29 gennaio 2012

- L’Accademia segreta del Ruscelli a Napoli

Il poligrafo cinquecentesco Girolamo Ruscelli fornisce una serie di parametri riconoscibili in buona parte delle iniziative accademiche, non solo partenopee, dandoci un'idea calzante delle motivazioni e delle organizzazioni interne a quei fenomeni associativi. Tali elementi, in seguito, sarebbero stati mutuati dai sodalizi massonici che nella Napoli del settecento ebbero tanta parte.
L'Opera è la Secreti nuovi (*), ultimata nel 1566 e pubblicata in unica edizione a Venezia l'anno successivo, nel 1567. L'avventura partenopea del Ruscelli inizia verso il 1542 quando, reduce da un soggiorno romano, si trasferisce a Napoli al servizio di Alfonso d'Avalos, Marchese del Vasto, con varie funzioni, tra le quali quelle di ambasciatore e poeta di corte. Alla morte del d'Avalos il Nostro, rimasto senza mecenate, parte per Venezia dove inizia a collaborare con l'editore Valgrisi come scrittore e correttore di bozze. Proprio a Venezia, abbiamo visto, pubblica i Secreti Nuovi, riversandovi in parte alcune esperienze maturate nella città partenopea.
La Accademia Segreta appartiene proprio a quest'ambito napoletano. Comprendere l'oggetto misterioso di cui ci parla il Ruscelli è particolarmente importante, in quanto si tratta dell'unica descrizione coeva di quelle strutture che sia giunta fino a noi, ed in particolare di quelle napoletane tra il XVI ed il XVII secolo. Quello di cui parliamo, appare un progetto chiuso, con una sua vita ed un obbiettivo ben preciso da perseguire. La qualità di segretezza, ricordata dal Ruscelli, aveva nella mente degli organizzatori una funzione ben precisa: consentire agli sperimentatori una tranquillità operativa in itinere e difenderli da assalti esterni di curiosi e detrattori. Un'eccezione al principio di segretezza era stabilito a favore dei 'dottori' della città, i quali - se debitamente invitati dai sodali - con la loro esperienza avrebbero potuto contribuire in modo fattivo alle attività accademiche. Una volta giunti al termine della ricerca, l'uscita dall'anonimato e lo scioglimento del segreto sui lavori svolti avrebbe consentito di mettere i frutti ormai maturati della ricerca al servizio dell'intera umanità senza distinzione di razza, sesso, censo, religione, età, possibilità economiche ed istruzione.
La ricerca e la sperimentazione Strumenti per la conoscenza di sé
Il modo in cui la pratica operativa dell'Accademia avrebbe potuto agire a beneficio dell'umanità ci è tramandato dallo stesso Ruscelli, che ne evidenzia la duplice valenza, verso l'esterno e verso gli sperimentatori. Quanto al primo aspetto, fulcro dell'attività accademica appare la sperimentazione empirica delle formule che riguardavano la composizione di medicamenti, così come riportate negli antichi trattati. Sarebbe poi stata cura dell'Accademia - dopo aver 'purgato' l'argomento da fallaci 'ricette' - mettere quelle realmente efficaci a disposizione dell'umanità. Dopo procedimenti di selezione articolati in un triplice ordine di prove (troveremo ancora questo numero tre, la cui valenza mistico filosofica permeò il concetto stesso dell'Accademia Segreta), i preparati così selezionati venivano destinati a lenire e curare malattie infettive, lebbra, infiammazioni oculari, epilessia, ustioni, ascessi ed una serie di altre jatture sanitarie che affliggevano l'umanità del tempo. Il secondo aspetto dichiarato, quello rivolto ad uno strumentale beneficio degli Accademici, perseguiva la conoscenza di se stessi. Particolare attenzione merita questo aspetto, poiché, se il primo appare solo eventuale in un'analisi trasversale del fenomeno accademico napoletano, quest'altro aspetto, della Conoscenza di sé, costituisce invece un elemento tipico ed inalienabile, almeno fino ad un certo punto (inizi XVIII sec.), della quasi totalità dei fenomeni accademici operanti nella realtà partenopea.
Nel testo di William Eamon (La Scienza e i Segreti della Natura – Ecig 1999) si attribuisce grande rilevanza, in tal senso, all'impatto avuto dalla Accademia Cosentina, ed in particolare dalla concezione telesiana della natura, su tutta la costruzione teorico-sapienziale del fenomeno accademico napoletano. L'aspetto della conoscenza di sé, come abbiamo detto, aveva un significato strumentale. Questa 'presa di coscienza' dell'accademico ricercatore, era infatti preordinata ad un effetto ulteriore, se vogliamo molto più spinto e socialmente pericoloso per l'accademico stesso, che pescava generosamente dalla costruzione filosofica telesiana del De rerum Natura Iuxta Propria Principia.
L’Opus Alchemicum per svelare i Segreti
Con la sperimentazione si perseguiva la conoscenza approfondita della natura, e dei procedimenti utilizzati dalla natura stessa nelle fasi creative ed evolutive. Quale modo migliore per realizzare ciò, se non riprodurre in laboratorio quei procedimenti? Il lettore si sarà reso conto che siamo scivolati apertamente sul piano dell'alchimia operativa, e potrà, quindi, anche immaginare il genere di procedimenti messi in atto per il raggiungimento dello scopo
. Orbene, riprodurre in vitro, o in laboratorio, quegli stessi procedimenti applicati dalla natura nel laboratorio dell'intero Creato, è un chiaro voler riproporre il rapporto ermetico-alchemico tra Macrocosmo e microcosmo. E' noto a tutti che il fine ultimo, la nascita dell'uomo nuovo, culminava nella riproduzione in vitro dell'homunculus alchemico, dell'uomo rigenerato e ricreato dall'Arte, indenne da difetti e da sofferenze di sorta. È il rebis, l'androgine partecipe di tutto quanto esistente in natura ed oltre, soprattutto rappresentante il compendio e la coesistenza di tutte le opposte forze che - nell'uomo non purificato - agiscono invece come forze disgregatrici. Ora noi sappiamo, dalla concezione ermetica, che un uomo siffatto è posto per sua natura al di fuori e al di sopra delle passioni, delle imperfezioni corporee, del bene e del male, della concezione e dello scorrere del tempo, rispetto al quale passato presente e futuro non hanno motivo di distinzione. E' quindi eterno, rappresentando inoltre tutto quanto esiste ed il suo perfetto opposto. È, insomma, egli stesso la Natura.
Il Panpsichismo di Bernardino Telesio giunge proprio a queste conclusioni. Come ci ricorda proprio l'Eamon, "il soggetto e l'oggetto, conoscitore e conosciuto, possiedono la stessa natura, quindi conoscere una cosa significa diventare una parte di essa".
Rebis
Ma né la sperimentazione alchemica, né tantomeno la dottrina telesiana si fermano qui. Il Rebis, contenendo tutto, è la materia primordiale 'purgata', quindi da utilizzare come punto di partenza per il perseguimento di ulteriori obbiettivi (L'Oro alchemico, in tutte le sue accezioni simboliche e non). Ci dice infatti ancora l'Eamon: "Se, come sosteneva Telesio, la natura fosse unitaria e capace di assumere molte forme, se la consapevolezza di sé e la conoscenza della natura fossero una cosa sola, ne conseguirebbe che il conoscente, comprendendo la natura, agirebbe su di essa alterandola".
E poi: "Le operazioni della natura, consistono in forze attive che agiscono sulla materia passiva, ma sensibile".
Le Accademie e la nobiltà napoletana
L'analisi dell'Eamon non si ferma qui, puntando il dito su un altro aspetto fondamentale dell'intero fenomeno accademico, che in qualche modo ne decretò la rovina.
I consessi accademici, come risulta dalla descrizione del Ruscelli, comparivano sull'onda di una spontanea esigenza associativa, ma, per mantenersi in vita, necessitavano dell'appoggio carismatico e finanziario di un personaggio dotato per sua natura di autorevolezza e mezzi. Il fenomeno era dunque in buona misura affidato al mecenatismo e, d'altra parte, la più alta carica dell’Accademia era quella di 'Principe'.
Le accademie attecchirono grazie alla volontà ed all'interessamento di una parte della nobiltà napoletana. Ora, il rapporto tra questa nobiltà ed il viceregno era andata con il tempo deteriorandosi, a causa della originaria avversione manifestata proprio dai viceré spagnoli nei confronti della nobiltà e dei poteri da essa acquisiti nel tempo.
Inoltre, l'idea del riscatto umano dalla brutalità della sua natura doveva necessariamente passare per un processo di metamorfosi più complesso, che finiva per abbracciare sia l'aspetto politico che quello mistico della vita umana. Si pensi alla produzione Campanelliana, che preconizzava la caduta del regime vicereale, ed agli stretti collegamenti esistenti tra gli intellettuali dell'epoca ed una serie di movimenti neoereticali, collegati ad un'evoluzione anche spirituale di un'umanità riscattata. I fantasmi cui dette corpo l'introduzione della dottrina del mistico Juan de Valdés a Napoli ed il largo seguito da essa conseguito negli ambienti intellettuali napoletani dell'epoca, finirono per rappresentare una motivata preoccupazione per il potere costituito, circa la valenza eversiva del fenomeno.
L’editto del Viceré, la chiusura delle Accademie napoletane e la fuga del Ruscelli a Venezia
L'epilogo maturò quando don Pedro de Toledo, per verificare la fondatezza dei suoi sospetti, chiese in proposito il parere di un illustre ospite alla corte napoletana di quel tempo: l'aristotelico fiorentino Benedetto Varchi. Il parere chiesto dal Toledo al Varchi, siamo nel 1544, concerneva l'argomento se “secondo i principi di Aristotele, l'alchimia potesse essere messa alla prova per confermare sperimentalmente la sua possibilità o impossibilità". Varchi rispose (Questiones sull'Alchimia) distinguendo tra l'alchimia utilizzata dagli artigiani, sostanzialmente ritenuta valida, e quella 'sofistica' tesa alla fabbricazione dell'Oro alchemico, di rimedi portentosi, di panacee o dell'Elisir di Lunga Vita. Tale pratica, secondo l'illustre interpellato, "promuove ogni sorta di malvagità". Scrive ancora il Varchi che tutte le forme di questo particolare genere di alchimia dovrebbero essere "più che meritatamente bandite da tutti i prìncipi buoni e da tutte le repubbliche ben organizzate, e perseguitate con il fuoco". Era stata centrata in pieno l'attività dell'Accademia Segreta del Ruscelli. Conseguenza fu la triste e nota risoluzione vicereale di dichiarare sciolti in massa tutti i consessi accademici operanti a quel tempo a Napoli, che travolse almeno altre sei illustri analoghe iniziative.
Vi è però dell'altro.
Nella descrizione che il Ruscelli fa del mecenate, si è voluto da più parti riconoscere quel Ferrante Sanseverino, Principe di Salerno e personalità tra le più influenti del tempo.
Bisogna sapere che tra costui (tra i Sanseverino in genere) ed il viceregno c'era guerra dichiarata, combattuta anche sul fronte diplomatico: il Sanseverino lavorò a lungo per mettere in cattiva luce il Viceré Pedro Alvarez de Toledo nei confronti dell'Imperatore Carlo V. La cosa non gli riuscì, portando a fallimento anche quella che pare fosse la sua mira principale: divenire a sua volta Re di Napoli. La sua caduta in disgrazia travolgerà anche eminenti rappresentanti della cultura partenopea: la destituzione di Scipione Capece dalla carica di direttore dell'Università e lo scioglimento dell'Accademia Pontaniana della quale a quel tempo egli era a capo, ne sono manifestazioni evidenti. Anche l'Accademia segreta del Ruscelli, caduto il Mecenate Sanseverino, dovette soccombere. Il Ruscelli fu costretto ad abbandonare precipitosamente il regno di Napoli nel timore di ritorsioni spagnole e si rifugiò a Venezia, dove dette alla luce il suo "Secreti nuovi". Il timore che suoi ulteriori scritti danneggiassero i vecchi compagni d'Accademia rimasti a Napoli, lo spinse a celarsi sotto lo pseudonimo di Alessio Piemontese. 'Alessio' Girolamo Ruscelli continuò dunque in modo anonimo l'attività di ricercatore spagirico esercitando la propria militanza nelle piazze, dove spesso si offrì di curare pazienti occasionali da gotta ed altri problemi, al fine di dare prova tangibile della bontà dei suoi composti. La sua figura non avrebbe avuto più la rilevanza che gli aveva donato quella sua creatura napoletana, l'Accademia Segreta.

