26 aprile 2010

- IL MAGLIETTO E LO SCALPELLO


Con l’Iniziazione massonica si ritrova la “Libertà di pensiero” e con gli “Utensili” che ci verranno forniti durante il viaggio taglieremo “la nostra pietra” così come ciascuno di noi la intende. Proseguendo il nostro viaggio nel vasto mare della simbologia massonica, approdiamo sulle sponde di altri due simboli che saranno essenziali per svolgere il nostro lavoro: il maglietto e lo scalpello: strumenti di lavorazione per la “nostra pietra”. Il maglietto è il primo strumento col quale entriamo in contatto all’inizio del nostro percorso; durante la cerimonia di Iniziazione il Fratello Esperto, su indicazione del Maestro Venerabile, ci conduce alla pietra grezza sulla quale cominciamo a battere 3 colpi ritmici, ordinati e non tesi a frantumare. Possiamo affermare che il maglietto rappresenta la volontà spirituale che attualizza e regola la conoscenza sottintesa dal gesto. E’ strumento con cui si esprime il potere sulla materia; simboleggia l’energia e la potenza, ma anche la costanza del lavoro per raggiungere il risultato desiderato. Corrisponde alla presenza di spirito, ovvero alla capacità di agire rapidamente e appropriatamente sulla materia, al controllo di se stessi, ovvero a riuscire a dosare la forza del movimento, alla perseveranza, ovvero al non fermarsi malgrado la fatica, e al coraggio, ovvero alla determinazione di rompere schemi precostituiti. In breve diremo che: il Maglietto rappresenta la forza di volontà, la ferrea determinazione ad agire per il bene, secondo quanto dettato da Virtù e Coscienza. Ma la a forza col tempo non basta, il lavoro necessità di una maggiore precisione ed occorre ricorrere allo scalpello. Esso è simbolo di una conoscenza che distingue, cioè della facoltà di scegliere volontariamente in base a motivazioni serie, scaturite dalla ragione e oggettivamente verificabili. Se il lavoro di taglio rappresenta un aspetto negativo in riferimento alla caduta del superfluo, è al contempo positivo, in quanto sottraendo cerca di dare alla pietra la forma cubica che noi vediamo. Simbolo di determinazione, lo scalpello, è l’utensile del discernimento, virtù fondamentale in ogni ricerca in cui vi sia la volontà di pervenire a un’opera correttamente compiuta. In breve possiamo sostenere che : lo Scalpello prefigura il discernimento, cioè la capacità di distinguere le parti utili della pietra, essenziali alla costruzione, da quelle inutili. Non a caso, discernimento deriva dalla radice latina sec, da secere, tagliare (da cui dissecare, scelta, sacro, ecc.). L’Apprendista deve sapere trovare in sé il coraggio e la forza necessari a “scolpire” la pietra, ovvero sé medesimo. Alcune “asperità” potranno essere difficili o dolorose da togliere, specialmente quando il Massone dovrà rispondere del proprio lavoro al più severo dei giudici: se stesso. La combinazione forza di volontà e capacità di discernimento produce il graduale perfezionamento dell’opera attraverso l’ interazione dei due strumenti. Così, se il Maglietto esprime la volontà di agire, lo Scalpello simboleggia la conoscenza e la scelta di ciò che deve esser fatto, di contro a ciò che deve essere evitato. Se la Squadra e il Compasso ci ricordano l’indissolubile legame fra Materia e Spirito, fra Terra e Cielo, lo stretto legame fra macrocosmo e microcosmo, il Maglietto e lo Scalpello ci indicano come la combinazione fra l’azione e il pensiero sia la strada per il compimento dell’Opera. Se il Massone vive fra la Squadra e il Compasso, lavora con Maglietto e Scalpello.
