riferite al Newton scienziato, si badi bene) rendono chiaramente ragione di
questo aspetto: “Più vicino agli Dei nessun mortale può avvicinarsi” (Edmund
Halley); “La Natura e le sue leggi erano nascoste nel buio della notte. Dio
disse, sia Newton! E tutto fu luce” (Alexander Pope);
“Il catechista annuncia Dio ai fanciulli, Newton lo spiega
ai sapienti” (Voltaire).
Forse l’esponente della Massoneria che meglio nella storia
ha incarnato tanto l’anima pitagorica quanto quella newtoniana è il già citato
John Theophilus Desaguliers (1683-1744): è lui (insieme a John Payne, Anthony
Sayer e James Anderson) a porre le basi della Gran Loggia Unita d’Inghilterra
su di un indirizzo nettamente pitagorico, ma è sempre lui ad essere – oltre che
amico personale di Newton – uno dei maggiori esponenti del newtonianesimo
empirista. In lui pitagorismo e newtonianesimo convivono, e come in Pitagora il
numero diviene fondamento di tutta la realtà – mondo fisico, etica, politica –,
così nelle opere di ispirazione newtoniana di Desagulier sono le scoperte
scientifiche di Newton a porre “le
fondamenta per una filosofia naturale che riconduceva le origini dell’Universo
e della stessa società civile non a un principio metafisico, ma a un movimento
razionale impresso in origine da un dio architetto, che poteva spiegare tanto i
cambiamenti nella natura quanto quelli dei sistemi politici”[10].
Marco Rocchi
R\L\
Antonio Jorio 1042 GOI, Pesaro
3) Arecco, op. cit.
4) Fu iniziato nel 1725
presso la Loggia di soli musicisti Philo-Musicae
et Architecturae Societas Apollini di Londra. Fu egli il primo Massone
italiano, mentre Antonio Cocchi – spesso citato come tale – fu più precisamente
il primo Massone italiano ad essere iniziato in Italia, nel 1732, in una Loggia
di obbedienza inglese attiva a Firenze.
5) Si legge in Arecco,
op.cit.: “È proprio l’innesto nell’originario corpus muratorio di elementi,
anche consistenti, provenienti dalla tradizione alchimistica orientale ed
occidentale, segnatamente ermetica prima e soprattutto rosa†crociana poi, a far
diminuire il peso e l’importanza storica entro l’ambito massonico
dell’auctoritas italica, affiancandogli fonti di ispirazione che ne relegano il
ruolo da istanza primaria quale in origine era stata a dato sempre più
periferico”.
6) Arturo Reghini, La tradizione pitagorica in Massoneria,
Gherardo Casini Editore, Sant’Arcangelo di Romagna, 2010.
7) A questo proposito è
emblematico il titolo dell’opera più importante sul Newton esoterico: Betty Jo
Teeter Dobbs, Isaac Newton scienziato e
alchimista, il doppio volto del genio, Edizioni Mediterranee, Roma, 2002.
8) Newton non fu mai un
deista in senso stretto – anche se il suo arianesimo vi si avvicinava molto –
soprattutto per la sua profonda convinzione in un intervento diretto di Dio nel
mondo, e nel conseguente rifiuto di un Dio descritto come un “latifondista
ozioso” che si disinteressa del destino dell’uomo e dell’intero universo,
privandolo della sua Provvidenza. Cfr. Dobbs, op.cit. e Marco Rocchi, Santinelli,
Newton e l’alchimia: un triangolo di luce, Argalia Editore, Urbino, 2010.
9) A proposito della Royal
Society, gioverà qui ricordare che, stando alle parole di un autorevole membro,
Johh Wallis, i membri si riunivano “prescindendo dalle questioni di teologia e
di politica”; cfr. Francis R. Johnson, Gresham
College, precursor of the Royal Society, in “Journal of the History of
Ideas”, 1(4), 1940, pp.413-438.
10) Non stupisce dunque che
lo stesso Newton, nei suoi Scolii classici, faccia riferimento ad una prisca sapientia, che avrebbe accomunato
filosofi egizi, ionici ed italici nella conoscenza delle leggi che descrivono
la gravitazione.
11) Davide Arecco, Massoneria e scienza nella Londra di Giorgio
I, in “Atrium” 3, 2003, pp.34-47.