Da Opus minimum
Paolo Izzo
Editore della Stamperia del Valentino, Napoli



21 gennaio 2012

- L’archetipo dello Spirito – Anima

L’archetipo junghiano dello Spirito è un bisogno energetico della psiche che si attiva quando si presenta una situazione in cui la conoscenza personale, la razionalità o la semplice volontà non si rivelano sufficienti a risolvere l’esperienza che si prospetta, che potrà essere superata solo grazie ad un ampliamento di coscienza.
Di solito, si tratta di situazioni limite, spesso giudicate impossibili da risolvere perché prospettano la perdita obbligata di un qualcosa che è sentito come irrinunciabile da chi sta vivendo l’esperienza e che si trova come di fronte ad un bivio, ad un momento di dubbio o di paura, in cui appare difficile fare una scelta senza entrare in una dinamica psicologica paradossale. Ricordiamo infatti che gli Archetipi, così come li ha definiti Jung, contenendo in sé i contrari, sono polivalenti e paradossali perché prospettano “una pienezza di tali riferimenti che rende impossibile ogni univoca formulazione” e proprio perché la psiche va automaticamente verso la completezza, diventa anche necessario il lavoro d’integrazione per trovare quel punto di mezzo che consenta di dare comunque significato e profondo valore all’esperienza difficile che si sta vivendo. Lo Spirito infatti viene attinto direttamente dall’inconscio che, proprio perché atemporale ed aspaziale, è l’unico a poter fornire la risposta arcaica, istintiva ed immediata di come potrà essere risolta una situazione o uno stato d’animo che appaiono incomprensibili, ma soprattutto non gestibili facendo ricorso soltanto a parametri razionali.
Differenze tra Spirito e Anima. Interazione.
Potrebbe essere interessante riflettere sulla notevole differenza che esiste tra l’archetipo dello Spirito e l’altro grande archetipo junghiano dell’ Anima, l’immagine della donna nell’uomo, così come l’Animus è l’immagine dell’uomo nella donna; precisa Jung: “L’Anima è la figura che compensa l’energia maschile. L’Animus quella che compensa l’energia femminile”.
Spirito ed Anima sono entrambi collegati all’emisfero destro del cervello, quello preposto ad elaborare i contenuti collegati alla percezione delle emozioni e di ciò a cui rimandano i sensi. Infatti, se l’emisfero sinistro elabora le connessioni logiche e verbali, attraverso la ragione e la linearità della mente conscia, quello destro è inconscio, analogico e simbolico; è collegato alla fantasia, al mito, alla poesia, alle attitudini artistiche e musicali, all’intuizione. L’Anima è quindi la parte ricettiva della psiche che ha connotazioni prettamente femminili: è attenta al flusso emotivo, alle atmosfere, i ricordi, i sogni e l’immaginazione, ma anche in stretto contatto col mondo notturno e quanto esso rimanda, non esclusa l’irrazionalità. Scrive Jung: "Tutto quello che l’Anima tocca diventa numinoso, cioè assoluto, pericoloso, soggetto a tabù, magico; in quanto vuole la vita, l’Anima è conservatrice e si attiene in modo esasperante all’umanità antica”.
A differenza dell’ Anima, invece, lo Spirito è un archetipo dinamico con connotazioni essenzialmente maschili che aspira all’Unità. E’ un principio attivo che scuote e vivifica la mente, facendola entrare in contatto col potenziale intuitivo che scavalca non solo le statiche suggestioni dell’Anima, ma anche le strategie razionali che l’Io pone a difesa di se stesso, ed offre la risposta più appropriata all’esperienza inedita che si sta vivendo. Infatti, di solito ciò che attiva lo Spirito è il rivelarsi di situazioni improvvise ed estreme che portano la mente “fuori dal seminato”; portano l’individuo in un territorio inesplorato di emozioni e sensazioni sconosciute che non possono essere affrontate né con le soluzioni della mente conscia, né col quelle proposte dall’Anima, senza il rischio di trascinare l’individuo in una fase di stallo da cui non riuscirà ad uscire. Ricordo infatti che gli Archetipi dell’inconscio collettivo hanno in sé tutto il bene e tutto il male possibile dell’esperienza umana nei secoli e solo l’incontro della coscienza con l’inconscio personale può dare all’individuo la possibilità di disciplinare le irruzioni spontanee dell’inconscio collettivo, riconoscere quando servirsi della parte luce archetipica e quando visualizzare la parte ombra, perché possa essere illuminata e, solo dopo questo atto d’accettazione ed integrazione, trascesa. E, nella sua parte luce, l’Anima è davvero l’unica via per metterci in contatto con la nostra ispirazione creativa, le nostre profondità emotive, le passioni intense, per farci partecipare del flusso delle emozioni e delle percezioni, aprendo la porta ad un mondo immaginativo più sensibile ma proprio per questo più aderente alla totalità della realtà. L’archetipo, infatti, se pur strettamente femminile, non è un dato acquisito per la donna, così come scrive James Hillman, psicologo junghiano, nel suo “Anima”: “Ma la psiche, il senso dell’anima, non è data alla donna solo perché è nata femmina. Essa non ha un’anima già congenitamente salva e non è quindi privilegiata in questo rispetto all’uomo, che sul destino dell’anima deve arrovellarsi per tutta la vita. Come l’uomo, non è esonerata dal compito di coltivare l’anima; trascurare l’anima per lo spirito è per la donna non meno biasimevole dal punto di vista psicologico di quanto lo sia per l’uomo, al quale la psicologia analitica non si stanca di predicare il sacrificio dell’intelletto, della Persona e dell’estroversione a favore dell’Anima”. Possiamo comunque dire che la donna è più incline a restare in contatto con la sua Anima, perché se, come teorizza Jung, l’Animus è collegato al principio di Logos, messo in relazione alla capacità che c’è nell’uomo di risolvere ogni situazione della vita attraverso l’azione ragionata ed il pensiero, l’Anima è collegata al principio femminile di Eros e quindi alla capacità di entrare in empatia, di riconoscere il valore dei sentimenti e l’importanza di scambiare amore, ma anche di saper cogliere il senso profondo della vita. E nel suo “Fuochi Blu”, parlando dell’incontro tra Spirito ed Anima, così scrive Hillman : “È possibile avere esperienza dell’interazione tra l’anima e lo spirito. Nei momenti di concentrazione intellettuale o di meditazione trascendentale, è l’anima che invade con impulsi naturali, ricordi, fantasie e paure. In momenti di nuove intuizioni o esperienze psicologiche, lo spirito vorrebbe immediatamente estrarre da esse un significato, metterle all’opera, concettualizzarle in regole. L’anima resta aderente al regno dell’esperienza e alle riflessioni entro l’esperienza. Si muove indirettamente, con ragionamenti circolari, dove le ritirate sono altrettanto importanti delle avanzate; preferisce i labirinti e gli angoli, dà alla vita un senso metaforico servendosi di parole come chiuso, vicino, lento e profondo. L’anima ci coinvolge nella massa confusa dei fenomeni e nel flusso delle impressioni; è la parte «paziente» di noi. L’anima è vulnerabile e soffre; è passiva e ricorda. Essa è acqua per il fuoco dello spirito”. Ma se nel suo lato luce l’Anima fa accedere a sfumature più sottili e sensibili dell’esperienza, se riesce ad arricchire la coscienza di quella “competenza dei sentimenti” che non può trovarsi in una mente solo razionale, nel suo lato ombra può essere un principio destabilizzante che irrompe nella coscienza sommergendola come un’onda gigantesca e facendole perdere in un attimo l’aderenza alla realtà e quindi impedendole quella lucidità di pensiero e presenza a se stessi che la stessa condizione terrena esige. Leggiamo invece quanto scrive Hillman sullo Spirito: ”Lo Spirito è pieno di immagini sfolgoranti, di fuoco e di vento. Lo Spirito è rapido e rende vivo quello che tocca. La sua direzione è verticale ed ascendente; è diretto come una freccia, affilato come un coltello, arido come la polvere. E’ maschile, è il principio attivo che produce forme, ordine e distinzioni chiare. Sebbene vi siano molti Spiriti e molti tipi di Spirito, la nozione “spirito” è venuta concentrandosi nell’archetipo apollineo, nella sublimazione delle discipline superiori e astratte, nella mente intellettuale, negli stati di raggiunta perfezione e purificazione”. E’ per questo che, tanto quanto un’Anima ancora prigioniera dell’Ego può far indulgere la mente in fantasie e ricordi quasi ripiegandosi su se stessa per paura dell’ignoto; tanto quanto preferirebbe ritirarsi nei suoi territori antichi, che sembrano rassicurare e proteggere la mente dall’imprevisto e dall’imponderabile, altrettanto lo Spirito irrompe come un fulmine a ciel sereno che squarcia la coscienza e trascina la mente in un mondo tanto sconosciuto quanto affascinante; la chiama imperiosamente e le impedisce di sostare, la spinge a squarciare il velo protettivo dei ricordi e la proietta verso l’inesplorato, impedendole di elaborare l’esperienza sempre con le stesse modalità che non fornirebbero quella risposta lucida, logica ed immediata, che resta anche la migliore per risolvere l’esperienza stessa. Scrive ancora Hillman: “Se l’anima è un “cavernoso deposito di tesori”, per usare un’immagine di sant’Agostino, è confusione e ricchezza insieme, lo Spirito, al contrario, sceglie la parte migliore e si sforza di ricondurre tutto all’Uno. Guarda in alto – dice lo Spirito – distanziati; c’è qualcosa al di là e al di sopra e quello che sta sopra è da sempre e per sempre, ed è sempre superiore”. E’ per questo che lo Spirito è anche la parte immortale dell’essere umano: tanto quanto l’Anima ha il terrore della mortalità, altrettanto lo Spirito è l’unica via che può spalancare per lui la visione sull’Eterno, sulla sua spiritualità.
L’archetipo, con la sua linearità e verticalità, si innalza sopra i labirinti circolari dell’Anima e guida la mente nel futuro; dopo che l’Anima ha strutturato le sue basi emotive e i suoi attaccamenti, li ha riconosciuti, apprezzati ed amati come si ama la culla, lo Spirito prospetta un mondo nuovo, un balzo in avanti, un ampliamento in consapevolezza e verità. In più, tanto quanto le soluzioni soggettive dell’Anima potrebbero rivelarsi irrazionali, arbitrarie ed incoerenti, altrettanto quelle intuitive dello Spirito si presentano logiche e lineari nella loro semplicità; l’energia che si contatta è fortissima, la prospettiva da confusa si fa chiara. E’ quindi anche un archetipo che spinge a rintracciare e conoscere il senso superiore della vita e d’unione col Creato, perché libera l’individuo dai pregiudizi e convinzioni soggettive, lo libera dalle paure personali e quelle che derivano dai condizionamenti del collettivo, facendolo aprire ad una visione globale e più allargata dell’esistenza; gradualmente lo introduce a riflettere sull’arbitrarietà delle proprie conclusioni mentali e sulla necessità di lasciare andare le rigidità di pensiero che inevitabilmente chiudono al nuovo, quando è solo nel nuovo che si può trovare la risposta inedita e risolutiva all’inatteso che si prospetta, al mistero della vita. Lo Spirito chiama l’uomo “dal futuro”, anticipando per lui quella risposta ricca di senso che non potrà essere trovata né negli intellettualismi della mente razionale, né nel ripiegamento su se stessi, su un nostalgico e sterile passato. Solo dall’integrazione tra Spirito ed Anima, può nascere una nuova prospettiva di vita, quella che assicura all’individuo, sia uomo che donna, di mantenere il contatto con le sue radici emotive, ma contemporaneamente gli permette di dispiegare le sue ali verso la Verità.