Enzo Heffler

20 aprile 2010

- IL RAPPORTO FILOSOFIA - MAGIA


La magia si affaccia per la prima volta sul panorama filosofico con il neoplatonismo ed in particolare con Plotino . Fino ad allora era prevalsa la concezione aristotelica del sapere per il sapere , ossia del vedere nel sapere in quanto tale un valore in sè : d'altronde la filosofia era nata in Grecia proprio con questo scopo , l' indagare la realtà senza però operare su di essa , bensì raggiungendo un sapere solido e personale . La filosofia non serve a nulla e proprio per questo é il più nobile dei saperi diceva lo Stagirita . Ora il neoplatonismo vede la realtà come livelli legati da complesse relazioni e comincia a nascere l'idea , presupposto fondamentale della magia , che l' intero mondo sia un' armonia e che toccando la corda giusta si possano avere risultati su altre "aree" della realtà ; si pensa l'intera realtà come un insieme di segreti e di corrispondenze . D'altronde Plotino condivideva la dottrina stoica del legame di simpatia tra tutte le cose e ciò non può che condurre a porre l'ulteriore questione dell' efficacia delle operazioni magiche . Per quel che riguarda gli effetti magici sul corpo Plotino , conformemente del resto alle credenze diffuse nel suo tempo , pare disposto a riconoscere questa efficacia ; diversa é la questione dell' anima : solo quella irrazionale , in quanto collegata in maniera più stretta al corpo , può subire l'influsso della magia . Ma , d'altra parte , attribuendo un maggior potere all' anima razionale , propria dell' uomo , Plotino può individuare in essa lo strumento capace di reagire alle forze magiche ostili e dissolverle , rendendole del tutto inefficaci . Tuttavia va ricordato che uno scrittore latino originario dell' Africa , Apuleio , si era già occupato in qualche modo di magia : nel 158 a Sabrata , presso Tripoli , egli subisce un processo per magia . Apuleio nega che gli siano imputabili operazioni magiche , ma , attenzione , non esclude la possibilità della magia , anche ricordando che in persiano "mago" significa sacerdos . Nelle sue Metamorfosi le pratiche magiche sono rilevanti nello sviluppo della vicenda : come Lucio, il protagonista dell' opera trasformato in asino , Apuleio non era forse insensibile alla curiositas per queste operazioni . Quella di Apuleio rimane comunque una trattazione embrionale del concetto di magia , più che altro a livello letterario , ben lungi dall' esposizione neoplatonica . Ma la magia troverà un terreno di sviluppo fertilissimo nel Medioevo e , soprattutto , vedrà in Ruggero Bacone un suo strenuo difensore : egli condivide con il francescano Adam Marsh il senso del pericolo di un avvento dell' Anticristo , mago capace di approfittare delle discordie che tormentano il mondo cristiano e servirsi del potere della sapienza per trasformare ogni cosa in male . L'idea del sapere volto a mutare la realtà é fortissima in Ruggero Bacone : egli sostiene di aver individuato la "vera magia" , che opera in conformità alle operazioni della natura e della tecnica e può dare un contributo alla scienza . Il ricorso ad essa é essenziale per il sapiente nel suo rapporto con il mondo degli incolti , dei simplices : per diffondere il suo sapere ed educare il mondo dei semplici il vero sapiente deve assumere la veste esterna del mago , ricoprire di un velo i principi della scienza e della tecnica e trasmetterne soltanto i risultati , in modo che anche gli incolti possano usarli bene sotto la guida dei sapienti e della Chiesa , punto di riferimento essenziale della filosofia baconiana e medievale . Ma é nel Rinascimento , forse ancora più che nel medioevo , che prolifica l'arte magica e trova sostenitori entusiasti in pensatori quali Marsilio Ficino o Pico della Mirandola , il vivace ingegno dell' Accademia fiorentina , o Giordano Bruno , l' irrequieto nolano autore di un De magia . L'attenzione generale di cui gode la magia in questo periodo é da ricercare essenzialmente nello spirito degli umanisti , desiderosi di esaltare la libertà e la potenza dell' uomo in tutte le sue sfumature e , indubbiamente , l' idea di poter operare sulla natura non può che piacere . Ma se in Ficino la magia e l'astrologia vengono considerate non già manifestazioni di superstizione , ma tecniche pienamente legittime , rivolte o allo studio dell' ordine naturale ( l'astrologia ) o alla realizzazione del dominio dell' uomo sulla natura ( la magia ) , per Pico le cose stanno diversamente : egli apprezza con estremo entusiasmo le arti magiche , che consentono all' uomo di dominare la natura imponendosi su di essa , proprio perchè vi scorge una esaltazione del libero arbitrio umano , ma non può assolutamente accettare l' astrologia : l' idea che tutto sia prevedibile tramite la consultazione degli astri é un' evidente limitazione del libero arbitrio umano , che trova invece la sua massima esaltazione nella magia . Un discorso simile vale per Giordano Bruno , che arriva perfino a vedere la matematica come un qualcosa assai vicino alla magia : non a caso il processo che lo porterà a bruciare vivo sul rogo il 17 febbraio 1600 comincia con l' accusa da parte del nobile veneziano che lo ospitava e pare che egli lo abbia denunciato per dispetto , in quanto Bruno gli aveva promesso di insegnargli la magia - matematica , ma lui era insoddisfatto degli insegnamenti . Al di là di questa vicenda personale , é interessante notare l' interessamento di Bruno per la magia , ossia la capacità di trasformare la realtà : da un passo di Bruno emerge che cosa egli effettivamente intendesse per magia ; il passo dice : grande magia sarebbe quella di uno che fosse in grado di passare dall' unità alla molteplicità e dalla molteplicità all' unità .La magia é da lui intesa come capacità di cogliere i meccanismi secondo i quali l' unità si articola nella molteplicità , e la molteplicità é tutta "ricomposta" nell' unità . In un altro scritto il Nolano dà una definizione del mago , colui che esercita le arti magiche : magus significat sapientem cum virtute agendi . La magia , spesso circondata nei secoli precedenti di un' aura demoniaca , diventa nel Rinascimento la positiva scienza della trasformazione , segno concreto del dominio dell'uomo sugli elementi . Possiamo addurre esempi anche in campo letterario : pensiamo al celeberrimo poema dell' Ariosto , l' Orlando furioso : per tutto il poema aleggia un clima magico e il personaggio in cui meglio si può ravvisare la presenza del magico é Astolfo , l' alter ego dell' autore , l' intrepido cavaliere munito di un corno capace di atterrire i nemici col suo suono assordante , colui che sale sulla luna in groppa all' ippogrifo per recuperare la ragion perduta di Orlando . Ma va subito specificato un particolare : Astolfo , pur avvalendosi quasi esclusivamente di oggetti magici , muove sempre e solo verso fini razionali . Anche nel poema del Tasso , La Gerusalemme liberata , vi é in qualche misura presente la magia , sebbene in modo meno radicale e diffuso che nell' Ariosto : il valoroso Rinaldo viene incaricato , sul finale dell' opera , dal "pio" Goffredo di "disincantare" il bosco popolato da elfi , nani fate e quant' altro . Tuttavia é sulla Tempesta di Shakespeare che dobbiamo soffermare la nostra attenzione : considerata il momento conclusivo , il punto d' arrivo ed in un certo senso il sigillo della creazione artistica del poeta , la Tempesta , opera a cavallo tra il '500 e il '600 , ripropone la questione del magico . Nel bel mezzo dell' Oceano , su un' isola sperduta , dimorano Prospero e sua figlia Miranda , allontanati dal ducato di Milano per mano del fratello di Prospero , invidioso del potere concentrato nelle mani di Prospero stesso . Prospero , che é l'alter ego dell' autore