Lo Spirito personificato.
Una personificazione esatta di questo bellissimo archetipo junghiano è certamente il “Vecchio Saggio”, o “Il Mago”, che ritroviamo nei miti, nelle leggende e nelle fiabe di tutti i tempi come figura di sostegno, che compare quasi sempre all’improvviso e si materializza dal nulla per fornire all’eroe, schiacciato da una condizione drammatica e spaventosa, la soluzione che gli permetterà di superare ciò che lo sta mettendo alla prova e che ferma in qualche modo il suo viaggio.
Lo Spirito è il dio Mercurio che si materializza ad Ulisse per esempio, quando gli dona “l’erba moli” perché si difenda dagli incantesimi dell’Anima Circe; lo Spirito è anche lo sconosciuto che incontrerà il protagonista della bellissima fiaba di H. C. Andersen “Il compagno di viaggio” e che lo aiuterà ad indovinare gli enigmi della spietata principessa e infine lo Spirito è il vecchio Matara che accompagna Karain nel racconto “Karain, un ricordo” di Joseph Conrad e che gli darà un amuleto, simbolo del bisogno di Karain stesso a ritrovare la fede. La figura del “Vecchio Saggio” è quindi una costante delle fiabe, che contengono riferimenti puntuali agli archetipi, così come leggiamo in Jung: “Le fiabe sono l’espressione più pura dei processi psichici dell’inconscio collettivo e rappresentano gli archetipi in forma semplice e concisa”. Il Vecchio Saggio è di solito un personaggio maschile che compare all’eroe per dargli dei suggerimenti: gli indica per esempio un’altra via da seguire (non passare di là) o gli dona un qualcosa (una noce, un amuleto, una monetina) che gli permetterà il superamento della prova stessa, rimettendo l’eroe in contatto con la sua forza originaria e con la certezza di potercela fare. Solo seguendo questo personaggio e quanto gli suggerirà, o gli donerà, o farà balenare in lui grazie a una qualsiasi forma d’aiuto, l’eroe sarà costretto a riconoscere che, nonostante la sua forza e il suo coraggio, nonostante lui goda di conoscenza, sapienza e scaltrezza, nonostante lui sia munito di tutte le armi possibili per potersi difendere e nonostante le strategie razionali che escogiterà la sua mente, non potrà contare solo sulle sue forze, non potrà risolvere da solo la prova. E’ proprio l’attimo di sgomento ed il riconoscimento consapevole della propria fragilità che smuoverà ed attiverà quasi immediatamente nella mente la visualizzazione di quest’archetipo, che traghetterà l’eroe oltre il momento critico che sta vivendo. Secondo Jung, l’eroe può definirsi tale non solo se le sue azioni andranno oltre il tornaconto personale, ma soprattutto se passerà attraverso quest’atto di riconoscimento, attraverso l’accettazione della sua fallibilità e della necessità di ricercare un aiuto all’esterno, di un qualcosa che sia posto “fuori” di lui e cioè fuori dalla sua sfera di controllo. E’ chiaro che l’aiuto “esterno” non è altri che lo specchio dell’accettazione interna della sua capacità di resa; non è altri che il riconoscimento che sia possibile un fallimento, una rimessa in discussione delle proprie certezze, che l’hanno sostenuto, forse per una vita intera e che è tempo di rivedere. E’ l’individuo/eroe stesso che, raccogliendo tutte le sue forze e pescando dal “pozzo fondo” del suo inconscio personale, in stretto contatto col grande mare dell’inconscio collettivo, ma anche riconoscendo i limiti del suo essere uomo, potrà agganciare attraverso lo Spirito liberato una nuova energia che si rende disponibile perché non più bloccata dall’ostinazione, dall’orgoglio e dalla presunzione di poter risolvere solo con la volontà, col sapere e col potere personale ciò che sta vivendo. Ma neanche bloccato dalle ombre della sua Anima, dove sedimentano le sue più antiche paure. Questa figura magica può anche animare il mondo dei sogni, che è il tesoro più bello del mondo dell’Anima. La buona volontà e disposizione ad accedere a queste dimensioni più sottili della percezione, quella che gli orientali chiamano “la seconda attenzione” per distinguerla dalla “prima attenzione” legata solo ai sensi e a risposte prettamente mentali, può permettere all’individuo di entrare in contatto con un ricco mondo onirico ed immaginativo in grado di traghettarlo in un viaggio di conoscenza, dove incontrare personaggi e figure simboliche, che possano fornirgli la motivazione di ciò che lo affligge nella vita ordinaria, permettendogli di contattare lo straordinario che c’è dentro di lui, il soprannaturale, il trascendentale, la sua spiritualità. Un vero e proprio “balzo di fede”, dove il termine “fede” non è certo collegato a questa o quella confessione religiosa, non è solo un credo dogmatico in cui riconoscersi e potersi identificare, ma piuttosto una filosofia di vita che permetta all’individuo di rintracciare in se stesso il senso superiore della sua esistenza, quello spirituale, in sinergia perfetta non solo col proprio destino, ma con quello dell’intero Creato; è un invito ad avere fiducia e a “guardare lontano”, mantenendo però il contatto col proprio “vicino”, col proprio centro interiore, il Sé junghiano, che è anche la totalità; solo così l’uomo scoprirà la sua religiosità, dal latino “religere” e cioè “riunire” gli opposti interni, i dualismi, i paradossi e le ambivalenze che coabitano nella sua natura, riuscendo a trovare quel punto d’incontro che gli permetterà di elaborare i contenuti rimossi ed appianare le sue tensioni, ma soprattutto di conoscere chi è, cosa vuole davvero il suo cuore e come fare per raggiungerlo. “Vocatus atque non vocatus deus aderit, cercato o no il dio verrà”, farà scrivere Jung sul frontone della sua casa. Una volta interrogato sul significato di questa citazione, Jung spiegherà in un’intervista: “Non è una dichiarazione di fede cristiana. Risale all’oracolo di Delfi e la parola dio va intesa come “domanda ultima”. Misi quell’iscrizione per ricordare ai miei pazienti e a me stesso che il timore di Dio è l’inizio della sapienza; tutti i fenomeni religiosi, che non siano meri rituali della Chiesa, sono strettamente intrecciati con le emozioni”. Lo Spirito è quindi il bisogno imprescindibile di ogni creatura di “voler credere” in se stessa e nella vita, prima che in qualcosa posto fuori di lei; è il riconoscimento non passivo ma collaborativo col fluire stesso della vita, che diventa così l’unica depositaria della Verità superiore. Leggiamo ancora Jung: “Il vecchio Saggio appare nei sogni come medico, mago, sacerdote, maestro, professore o persona comunque autorevole. L’archetipo dello Spirito in forma di uomo anziano o gnomo o animale si presenta sempre in una situazione in cui perspicacia, intelligenza, senno, decisione, pianificazione ecc. sarebbero necessari, ma non possono provenire dai propri mezzi. L’archetipo compensa questo stato di carenza con contenuti capaci di colmare la lacuna”. E’ per questo che l’attivazione dello Spirito va spesso di pari passo con il manifestarsi di tappe evolutive obbligate e momenti molto particolari dell’esistenza, spesso accompagnati da stati di confusione o di perdita di certezze o in quelle fasi di passaggio in cui “non si è più quello che si era, ma non si è ancora diventati quello che si sarà”: dall’infanzia all’adolescenza innanzitutto, dalla giovinezza alla maturità, nei momenti in cui si diventa madre o padre, nei momenti in cui c’è una scelta importante da fare, una malattia o una perdita da affrontare, fino allo stadio conclusivo della vecchiaia e del declino. Ma come tutti gli archetipi, anche quello dello Spirito ha un’ombra che può farsi altamente pericolosa e fuorviante; è quando l’archetipo si distorce e spinge l’individuo verso idee fisse, ostinazioni mentali, idealizzazioni ed illusorie visioni che indulgono in fantasie utopiche e senza senso; è quando lo fa smarrire nel deserto dell’intellettualismo, dell’Animus più negativo, dove vagherà in cerca di luce; lo Spirito diventa “Il Briccone” o “Il Mago folle” che lo inganna e lo induce a pensare che può contare sulla sua scaltrezza e potere della mente per perseguire scelte individualistiche e solo personali, oppure che lo illude a negare la realtà immanente per potersi rifugiare in un mondo irreale ed artefatto, il mondo delle ombre dell’Anima… dove non sarà costretto ad affrontare il complesso delle proprie paure, ma dove anche non avverrà nemmeno l’incontro con se stesso e con la propria essenza più vera. Solo la luce dello Spirito può spingere all’incontro con se stessi, può farci dubitare che possiamo essere molto diversi da quello che pensiamo, da come ci vediamo o vogliamo ci vedano gli altri, ma può anche farci comprendere che possiamo essere molto di più. Ma se è troppo forte la paura della verità su se stessi, se è troppo forte la sensazione di non essere all’altezza di questa “chiamata”, sarà la parte negativa dell’Anima e le sue seduzioni antiche a vincere sullo Spirito; e l’acqua spegnerà il fuoco e il fuoco farà terra bruciata; “la porta sulla vita” rimarrà chiusa e sarà come impantanarsi per antiche vie, un tornare indietro perché andare avanti presupporrebbe anche un atto di coraggio che non si è ancora tanto forti da poter fare.
La Grande Madre – La Sophia
Lo Spirito, che è presente indifferentemente nell’uomo e nella donna, non è solo rintracciabile nell’archetipo del “Vecchio Saggio”, del “Mago” o di altri personaggi spiccatamente maschili, lo si può infatti facilmente individuare anche nella sua forma femminile, presente tanto nell’uomo quanto nella donna: è l’archetipo della “Magna Mater”, la “Grande Madre”, la “Madre Terra”.
Anche quest’archetipo, così come quello dello Spirito ha due facce da illuminare; infatti, se nella sua forma luce, è riassuntivo della totalità del femminile e della sua capacità di esprimere una completa integrità; se è l’espressione più bella del senso materno e della capacità di nutrire, proteggere ed amare le proprie creature attraverso la compassione e l’accettazione incondizionata del loro essere; “amarle per come sono”, senza pretendere che diventino “altro”, il suo lato ombra è oscuro e terrificante, è quello che genera maggiore angoscia ed inquietudine, quello che sottrae tranquillità, anziché aggiungere sostegno e comprensione. E’ il “drago divorante” simbolo di un contenuto femminile avido e bramoso di trovare identità attraverso le conferme che arrivano dall’esterno, spesso da un ruolo, che viene usato per colmare non solo le proprie inadeguatezze, ma anche la mancanza di coraggio di offrirsi ad un’esperienza di vita partecipata e soprattutto personale. Infatti, tanto quanto lo Spirito può diventare visionario e velleitario nell’attimo in cui l’individuo si fa prendere da conclusioni arbitrarie e soggettive, altrettanto la “Grande Madre” si fa divorante e castrante di una individualità a cui viene impedito di esprimersi in autonomia, di scegliere cosa fare della propria via, quando solo lo scegliere in prima persona può insegnare a prendersi la responsabilità, nel bene e nel male, delle scelte fatte. Una volta invece che l’archetipo sia stato illuminato nelle sue parti ombra, una volta che si sia stato trasformato e “reso sacro” dal rispetto per l’altrui individualità; una volta che abbia incontrato l’altro e lo abbia rispettato come creatura di Dio; una volta che non venga più proiettato all’esterno, soprattutto da parte dell’uomo, delegando alle figure femminili un ruolo che le mortifica nella loro interezza, può mettere in luce l’aspetto più evoluto del femminile, quello della Madre dispensatrice di vita che, dopo aver generato a livello fisico, garantisce una nascita anche a livello psicologico alla sua creatura; è lei che permette allo Spirito di potersi manifestare, perché è lei stessa Spirito che fa elevare da una condizione solo materiale ad uno stadio mistico e trascendentale, è lei che può fornire all’individuo la risposta intuitiva e contemporaneamente saggia per scoprire la sua spiritualità.
E’ così che la donna e l’uomo, onorando da dentro la radice femminile che vibra in entrambi e quindi restando in contatto con la propria Anima, possono diventare “madri di se stessi”, senza aspettare o pretendere che arrivi qualcun altro da fuori, uomo o donna che sia, a farlo al posto loro. Una volta che si abbia la buona volontà e la disposizione coraggiosa dell’animo a quest’analisi, che si sia disposti ad accettarsi, perdonarsi e rassicurarsi in prima persona, ma anche migliorarsi in ciò che va cambiato perché non più in linea con la naturale tensione al Divino, la Grande Madre può trasformarsi in Sophia, l’archetipo della Saggezza e dello Spirito femminile, l’emblema dell’autotrasformazione, uno dei simboli più potenti che s’incontri nell’Arte alchemica. Erich Neumann in Die grosse Mutter (La Grande Madre) parla così di Sophia: "Nella parte femminile dell’inconscio che genera, nutre, protegge e trasforma, agisce una saggezza infinitamente superiore alla saggezza della coscienza diurna, che interviene nella vita degli uomini come origine di visione e simbolo, rito e legge, poesia e contemplazione della verità, liberatoria e orientativa, spontanea. Questa saggezza femminile-materna è una saggezza di amorevole simpatia, non una scienza astratta e incapace di interesse. Così come l’inconscio reagisce e risponde, così Sophia è viva, presente e vicina, una dea che ama ed è sempre accanto a noi, cui ci si può sempre rivolgere e che è pronta ad intervenire, non una dea che si mostra irraggiungibile, nella sua lontananza luminosa e solitaria. Perciò Sophia, come forza spirituale, è piena d’amore e salvifica, il suo cuore generoso porta contemporaneamente sapienza e nutrimento." La Sophia, prendendo vita dalla “Grande Madre”, proprio perché ingloba dentro di sé il materno, non rischia mai di diventare pura astrazione o farci perdere nei meandri di un sapere freddo ed interessato, né ci costringe dentro i confini di un Logos che si fa sterile e lontano, ma è presente e vicina, andando oltre il materno, è fonte di vera vita, è colei che conduce verso la liberazione e la piena espressione del Sé interiore.
E’ quindi un archetipo specifico dell’Anima cognitiva dell’uomo e della donna; una custode delle verità nascoste e dei principi universali, collegati ai valori etici e alla ricerca spirituale a cui aspira ogni creatura e che possono emergere ed essere affinati soltanto intraprendendo un viaggio, quello di ricerca verso il proprio Sé.
L’Immaginazione attiva
Jeffrey Raff, che è stato alunno di Jung a Zurigo, nel suo “Jung e l’immaginario alchemico”, attraverso l’elencazione dei vari emblemi alchemici, insiste sulla necessità di approfondire l’importanza del simbolo come strumento di riconnessione tra il razionale e l’irrazionale, tra il conscio e l’inconscio, tra Animus ed Anima, servendosi di quella che Jung chiamava “Immaginazione attiva”, una tecnica molto diversa da quella delle “libere associazioni” creata da Freud. Il metodo dell’Immaginazione attiva infatti, applicato al mondo onirico per esempio, punta su un dialogo immaginale tra l’Io ed i contenuti dell’inconscio, non rifiutando ciò che emerge come irrazionale, ma accogliendolo ed interagendo con lui. Assumendo una posizione attiva che permetterà di raggiungere un piano intermedio di confronto immaginale, non del tutto conscio né solo inconscio, si potranno anche visualizzare e dipanare i contenuti opposti che provocano tensione. Attraverso l’immaginazione attiva, alla quale si può accedere anche attraverso la meditazione e l’incontro con la propria interiorità, ci si può sintonizzare sull’ascolto di alcune parti inconsce che stentano ad entrare in contatto con la coscienza; si possono approfondire lati della propria natura collegati ai vari archetipi e la capacità di riconoscere quale attivare in quel momento dell’esperienza e quale mettere a tacere. Attraverso il confronto etico tra l’Io e l’inconscio, si può trascendere la tensione che si genera tra gli opposti (Funzione Trascendente) e permettere un ampliamento di coscienza che ricomponga i contrari in una sintesi completamente nuova. Solo attraverso la Funzione Trascendente, si può giungere ad una visione “alta” che permetta anche di operare una scelta che non sia collegata solo a valutazioni razionali o a schemi collettivi, che imprigionano la tensione innata verso l’individuazione. E’ molto bella a questo proposito la distinzione che Raff fa tra fantasia ed immaginazione attiva, così come leggiamo dal libro: “L’immaginazione, trascendendo l’Ego, è il mezzo col quale l’anima fa esperienza di Dio e partecipa dell’espressione creativa del Divino. La fantasia invece non trascende mai l’Ego; in quello che si fantastica (il raggiungimento di ricchezze o il successo nel lavoro, ecc.) non si contatta lo Spirito interiore, c’è solo la messa in scena di desideri dell’Ego, di un’immagine dopo l’altra per trastullarsi, divertirsi o anche spaventarsi: l’Ego è sempre la star dello spettacolo. Nell’esperienza immaginativa, invece, l’Ego incontra “l’Altro”, deve trascendere le proprie idee ed avventurarsi nell’ignoto. E’ per questo che, se la fantasia dà spesso luogo a delusione, inflazione e stagnazione, l’immaginazione dà vita ad intuizioni, a trasformazioni vere e proprie. Senza l’aiuto delle forze immaginative, non c’è alcun modo per arrivare al Sé”. Questo era anche il pensiero di Jacob Bohme, mistico del XVI secolo che, se pur non dedito all’alchimia, utilizzò la terminologia ed i simboli alchemici per chiarire meglio il suo pensiero. L’ “Immaginazione Divina”, così come lui definiva la Sophia, aveva un ruolo fondamentale nel suo pensiero, come simbolo guida per condurre alla redenzione e alla partecipazione col Divino. In questo emblema alchemico, l’Atalanta Fugiens di Michael Maier (1618), la Saggezza guida l’alchimista attraverso le orme sulla sabbia che lascia al suo passare; è un femminile ricco d’abbondanza e creatività, simboleggiato dai fiori e dai frutti che regge in mano, mentre l’alchimista la segue, sorreggendosi sul suo bastone, alla luce della sua lanterna. Si tratta quindi di una forza transpersonale, compassionevole e creativa, ma anche “principio ordinatore”, in astrologia si direbbe “di Terra”, perché strettamente collegato al riconoscimento dell’importanza da dare ai cicli della vita, il rispetto da dare alla natura, perché solo così per l’uomo ci può essere salvezza. E se nel mondo occidentale e nel mito giudaico cristiano il valore/archetipo di un femminile-Spirito si è perso perché si è voluto riconoscere nella Madonna solo un potenziale essenzialmente materno, di soccorso e rifugio nelle prove, nel mondo orientale la Sophia è viva e ben rappresentata dalla Tara Verde del buddismo tibetano (dal sanscrito: “colei che conduce sull’altra sponda”), che si impone come forze energetica primordiale della totalità del femminile, perchè simboleggia la forma più evoluta della tensione della trasformazione energetica verso l’unità, risolvendo il dualismo degli opposti, a tal punto che, come Prajnaparamita – Saggezza intuitiva e conoscenza perfetta – è ritenuta avere priorità persino sul Buddha stesso. “Benchè per sua natura Tara sia pacifica ed il suo viso, attraente come un loto sbocciato, esprima dolcezza e serenità, al fine di sottomettere e sconfiggere le forze del male assume un’espressione fiera, corrucciata ed accigliata per l’ira e lo sdegno contro le negatività. In realtà, le apparizioni pacifiche e furiose di una medesima divinità non sono che due aspetti di una sola ed identica realtà : pace e furore non si escludono a vicenda, ma sono debitori l’un dell’altro, perché se ci si aggrappasse solo alla bellezza e si escludesse il terrore dalla propria mente non si potrebbe pervenire alla non-dualità”. Secondo la filosofia orientale quindi, la dea è vista come artefice dell’illuminazione stessa, quando si diviene intuitivamente consci della Shunyata, la vacuità che ingloba e trascende i contrari, al punto che Tara si identifica col Nirvana stesso e la possibilità di estinguere la Samsara, il doloroso ciclo di nascite e rinascite cui, secondo gli orientali, è legato il destino terreno.
La Sophia nel cinema
Solo per fare un esempio, la personificazione di Sophia nel cinema si potrebbe trovare nel bellissimo film del 2003 “Ritorno a Cold Mountain”, di Antony Minghella, nella figura della vecchia eremita che il soldato Inman incontra nel suo viaggio di ritorno verso Cold Mountain, dove l’aspetta l’amata Ada, simbolo della sua Anima da ricontattare. E’ una vecchia saggia, che vive solitaria all’interno di un bosco, in un mondo selvaggio ma ospitale, e che accoglie senza timori Inman e lo soccorre, curandolo e conservandolo in vita con le sue erbe medicamentose, mentre riversa su di lui un grande senso materno che non la fa interrogare se sia un amico da aiutare o un potenziale nemico da cui difendersi; la vecchia saggia esprime contemporaneamente la compassione della Grande Madre per ogni creatura e la saggezza della Sophia, di colei che, come donna, “sa” della vita; infatti, dopo averlo curato e nutrito, lo mette in guardia sui possibili pericoli che potrebbe incontrare nel viaggio verso casa e gli infonde un coraggio nuovo, perché lo fa rientrare in contatto col suo coraggio, con la sua saggezza, col suo potere intuitivo, col suo credere in se stesso e quindi gli fornisce la soluzione giusta che lui non avrebbe potuto trovare in se stesso per superare quel momento di paura. Per concludere, penso che in questa frase dell’analista junghiano Aldo Carotenuto (1933-2005): “Incoerenza ed ambivalenza rappresentano la regola e non l’eccezione”, possa essere importante riflettere sulla naturalezza del manifestarsi nella psiche di sentimenti e bisogni contrastanti, da non rifiutare ma accogliere come strettamente collegati alla natura umana, alla dialettica tra spirito e materia, tra ragione e sentimento. Solo il riconoscimento di questa ambivalenza come molla evolutiva della propria crescita spirituale ed il successivo impegno al miglioramento di ciò che deve essere modificato, può essere giudicato “progresso” e cioè la possibilità di andare avanti sulla strada evolutiva ed accogliere il viaggio terreno come una Grazia di Dio che può rendere sacro il cammino di ogni creatura.
Francesca Piombo


9 gennaio 2012

- Roghi fatui





L’Occidente fu animato da ciò che gli storici di ogni cultura oggi definiscono, a seconda, “bisogno del mondo”, “brama dell’oro”, “brama delle spezie”; di pari passo una forza uguale e contraria – cerchez l’église! - ha costantemente e addirittura scientificamente ostacolato questa vitalità irresistibile e complessa, fatta di scienziati, inventori, filosofi e uomini di ingegno. La leggenda nera che vuole una Chiesa ignorante, superstiziosa e incapace di intuire le potenzialità del “nuovo”, non coglie nel segno: essa ha sempre compreso, prima e meglio degli altri, ogni proposta intellettualmente valida, sapendo di volta in volta occultarla al volgo. Talvolta commettendo omicidio, talvolta, semplicemente, tacendo. Applicava così il peggiore dei dispotismi: quello intelligente. Roghi fatui di Adriano Petta pone la questione del progresso europeo, avventuroso e tormentato, nei termini di un “giallo culturale”: una trama segreta unisce, attraverso cinque secoli, i Catari occitani, il filosofo Bacone, il cardinale Nicola Cusano, l’artigiano Gutenberg, l’astronomo Copernico, l’eretico Giordano Bruno e il padre della scienza Galileo. Alcuni manoscritti scampati ai roghi delle biblioteche e custoditi in gelide abbazie ne sono il filo rosso. Ma non solo: Petta ci mette di fronte all’impressionante coerenza indiziaria che lega tra loro una serie di omicidi illustri, storicamente documentati ma mai spiegati, dietro cui si staglia l’ombra della Chiesa di Roma.
Introduzione
Re, imperatori, principi, papi e vescovi per poter dominare i popoli hanno sistematicamente tenuto il Sapere ben lontano dalla massa, perché un uomo che non conosce la forza della Ragione e i segreti del mondo che lo circonda, potenzialmente è uno schiavo. Solo attraverso la conoscenza si può veramente essere liberi di valutare e di scegliere, e ci sono stati molti uomini che hanno studiato e indagato al fine di offrire al genere umano mezzi e strumenti di libertà. Questi uomini – inclusi alcuni preti, principi, papi, re e imperatori – che hanno promosso lo studio della filosofia e della scienza o che hanno dedicato la loro vita all’indagine e alla diffusione del Sapere, si sono trovati però a dover lottare tenacemente, e sono stati spesso costretti all’estremo sacrificio.
Per quasi due millenni si è dibattuto sulle origini del cosmo. Il dio del pensiero aristotelico – inteso come pensiero che pensa se stesso, come motore immobile, sostanza immutabile ed eterna che non crea ma è causa prima di ogni movimento – non era assolutamente identificabile con il dio cristiano, con colui che dal nulla crea l’intero universo e al centro vi pone l’uomo, plasmato a sua immagine e somiglianza. D’altra parte il concetto stesso di creazione, proprio delle religioni monoteistiche, era del tutto estraneo al mondo greco. Non era dunque possibile conciliare le due concezioni se non stravolgendo il senso stesso del pensiero aristotelico e identificando in quel “motore” l’immagine stessa del dio creatore.
Operazione questa che, in effetti, una certa Scolastica portò avanti. Quando il cristianesimo si affermò, a partire dal IV secolo, impose – quasi sempre con la violenza e il terrore – il suo credo, la sua visione del mondo. In seguito, dai primi decenni del 1600 fin quasi ai nostri giorni, i suoi sacerdoti e vescovi, anche quando erano perfettamente consapevoli del progredire della scienza – come nel caso delle nuove teorie sulla struttura del sistema solare –, continuarono sistematicamente a tradire il messaggio di verità e d’amore del Messia che aveva detto: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv., 14,6). I detentori del potere, infatti, hanno sempre agito per tener bloccata la mente degli uomini, per poterli così dominare e sfruttare più facilmente: liberare la scienza voleva infatti dire liberare l’uomo.
Roghi fatui vuol essere un excursus sullo scontro senza tregua tra chi si è nutrito della libertà di pensiero e chi invece ha sistematicamente tentato di impedire il progresso della scienza. Questo scontro ha portato successivamente alla supremazia scientifica del nord dell’Europa che si liberò della pesante zavorra dell’oscurantismo cattolico. Per scrivere questo libro ho scavato nella cenere dei roghi delle biblioteche e di tutti i martiri della ragione e della scienza, di tutti coloro che immolarono la loro vita per lasciare a noi quel patrimonio di verità scientifiche e filosofiche che oggi ci offre la possibilità di scegliere liberamente il nostro destino.

8 gennaio 2012

- LA MISSIONE DEL MASSONE



Uno dei più grandi filosofi, Emanuele Kant, ha lasciato scritto : “la legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me. In una mirabile sintesi egli ha espresso l’essenza di quell’imperativo categorico del dover essere che lo ha reso famoso.
E proprio al cielo esortava a rivolgere sempre il nostro sguardo l’altro filosofo Pitagora, forse il più grande che sia apparso su questa Terra.
In sostanza, questi formidabili pensatori hanno indicato agli uomini di buona volontà la necessità di uniformare il loro comportamento ai canoni dell’etica universale che dalla Natura, eterna maestra di infallibile saggezza, trae origine ed alimento.
Il termine etica fu infatti introdotto da Aristotele nel linguaggio filosofico ad indicare quella parte della filosofia che studia la condotta dell’uomo, i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte. Più tardi l’etica passò anche a fornire indicazioni su quali criteri e valori debbano essere rispettati da chi agisce.
In questo secondo aspetto il richiamo all’insegnamento della Natura, immutabile e perciò indiscutibile in ogni tempo e luogo, appare il più idoneo a fornire all’Uomo un perenne punto di riferimento specie nei momenti in cui valori ritenuti eterni vengono messi in discussione oppure quando ci si imbatte in morali diverse, le quali, come è noto, possono variare da un’epoca all’altra, da un’aggregazione di individui ad un’altra.
Possiamo allora rifarci all’insegnamento di Hegel che distingueva tra moralità ed eticità ritenendo la prima come indice dell’aspetto soggettivo della condotta (ad es. l’intenzione del soggetto, la sua posizione interiore), assegnando invece alla eticità il ruolo di indice dell’insieme dei valori morali effettivamente realizzati nella storia.
Sicchè la riflessione della filosofia sui problemi etici si sviluppa soprattutto nei momenti di crisi dell’eticità in senso Hegeliano, quando cioè la compattezza e continuità di un mondo di valori si incrina, le norme che parevano ovvie vengono messe in discussione mentre non funzionano più i criteri consueti di legittimazione, i principi riconosciuti per stabilire ciò che è bene e ciò che è male.
Ecco dunque presentarsi alle nostre coscienze l’imperativo categorico del dover essere in armonia con le leggi della Natura, prima tra tutte quella della sacralità della vita, bene inestimabile, che va favorita e garantita durante tutto l’arco dell’esistenza fisiologica di un individuo.
La Natura è impegnata ad assicurare la continuità della vita sul nostro pianeta, apprestando ogni tipo di protezione e di sviluppo sin dal primo momento della penetrazione del seme maschile nell’ovulo femminile ed è imperativo categorico dell’Uomo raccogliere tale messaggio per sublimarlo in un linguaggio di fratellanza, di Amore Universale che trascenda il presente per proiettarsi addirittura nel futuro.
Ci piace a questo punto ricordare uno tra i più profondi cultori degli insegnamenti della Natura da lui tramandati ai suoi discepoli attraverso i “Versi aurei” a lui attribuiti: in uno di essi Pitagora, il grande filosofo greco stabilitosi a Crotone ove diede vita alla famosa “Schola Italica” ammoniva: “Soprattutto abbi rispetto di te stesso”.
E’ questa un’intuizione che tocca nel profondo ciascun individuo rendendolo cosciente della propria dignità di essere umano creato dal soffio divino e, come tale, destinato ad una missione di pace che oltrepassa la vita terrena.
Ed è in questa ottica che si inquadra l’etica della responsabilità che abbraccia due aspetti, quella verso se stessi e quella verso gli altri.
Del nostro corpo e del nostro spirito dobbiamo essere rispettosi e intransigenti custodi perché depositari di quell’essenza divina che ci accomuna a tutti gli altri esseri umani.
Ma, al tempo stesso, e per gli stessi motivi, dobbiamo essere rispettosi e leali collaboratori dei nostri simili, al pari di noi impegnati nella ricerca del Vero, del Bello, del Buono a glorificazione dell’Essere Supremo da cui proveniamo ed al quale ritorneremo.
Una responsabilità dunque che – nella mia piena condivisione del pensiero di Jonas, ancor più esplicito di quello di Max Weber - ritengo debba estendersi a quel futuro che il nostro egoismo tende a confinare in una dimensione colpevolmente indistinta.
Dobbiamo tutti considerarci titolari di una missione esaltante, quella di vegliare con amorevole attenzione sulla società odierna per creare le condizioni perché i mali del nostro mondo vengano circoscritti ed eliminati, così da garantire ai posteri il godimento di un’esistenza più libera, più rispettosa della dignità umana, in una parola più felice.
Ma, se siffatta etica del dovere e della responsabilità dovrebbe essere patrimonio di tutti gli uomini di buona volontà proiettati verso una visione escatologica della vita, per un Massone che abbia interiorizzato e sofferto il dramma dell’Iniziazione il dovere e la responsabilità si pongono come il sostrato necessario ma appena sufficiente per l’adempimento della missione alla quale egli si è irreversibilmente votato.
Sarà a questo punto ineludibile una serie di interrogativi che raramente noi Massoni abbiamo il coraggio di affrontare e che, personalmente, dopo oltre mezzo secolo di appartenenza a questa straordinaria Istituzione, mi pongo con sempre maggiore e per certi versi angosciosa insistenza.
Nei drammatici anni della mia Gran Maestranza, contrassegnati da una strenua battaglia, alfine vittoriosa, contro pregiudizi, ignoranza, malafede mi è stato spesso chiesto: “Cosa è la Massoneria? Perché vi ha aderito? Cosa fate nelle Logge? Sono ancora oggi valide le motivazioni della Sua scelta di vita?”
E, prima ancora di aprire un dialogo con i miei interlocutori, ho interrogato senza indulgenza la mia coscienza per riceverne una risposta dal sapore non celebrativo o di maniera ma che corrispondesse al mio modo di essere Massone, agli insegnamenti acquisiti nel tempo ed ai tormenti che tuttora e, forse, fino al termine dei miei giorni, mi attanagliano.
Le vicende di cui, insieme a Voi tutti, sono stato protagonista mi hanno infatti portato a constatare che, per essere credibile bisogna credere: guai a rifugiarsi dietro paroloni, citazioni di rituali, pensieri o azioni di illustri Massoni. Era lo scrigno della nostra coscienza che andava spalancato con coraggio senza barare con noi stessi ed anche a rischio di dover incrociare sguardi di compatimento o di irrisione.
E la nostra battaglia è stata vinta perché siamo stati umili, non abbiamo mai presunto di insegnare qualcosa ad alcuno, ma siamo stati sempre aperti al dialogo con tutti alla ricerca di una Verità che poteva disvelarsi anche dall’intuizione del meno dotato dei Fratelli, di ciascuno dei quali abbiamo sempre rispettato la dignità e l’intelligenza.
Abbiamo spiegato che, così come il segreto massonico, tanto enfatizzato e criminalizzato, è una conquista ineffabile e incomunicabile della nostra ricerca iniziatica, così la Massoneria, al di là delle definizioni che ne danno i nostri testi sacri, è anch’essa ineffabile perché si sublima in quello che i francesi definiscono mirabilmente come état d’ésprit, una sorta di stato d’animo, di condizione dello spirito.
E quella condizione si acquisisce e si mantiene soltanto se si comprende il significato vero e più profondo della levigatura della pietra grezza: la scoperta della nostra anima nuda, dell’essere noi stessi emendati da ogni vizio, dell’essere coscienti della nostra autenticità e della nostra semplicità messe al servizio di una ricerca inesausta delle scaturigini del nostro essere, del suo proiettarsi nel futuro del pianeta Uomo dalle immense lande da esplorare sulla via del Bene universale.
E posso testimoniarVi che questo linguaggio semplice, ancorché implicante riflessioni profonde, è riuscito a farci considerare con maggiore rispetto e sotto la giusta luce: quella stessa Luce che, per uno straordinario effetto rifrattivo, si è riflessa benefica e consolante nel mio animo spronandolo in assoluta libertà a nuovi cimenti col mio Io, perpetuamente bisognoso di perfezionamento per poter aspirare al ricongiungimento con l’Essere Supremo.
Ecco spiegata l’essenza della Massoneria, dell’essere e del permanere Massone, perché consci della perennità del nostro messaggio iniziatico tradizionale che si pone ben al disopra di qualsiasi credo religioso o dottrina politica.
Nella mia lunga ultracinquantennale esperienza attraverso il variegato pianeta della Massoneria universale sono infatti giunto ad una conclusione che può sembrare solo in apparenza superficiale: la Massoneria, come Istituzione a carattere iniziatico che tende all’elevazione morale e spirituale dell’Uomo, non ha passato né futuro: ESSA E’.
Taluno potrebbe scandalizzarsi di fronte a simile affermazione così categorica quasi che la Massoneria possa essere paragonata a COLUI CHE E’.
Ma, a ben riflettere, dal momento in cui la Libera Muratoria operativa ha perduto le caratteristiche tipiche di una Corporazione di Maestri esperti nelle regole dell’arte del costruire per sublimare quelle regole, tramandate da bocca ad orecchio, in metodiche sempre più rigorose e formative, tali da condurre alla catarsi dell’adepto, reso cosciente dell’avvenuto abbandono della propria corporea vulnerabilità e della conquistata bellezza della Verità, la nostra Istituzione, al pari di tutte le Scuole iniziatiche alle quali si ricollega, si è venuta a fondare su principi anche inespressi e ineffabili, come, ad esempio, il c.d. “segreto massonico”, che non hanno tempo.
Essi si collocano in una sorta di Iperuranio, di categorie del pensiero che si rifanno a concetti astratti, e perciò universali, di Bellezza, Bontà, Verità, Tolleranza, Giustizia, Fratellanza, Uguaglianza, Libertà, peculiari al nostro essere tutti creature di quel soffio divino dal quale proveniamo ed al quale torneremo.
Lasciamo ai filosofi ipotizzare se quelle categorie di pensiero, le famose Idee Innate, esistano come entità a se stanti indipendentemente dall’Uomo: indubbiamente però la straordinaria creatura che popola questo pianeta, non appena ha l’uso di ragione, percepisce che tali Idee esistono o, almeno, debbono esistere, perché ad esse egli deve tendere per non rimanere prigioniero del buio freddo e angoscioso del nulla.
Le tre domande tradizionali: chi sono?, donde vengo?, dove vado? attanagliano la coscienza di ognuno di noi e tanto più penetranti e struggenti arrovellano la nostra coscienza quanto maggiore sia la nostra sensibilità, la nostra cultura, la nostra capacità di introspezione.
E, quando abbiamo la ventura di varcare come Iniziati la soglia di un Tempio massonico, la Sapienza contenuta in quei Rituali, così densi di significati esoterici, ci rivela poco per volta che quello e non diverso poteva essere il nostro approdo nel periglioso viaggio alla ricerca della Verità.
Ed abbiamo allora coscienza che soltanto la Massoneria, con la libertà assoluta da dogmi o integralismi da essa garantita e pretesa, può aiutarci a sciogliere gli enigmi che da sempre e per sempre urgono nel nostro intimo assetato di Luce.
Ecco perché la Massoneria non può soffrire paragoni con qualsiasi altra aggregazione umana e si colloca in una dimensione atemporale alla quale soltanto coloro che sono riconosciuti veri Illuminati possono accedere, pervasi da quel carismatico état d’ésprit cui facevo cenno e che li rende degni di porsi, come incrollabili punti di riferimento, alla guida di un’Umanità da salvare dai mali che da sempre la contaminano.
Ecco la missione del Massone nel senso più alto e ad un tempo più umile, se ne sappiamo cogliere l’essenza e la responsabilità.
L’immagine, tramandataci dalle Scritture, del primo uomo fatto di fango e vivificato dal soffio divino deve renderci coscienti della ineliminabile presenza, in misura diversa, in ciascuno di noi, dei cromosomi negativi e, perciò, della tendenza generale a divenire homo homini lupus ove non frenati dalle leggi e dall’autoeducazione.
L’eterna contrapposizione tra bene e male scandisce i vari periodi della storia dell’Umanità in un’alternanza positiva o negativa intrisa di eventi sublimi o abietti, ma non siamo finora – e forse non lo saremo mai – riusciti a trovare una formula per estirpare radicalmente il male dall’animo umano.
Vano e velleitario sarebbe allora il tentativo di chiunque intendesse attribuire alla Massoneria in quanto tale la capacità di risolvere i problemi dell’Umanità, poiché la trasformazione della nostra essenza è opera squisitamente individuale e ad essa potremo gradualmente avvicinarci soltanto macerando e purificando noi stessi giorno dopo giorno in un’ansia di sacro che unicamente il Lavoro esoterico compiuto nel Tempio di una Loggia sovrana può aiutarci a raggiungere per riversarne i frutti benefici nel mondo profano.
Ecco perché il Massone è chiamato ad una missione ben più alta ed impegnativa di quella cui tutti gli uomini di buona volontà si votano.
Ecco perché la scelta di vita che il profano compie chiedendo la Luce massonica deve essere seria e sofferta e giudicata sincera dai Fratelli presentatori e da quelli tegolatori ai quali spetta il delicatissimo compito di intravvedere se nel profano esista realmente quella pietra grezza da sgrossare, in difetto della quale vano e dannoso per l’intera Istituzione sarebbe ammettere chi sia destinato a rimanere informe materia giammai plasmabile.
La storia della Massoneria non solo italiana ma universale ci insegna che il fallimento della sua missione è fatalmente connesso, da un lato ad un malinteso e frettoloso proselitismo e dall’altro ad una cattiva scelta dei suoi reggitori ai vari livelli perché non eletti secundum lucem, come gli Antichi Doveri e la Tradizione impongono, ma con tecniche prettamente e pericolosamente profane non di rado idonee a privilegiare non veri Iniziati ma profani travestiti da Massoni.
Per la sopravvivenza stessa della Massoneria in un mondo così assetato di ideali, bisognoso di guide credibili perché incrollabilmente credenti, è dunque vitale che ciascuno di noi - specie gli Apprendisti ed i Compagni - rifletta responsabilmente sulle motivazioni che lo hanno spinto a chiedere la Luce massonica e su quelle che lo rendano cosciente della propria missione a servizio non del proprio Ego ma del proprio reale perfezionamento per porsi con umiltà al servizio dell’Umanità con linguaggio di Amore.
Nella mia ripetuta nel tempo esperienza di Maestro Venerabile, incomparabilmente più formativa e difficile di quella di Gran Maestro e, perciò, da me più intensamente vissuta, mi sono spesso chiesto se fossero sempre valide le spinte ideali che mi condussero a chiedere la Luce massonica e se esse corrispondessero ancora a quelle di coloro che mi hanno preceduto nella storia della Massoneria Universale.
Mi è allora venuto sotto gli occhi il testo del canto del tenore che, sulle arie sublimi create dal nostro divino Wolfgang Amadeus Mozart per la Eine kleine Freimaurerkantate, così canta la gioia:
“Per la prima volta, nobili Fratelli, ci accoglie questa nuova sede della saggezza e della virtù. Noi consacriamo questo luogo come santuario del nostro lavoro, dove si deve decifrare il grande segreto. Dolce è la sensazione del Massone in una giornata festosa come questa che salda di nuovo la catena della fratellanza più stretta; dolce il pensiero che l'Umanità ha trovato di nuovo un posto fra gli uomini; dolce il ricordo del luogo ove ogni cuore di Fratello decide quello che era, quello che è e quello che sarà, dove l'esempio lo istruisce, dove il vero amore fraterno ha cura di lui e dove la virtù più sacra, la prima, la regina delle virtù, la benevolenza regna nel suo splendore silenzioso.”
La forza della Tradizione continuerà a sorreggere questa insostituibile, perché unica, Istituzione della quale l’Umanità ha vitale bisogno per sopravvivere perché essa, ispirandosi all’insegnamento, perennemente valido, di tanti sapienti del passato, e, in particolare, del grande Pitagora che esortava ad una visione panoramica di tutti i problemi dell’Umanità, ha rappresentato, rappresenta e continuerà a rappresentare nel futuro quella malta preziosa che unirà sotto ogni latitudine tutti gli Uomini di buona volontà migliorandone la condizione ed elevandoli verso il cielo al quale, ancora una volta, Pitagora esortava a guardare almeno al termine della nostra giornata.
Se i Massoni di tutto il mondo sapranno offrirsi ai propri simili mondati di tutte le loro imperfezioni ed animati dal sacro fuoco dell’Amore universale come guida sicura, come veri e propri sacerdoti di un Ideale di purezza, di bontà, di lealtà, di reale fraternità, la salvezza del genere umano sarà assicurata ed il nostro mondo, attualmente sprofondato nella terribile era del Kali Yuga, potrà riconquistare la mitica Età dell’oro.
Ma dovremo volerlo fortissimamente con la stessa granitica volontà del Fratello Vittorio Alfieri, senza lasciarci distrarre da chimere di vantata potenza dispensate da abili imbonitori, dovendo il vero Iniziato avere sempre coscienza che l’autentica potenza è soltanto quella che si conquista giorno dopo giorno con l’autorevolezza, parola dalla radice latina di “augere” il cui significato di “aggiungere” impone una lenta ma costante opera di perfezionamento interiore che, col tempo, divenga percepibile da tutti fino a rappresentare dovunque ed in ogni tempo un sicuro punto di riferimento a presidio “della regina delle virtù, la benevolenza, che regna nel suo splendore silenzioso”. LA MASSONERIA E’.

Maggio 2005 E.’. V.’. VIRGILIO GAITO

6 gennaio 2012

- Quinta combinazione





Intorno al 600 a.C., un uomo di nome Talete di Mileto, inventò ciò che chiamiamo scienza”. Prima di Talete, gli studiosi, invece di cercare i principi celati dietro gli eventi insoliti che la natura poneva loro di fronte, ritenevano che la natura operasse in seguito alle vicende fantastiche di personaggi ultraterreni, gli Dei.In particolare, Talete introdusse l’astrazione in geometria, ossia in quella disciplina che fino ad allora era stata studiata per misurare (metrein) la terra (geo) ed in cui le figure erano oggetti particolari, come recinti o campi. Egli invece concepì la geometria come un’attività puramente speculativa, cosicché analizzando le regole pratiche e le formule empiriche tramandate da Egizi e Babilonesi, vi scoprì un ordine, ossia notò che alcuni fatti geometrici erano deducibili a partire da altri. Le teorie scientifiche di Talete diedero l’avvio allo studio, da parte degli antichi greci, della matematica come chiave di lettura della natura, cosicché, già nel V secolo a.C., i matematici avevano elaborato lunghe serie di teoremi geometrici in cui ogni teorema veniva dedotto, in modo non formale, da quelli precedenti. La prima costruzione dei cinque poliedri è dovuta, quasi sicuramente alla scuola Pitagorica. Lo storico Proclo (410 - 485 d.C) nel suo Commento al primo libro degli Elementi di Euclide, meglio conosciuto come Riassunto, osserva che "Pitagora trasformò questo studio in una forma di insegnamento liberale, investigando dall'alto i suoi principi, e, indagando i teoremi astrattamente e intellettualmente, egli scoprì il fatto degli irrazionali e la costruzione delle figure cosmiche (i poliedri regolari)." E’ nel dialogo di Platone che si trova la prima descrizione giunta sino a noi dei cinque solidi regolari, noti per questo motivo anche con il nome di solidi Platonici. Dal punto di vista storico sembra che solo tre dei cinque solidi regolari siano dovuti a Pitagora e alla sua scuola (VI sec. a.C.); sarebbe stato il matematico Teeteto, contemporaneo di Platone (IV sec. a.C.), a scoprire gli altri due, probabilmente l'ottaedro e l'icosaedro. Inoltre sembra che Teeteto sia stato il primo a scrivere un trattato sistematico sui cinque solidi regolari, ma l'opera è comunque andata persa. Una delle prime opere in nostro possesso in cui, oltre a molte altre nozio¬ni di matematica, si discorre sui cinque poliedri regolari è il "Timeo" di Platone. In questo dialogo il "demiurgo", il Dio di Platone, nella sua opera di generazione dell'universo, modella da uno "sostrato" visibile e in moto disordinato i quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco; e da questi tutte le altre cose.
Platone descrive quindi i cinque poliedri regolari e le loro proprietà; quindi li assume come forme dei quattro elementi. Quindi parlando del "tetragono equilatero" lo associa al fuoco perchè: "di tutte queste forme, quella che ha il minor numero di basi è necessariamente la più mobile per natura, perché è la più tagliente e in ogni sua parte la più acuta di tutte, ed è anche la più leggera". Platone associa poi l'ottaedro all'aria e l'icosaedro all'acqua. Va sottolineato da un lato quanto sia suggestiva l'associazione proposta da Platone, dall'altro il fatto che Platone vede un legame quasi necessario fra le forme geometriche "perfette" e la natura: "perciò conserviamo la verosimiglianza, attribuendo questa forma [il cubo] alla terra, e poi all'acqua la forma meno mobile delle altre, al fuoco la più mobile, e all'aria l'intermedia: e così il corpo più piccolo al fuoco, il più grande all'acqua, e l'intermedio all'aria, ed inoltre il più acuto al fuoco, il secondo per acutezza all'aria, il terzo all'acqua". Per quanto riguarda il quinto solido regolare, il dodecaedro, nell'Epinomide, sembra che Platone lo identifichi con il quinto elemento, l'etere. Infatti troviamo scritto: "com'è giusto, bisogna parlare anche di cinque corpi solidi, da cui si possono plasmare le più belle e le più perfette figure" e inoltre: "se cinque sono, dunque, i corpi, bisogna dire ch'essi sono il fuoco, l'acqua, e terza l'aria, quarta la terra, quinto l'etere, e che in questi cinque domìni si formano, numerosi e vari, i singoli esseri viventi". Nel Timeo invece, si nega che l'etere sia un elemento, perchè non è altro che la parte più pura dell'aria; Platone parla invece del dodecaedro in questi termini: "restava una quinta combinazione, e Dio se ne giovò per decorare l'universo".
Nella storia dei poliedri non si hanno nuovi risultati per lungo tempo; sino alla riscoperta della matematica greca ed in particolare degli Elementi di Euclide (323-285 a.C.) alla fine del Medio Evo. Lo sviluppo assiomatico degli Elementi di Euclide
Il nome di Euclide (circa 300 a.C.) è associato alla sua opera più famosa, gli Elementi, opera che, per la sua diffusione, sia nella lingua originale che in varie traduzioni, segue a ruota soltanto l’Antico e Nuovo Testamento e, forse, la Divina Commedia. L’opera è divisa in 13 libri e i Libri XI, XII e XIII riguardano proposizioni di geometria solida; in particolare l’ultimo libro è dedicato interamente alle proprietà dei cinque poliedri regolari e termina con una proposizione (Prop.18) in cui si dimostra che non vi possono essere poliedri regolari oltre questi cinque. Quasi 1900 anni più tardi l’astronomo Keplero rimase talmente colpito da questa circostanza che costruì tutta una cosmologia su di essi, ritenendo che tali poliedri avessero “ispirato” il Creatore per la costruzione dell’universo. L'importanza che Platone dava alla Geometria e alle scienze esatte è sintetizzata dalla scritta che campeggiava all’ingresso della sua Scuola " Nessuno digiuno di Geometria varchi queste porte". Lo stesso Platone , nel Timeo, dice a proposito dei poliedri regolari o platonici, "non accorderemo a nessuno che vi siano corpi visibili più belli di questi". E' abbastanza naturale che, nel Rinascimento, in piena riscoperta della filosofia platonica questi poliedri abbiano goduto di grande popolarità presso gli artisti dell’epoca, tanto è vero che da quel momento risulta difficile distinguere la storia artistica e quella scientifica dei poliedri. I più importanti libri rinascimentali sulla teoria e pratica della prospettiva sono spesso delle sequenze di solidi nello spazio visti sotto diverse angolature. Dopo Euclide, Archimede si occupa dei poliedri, ma non di quelli strettamente regolari. Egli richiede che: • le facce siano dei poligoni regolari, anche diversi tra loro ( ad esempio: triangoli equilateri, quadrati).• le facce poligonali devono essere disposte nello stesso modo intorno ad un vertice.Si parla in tal caso di poliedri semiregolari o Archimedei. Anche per questi solidi c'è un numero limitato di possibilità: in tutto 13. Anche Apollonio si occupa di poliedri. Si attribuisce a lui una proprietà relativa al dodecaedro e all'icosaedro inscritti nella stessa sfera, proprietà sfuggita ad Euclide. Dobbiamo anche tenere conto del fatto che non avevano la possibilità di scrivere le formule in modo così "compatto": infatti non era nata ancora l'algebra e tutto veniva raccontato in modo discorsivo, (come se si dovesse eseguire un tema). Nel II sec. d.C. in tutto il mondo greco-romano si accentuano gli atteggiamenti irrazionali, proliferano la magia, l'astrologia, e l'alchimia. Troviamo i poliedri regolari come simboli per gli elementi sotto i quali si può presentare la materia. Gli alchimisti parlano oltre che di terra (cubo), fuoco (tetraedro), acqua (icosaedro), aria (ottaedro) anche di Quintessenza (etere) simboleggiata da dodecaedro che trova così anch'esso una giusta collocazione.
Verso il III sec. dopo C. c'è una rinascita della matematica con gli studi di Pappo e di Diofanto. Pappo affronta il problema dei poliedri inscritti in una sfera in modo nuovo cioè attraverso la ricerca delle sezioni circolari. Alcuni autori contemporanei di Proclo scrivono un XV libro degli Elementi in cui compare il calcolo del numero dei vertici, degli spigoli e delle facce dei cinque solidi regolari. Nel XV° secolo con il Rinascimento, dopo un periodo di stallo, troviamo condizioni che favoriscono la ripresa degli studi in campo geometrico. L'arte si avvicina ad un metodo scientifico e usa come strumenti di osservazione la geometria, l'ottica, la teoria della luce e dei colori, l'anatomia e la fisiologia. (Leonardo è un esempio di questo modo di lavorare). Con la caduta dell'Impero Romano di Oriente, nel 1453 giungono in Italia molti studiosi bizantini portando con sé testi antichi. Nel 1505 viene pubblicata a Venezia una traduzione degli " Elementi " di Euclide e le " Coniche " di Apollonio. La vera molla per riprendere gli studi geometrici sono gli artisti attraverso la formulazione delle regole per la prospettiva centrale e della teoria delle ombre: studi che condurranno alla Geometria Proiettiva.
Furono soprattutto Piero della Francesca tra il 1482 e il 1492 nel suo De quinque Corporibus regolaribus e il suo allievo, il frate matematico ( e forse plagiatore) Luca Pacioli (1445-1514) nel suo De divina proportione a stendere le basi teoriche della prospettiva mentre si deve a Paolo Uccello (Mosaici di S.Marco a Venezia), a Leonardo , che probabilmente fornì l’iconografia per il trattato di Pacioli, ad Albrecht Dürer , oltre che allo stesso Piero, l’applicazione di quei principi nelle loro immortali creazioni artistiche. La regolarità e bellezza dei solidi platonici non lasciò insensibile neanche il grande astronomo e matematico Keplero (1571 - 1630), che , oltre a scoprire la nuova serie dei solidi stellati, come il dodecaedro che porta il suo nome e sulle cui facce è costruita una piramide regolare, propose un modello del sistema solare basato sui solidi platonici: benchè rivelatosi errato, questo modello è comunque "il risultato di complessi calcoli, ben dettagliato e provocante", secondo la descrizione che ne fornisce lo scrittore A. Koestler. Ritroviamo quindi i poliedri con Keplero che abbraccia la teoria eliocentrica e si impegna a rafforzarla. Secondo Keplero l'universo è ordinato secondo un piano matematico ed egli ricerca le leggi matematiche nei moti dei pianeti. Nell'opera giovanile "Misterium cosmograficum" Keplero afferma che Dio nel creare l'universo tenne presenti i cinque poliedri regolari egli perciò fissa , in accordo con le dimensioni di tali poliedri, il numero dei cieli, le loro proporzioni e le relazioni tra i loro movimenti.Keplero cerca di mettere in relazione il raggio dell'orbita intorno al sole di ciascun pianeta con lo spigolo di uno dei cinque poliedri regolari. Realizza così un modello di sistema solare eliocentrico molto particolare, in cui i pianeti descrivono orbite circolari e le sfere generate dalla rotazione di queste sono inscritte o circoscrivono i cinque solidi regolari. Inoltre Keplero riprende il significato che l'astrologia attribuisce a ciascun pianeta e lo mette in corrispondenza con le caratteristiche dei poliedri. Ad esempio, nel suo modello, tra l'icosaedro e l'ottaedro si trova Venere: questi due solidi sono i meno stabili e rappresentano bene, secondo Keplero, le caratteristiche della femminilità, instabilità e volubilità. ( Si può anche non essere d'accordo!) Mercurio veloce viene accostato all'ottaedro che ruota come una trottola intorno ad un suo asse.Più tardi Keplero si accorge che il suo modello non corrisponde ai risultati dell'osservazione ed è costretto ad abbandonare le sue ipotesi: che lezione per tanti nostri politici che perseguono la loro strada nonostante l'evidenza di errori alla base della loro teoria, e spesso le loro idee non sono poi neppure così "armoniose" come quelle del grande scienziato!In realtà calcolando le distanze dei pianeti dal sole d'accordo con il modello di Keplero, si può trovare che tali distanze differiscono da quelle reali con errori fino al 40%.Verso una nuova geometria.Lo studio della geometria classica prende in esame le proprietà metriche delle figure cioè le misure di angoli e di lati che restano invariate se la figura stessa viene sottoposta a movimenti rigidi cioè traslazioni, rotazioni e ribaltamenti. Sottoponendo le figure ad un diverso tipo di trasformazione si giunge ad una nuova geometria.E' quello che è accaduto a partire dal '500 con la teoria della prospettiva. Il problema di quali siano le proprietà geometriche della figura reale che si conservano passando alla sua immagine mediante proiezione, viene sollevato per la prima volta la Leon Battista Alberti. Ad esempio nella prospettiva due linee che nella realtà sono parallele vengono rappresentate in modo da incontrarsi in un punto, le lunghezze e gli angoli perciò si alterano. Nel '600 prendono avvio i primi studi di geometria proiettiva ad opera di Desargues e Pascal. Un concetto curioso ed importante nella geometria proiettiva è il principio di dualità.Consideriamo i due assiomi relativi al piano proiettivo:

1. Due punti distinti determinano una ed una sola retta.

2. Due rette distinte determinano uno ed un solo punto.

Ebbene, partendo dal primo assioma è possibile ottenere il secondo scambiando fra loro i termini punto e retta e viceversa. Questo accade per tutti i teoremi della geometria proiettiva e si dice che punto e retta sono elementi duali. Così due figure sono duali tra loro quando una è ottenibile dall'altra sostituendo ad ogni elemento l'elemento duale. Anche per la geometria proiettiva nello spazio vale il principio di dualità. Tale principio applicato ai poliedri fa corrispondere facce a vertici ed implica così che da ogni poliedro possiamo ottenere il suo poliedro duale scambiando fra di loro il numero delle facce con il numero dei vertici e lasciando inalterato il numero degli spigoli. I poliedri regolari non convessi sono quattro. Due di essi, i così detti poliedri di Keplero hanno come facce poligoni regolari stellati; altri due, i così detti poliedri di Poinsot, dal nome del matematico francese Louis Poinsot, (1777 - 1859): sono costruiti in modo che le facce possano interpenetrarsi.Sono poliedri di Keplero: Il piccolo dodecaedro stellato che ha come facce 12 pentagoni stellati, ha 12 vertici e 30 spigoli Il grande dodecaedro stellato che ha ancora come facce 12 pentagoni stellati, ha 20 vertici e 30 spigoli Sono poliedri di Poinsot il grande dodecaedro che ha 12 facce a forma di pentagoni regolari, ha 12 vertici e 30 spigoli; il grande icosaedro ha che ha 20 facce a forma di triangoli equilateri, ha 12 vertici e 30 spigoli Recentemente uno di essi, l’icosaedro troncato formato da esagoni e pentagoni è assurto a grande popolarità in campo scientifico per la scoperta di una molecola , il fullerene C60, terza forma allotropica del carbonio, costituito da 60 atomi di carbonio che formano esagoni e pentagoni uniti tra loro, con una struttura che ricorda un pallone da calcio.

3 gennaio 2012

- Il Percorso d'Amore



E allora che cosa vuol dire amore? Siamo ormai subissati da un abuso di tale sacra parola. Ma si dà il caso che l’uomo o la donna che dicono: “Io ti amo”, sottintendono, in genere, un ben più modesto “ti voglio per me, o per il mio piacere, o per la mia consolazione, appoggio, compagnia ecc.”.
Amore è confuso con bisogno di compagnia, con presenza, con desiderio carnale di fruizione dell’oggetto desiderato. E ciò innesta il circuito (notissimo nell’ascesi buddista) del desiderio, soddisfacimento del desiderio (piacere), assenza o perdita dell’oggetto desiderato (oppure ansia per la conservazione dell’oggetto), dolore (perdita dell’oggetto desiderato o dello stato di piacere). Torniamo, infatti, in braccio alla nota catena karmica desiderio-possesso-piacere-dolore che nulla ha a che vedere con l’Amore. Amore, per i pochi che lo hanno realmente conosciuto, è illimitatezza, totalità. E’ la Porta verso l’Eterno.
Non è possibile, pertanto, eliminare completamente i desideri, a meno di distruggere noi stessi. Ma è necessario che la coscienza abbia chiaro che il desiderio è un ponte, uno strumento, e che il piacere, connesso al soddisfacimento del desiderio, è anch’esso uno strumento fugace, un elemento transitorio e quindi, per la coscienza reintegrata, un elemento illusorio. Ma per il nostro percorso terreno viviamo e ci alimentiamo nel mondo delle forme; e il limitato mondo delle forme è fatto di desiderio. Il mondo del desiderio è il drago di ogni tradizione iniziatica. E’ la precipitazione dell’Eros nella moltiplicazione delle forme. Per tale ragione S. Giorgio trafigge il drago senza distruggerlo e la Vergine poggia i piedi sul crescente lunare ed il tallone sul serpente senza ucciderlo. Viaggiare sul desiderio senza esserne schiavi, domare il mondo delle passioni senza accanirsi contro le forme (come è invece accaduto ad alcuni pseudomistici cristiani). Fruire della forma orientati verso la sostanza. Questo è il cammino di coloro che sfidano il drago; dei praticanti la segreta Arte Regale e dei grandi mistici. Quindi colui che sa cosa vuol dire amare, difficilmente pronuncerà questa abusatissima parola. In realtà Amare è totale disidentificazione. Un’esplosione stellare. Cedere ogni difesa dell’ego. Morire a se stessi e vedere solo il bene dell’altro. E’ un atto terribile, eroico, tutt’altro che sdolcinato, che comporta, fra l’altro, la capacità di sapere cosa sia il bene dell’altro e nostro. E quando il nostro piacere, confuso per bene, rischia di prevaricare o invadere il bene dell’altro, vuol dire sapersi sacrificare. Al Kasciani, mistico sufi della scuola del grande Ibn’Arabi, parlando dell’amore dice: “Nascendo dalla contemplazione della bellezza, l’amore è riservato a che è bello e veggente. E’ raro che colui che contempla la bellezza nel mondo sensibile, si salvi dalla tentazione, perché la natura e la concupiscenza finiscono per prevalere su di lui, togliendogli l’amore vero. Questa forma di contemplazione riesce solo a pochissime persone, dalle anime pure e dai cuori mondi, in cui è spento il fuoco della concupiscenza”. E poi aggiunge:
L’amore e l’essere amato sono due aspetti dell’Amore che sussiste in se stesso e in cui soltanto amante e amato possono congiungersi. Perché quando l’amore, che è un attributo essenziale dell’amante diventa amato, si realizza l’unione e vien tolto il contrasto fra i due aspetti, con l’estinguersi dell’amante nell’amore dell’amato. A ciò allude il detto dei vecchi mistici che l’amante e l’amato e l’amore sono una cosa sola.” Tali parole che non necessitano di alcun commento, ricordano il grande tributo che la gnosi medievale e rinascimentale deve alla mistica sufi. La Rosa di Al Ghazali e quella di Dante e dei Fedeli d’Amore hanno lo stesso profumo! Per ciò chi ama davvero, non fa merce di scambio del suo amore. La caduta d’ogni difesa comporta rendersi permeabili ad ogni incontro. Per questo chi ama realmente è facilmente vulnerabile ma, pur se ferito, non cesserà d’amare anche chi ricambia con aridità o malanimo un dono preziosissimo. Ma colui che davvero sa amare in tal modo (e questo è difficilissimo da comprendere e quasi impossibile da mettere in pratica) sa amare tutti gli uomini e tutte le cose, nello stesso modo. E chi è in grado di far ciò è ad un elevato grado di realizzazione anche se sarà difficile poterlo riconoscere. Perché chi ama realmente è umile e non fa mostra di sé.
C.Lanzi

- Nicola Cusano



Se c’è la natura è implicito che ci sia Dio, che è la possibilità di tutto ciò che è. Tutto quello che vediamo deriva da Dio, lo implica ed è un suo effetto.
La vita e le opere
Niccolò da Cusa, o Nicola Cusano, dal latino Nicolaus Cusanus, dal tedesco Krebs von Cues, è nato a Cusa presso Treviri nella Mosella nel 1401 e morto a Livorno nel 1464. Fu educato a Deventer, alla scuola dei Fratelli della Vita Comune. Studiò ad Heidelberg, a Padova, a Colonia e divenne nel 1426 segretario del Cardinale Giordano Orsini. Fu ordinato sacerdote e nel 1432 partecipò al concilio di Basilea dove si schierò a favore della tesi della supremazia papale. Nel 1437 fu inviato dal papa a Costantinopoli; qui riuscì a convincere l’imperatore Giovanni VIII Paleologo a partecipare al concilio di Ferrara. Nel 1448 fu ordinato Cardinale e Vescovo di Bressanone nel 1450. Fu chiamato a Roma da Pio II come suo vicario generale nel 1459, partecipò all’elaborazione di riforme amministrative oltre che ecclesiali. Nicola Cusano si occupò di teologia, di filosofia, di matematica, di cosmologia, di politica civile ed ecclesiastica. Numerose sono le sue opere
pubblicate: il “De concordantia catholica”(1433); il “De Pace fidei”(1453); il “De docta ignorantia”(1440); il “De coniecturis”(1440); il “De Beryllo”(1458); il “De Visione Dei”(1458);il “De Quadratura circuli”;il “De non aliud”(1462);il “De ludo globi”.
Il pensiero
L’ampia cultura di Cusano, in cui sono visibili i caratteri della nuova epoca, fu soprattutto orientata verso problemi filosofici e teologici. Egli si distaccò completamente dalle correnti aristoteliche e scolastiche, riprendendo temi dalla teologia mistica, e contribuì molto alla rinascita del platonismo o neoplatonismo che diverrà la filosofia umanistica per eccellenza. Nel quadro del neoplatonismo si interessò pure di matematica, intendendola quale scienza eminentemente speculativa, atta a fornire simboli per rappresentare il nucleo più profondo della realtà. Il punto di partenza del pensiero di Cusano è costituito da un netto rifiuto della via razionale per giungere a Dio. Ad essa egli contrappone una via che si ricollega esplicitamente alla grande tradizione del misticismo medievale ma con profonde modifiche: la via della Dotta Ignoranza. Secondo Cusano la conoscenza sta nella “proporzione” tra l’ignoto e il noto; ma tra l’infinito, Dio, e il finito non c’è proporzione. Dio sfugge pertanto alla conoscenza dell’uomo, cui non resta che riconoscere la propria ignoranza. Questo riconoscimento, che Cusano ricollega alla sapienza di Socrate, è la “Dotta Ignoranza”. Cusano ammette che la descrizione della conoscenza eterna può avvenire solo per simboli i quali possono essere forniti dalla matematica, la quale diventa così di grande ausilio per la teologia.
La cosmologia
Quando l’universo fisico e laico di Aristotele incontra il modello spirituale della religione dominante in Europa, nel corso di tutto il Medioevo non si parla più di cosmologie alternative, né di altri mondi. Il dibattito che aveva animato le Scuole di Atene e i salotti di Roma viene dimenticato. La centralità della Terra e l’unità dell’uomo che sono il progetto del Creato, comportano il modello tolemaico. Nicola Cusano nel XV secolo, respinge la cosmologia tolemaica, e propone l’immagine di un universo “interminato”, cioè senza limiti, privo di un involucro esterno. Egli non fa alcun riferimento a Lucrezio né ai classici greci e così il suo progetto dell’universo è una vera scoperta, è una nuova costruzione logica. Il Cusano spiega nel “De docta ignorantia” che l’universo interminato, benché non infinito, non può avere un centro; e che la Terra si muove, benché non appaia. La Terra oltre che stella mobilis è anche stella nobilis; come il Sole o come la Luna, irradia nello spazio la sua propria luce. La Terra, nella cosmologia di Nicola Cusano, perde la sua centralità e la sua unicità, perde la sua perfezione e diventa un luogo come gli altri. Nicola Cusano elabora un progetto di un universo “interminato” e senza gerarchie, popolato da una pluralità di mondi, tutti uguali anche se tutti differenti, e, quindi, ovunque abitato.
In questo progetto il Cusano ammette che non tutte le intelligenze sono uguali, ma vi è una grande diversità fra loro; per esempio gli abitanti del Sole e della Luna, sono più in alto degli uomini nella scala della perfezione. Essi, essendo meno materiali e meno pesanti, hanno più spiccate capacità intellettuali e una più profonda spiritualità. Cusano, tuttavia non disprezza gli abitanti della Terra, infatti egli afferma che anche se esistono sulle altre stelle abitanti di altro genere, con doti spirituali superiori, l’uomo sulla Terra non desidera altra natura, ma soltanto di essere perfetto nella propria. Nicola Cusano, ultimo grande filosofo del morente Medioevo, riapre il dibattito sui molti mondi, e anticipa molti degli argomenti utilizzati oggi a favore dell’esistenza di intelligenze extraterresti.
Il Cusano, come molti studiosi contemporanei, sostiene che queste civiltà aliene devono essere più progredite delle civiltà terrestri, anche se il metro con cui egli misura il grado di sviluppo è la spiritualità, mentre i contemporanei utilizzano il metro della Tecnologia. Nicola Cusano è una voce rara, ma non isolata nella cultura europea che si appresta ad uscire dal Medioevo. Ci sono altri che iniziano a maturare e ad ampliare le sue idee. Marcello Stellato Palingenio nel 1534 pubblica lo “Zodiacus Vitae” in cui ammette l’infinità dell’universo e afferma che, ovunque, in esso vi è vita e intelligenza; le singole stelle sono le città del cielo, colà si trovano Re e popoli. Il successo che queste nuove idee incontrano in tutta l’Europa dimostra che i tempi sono maturi per la prima vera spallata all’angusto universo geocentrico per la nascita di una nuova cultura, una cultura scientifica. Questa dirompente novità giunge da Norimberga nel 1543 con la pubblicazione del “De Rivolutionobus orbium coelestium” di Copernico; anche se il mondo di Copernico era finito.
Giunge nel 1584 con la pubblicazione di due opere “La cena de le ceneri” e “De l’infinito universo et mondi” di Giordano Bruno, nelle quali è presente una commistione di temi attinti al platonismo di Cusano e al materialismo di Lucrezio.
Conclusione
Nel XX secolo il problema dei molti mondi cambia radicalmente aspetto. Da un lato si scopre che l’universo è in espansione, dall’altro, gli astronomi scoprono che l’universo non è confinato nei limiti della nostra galassia, ma si estende in uno spazio interminato. In questo spazio sono ospitate centinaia di miliardi di galassie, ciascuna delle quali contiene a sua volta, centinaia di miliardi di stelle. I molti mondi dell’età classica greca e romana e i molti mondi di Nicola Cusano escono dal regno delle ipotesi razionali e diventano realtà. Anche il problema della vita intelligente fuori dalla Terra cambia natura: da problema logico e teologico, diventa un problema statistico, ma non solamente statistico.
Antonio Tropeano