alla pari di Astolfo per l' Ariosto , si destreggia con estrema abiltà tra gli oggetti magici e ha perfino come alleato un piccolo spiritello dell' aria , Ariele : servendosi del proprio mantello magico egli fa naufragare sull' isola stessa in cui dimora la nave con a bordo il perfido fratello , il suo equipaggio e l' alleato re di Napoli per poi potersi riconciliare con lui ; sempre con i suoi poteri magici egli fa in modo che il bel Ferdinando , figlio del re di Napoli , e sua figlia Miranda si innamorino e si sposino . L' Astolfo ariostesco e il Prospero shakespeariano , oltre al fatto di essere alter ego degli autori , presentano evidenti analogie : entrambi sono personaggi fittizi che danno spazio alla fervida fantasia dei poeti ed entrambi si servono delle arti magiche esclusivamente per muovere verso fini razionali . Tuttavia tra i due intercorre un' enorme differenza , talmente grande che ha portato alcuni a definire la Tempesta come vero e proprio testamento letterario di Shakespeare : mentre Astolfo tra gli strumenti magici si trova perfettamente a proprio agio , tanto da sembrare nato apposta per loro , e non si sognerebbe mai di separarsene , Prospero , al contrario , sul finire dell' opera rinnega la magia , una scienza che egli non esita a definire "rozza" , preferendo avvalersi delle sue forze , "poche" , come egli afferma , piuttosto che degli incantesimi e dei libri magici con i quali chiunque può dominare sugli altri e che , soprattutto , se mal usati possono rivelarsi funesti . Ed é proprio il netto rifiuto della magia che fa della Tempesta il vero testamento spirituale di Shakespeare e che lo inquadra pienamente nel clima culturale che si stava respirando nell' Europa e , soprattutto , nell' Inghilterra di inizio '600 . Infatti il XVII secolo segna il prevalere della matematica e la riscoperta della ragione , caduta un pò nell' oblìo nel medioevo quando aveva ceduto il passo alla mistica e alla fede . Certo nel 1600 , così come con qualsiasi altra scoperta , si finì per entusiasmarsi eccessivamente e in modo un pò ingenuo per la ragione , tanto da proclamarla onnipotente , senza sottoporla ad un più critico esame . senza porsi l'interrogativo "quanto può la mia ragione?" . E' evidente che , paradossalmente , questo acceso entusiasmo acritico per la ragione finisce per diventare irrazionale proprio perchè non ci si chiede neanche se essa abbia o meno dei limiti . Sarà poi nel 1700 , con l' avvento dell' illuminismo , che si sottoporrà la ragione ad un più critico esame , sebbene già Locke nel '600 avesse avuto l'intuizione : ecco allora che Kant istituirà un vero e proprio tribunale della ragione , dove la ragione é allo stesso tempo imputato e giudice : imputato nel senso che si indaga su quali siano i suoi limiti e il suo campo di applicabilità , giudice nel senso che é proprio lei che indaga e giudica se stessa ! Certo questa smisurata fiducia nella ragione umana , che sarà tipica di pensatori quali Cartesio , Spinoza e Hobbes , é ben lungi dall' investire il pensiero di Shakespeare , tuttavia egli ne risente quando avverte l'incompatibilità e la rozzezza della magia , un' arte che esula totalmente dal rigore della ragione umana . Non si può poi fare a meno di citare uno dei più acerrimi nemici della magia , un contemporaneo e compatriota di Shakespeare , Francesco Bacone ( da non confondere con il medievale Ruggero ) . Francesco Bacone , volendo rifondare il fatiscente edificio del sapere in modo razionale ed efficace , si ripropone di buttar giù l'antica costruzione che poggiava su fondamenta mistiche e magiche per riedificare il tutto su basi razionali e stabili , che segnano il passaggio di secolo (dal '500 al '600 ) . Ed egli ravvisa nella magia qualcosa di arazionale e incompatibile con il nuovo secolo , caratterizzato dall' imperare della ragione umana : ecco allora che occorre assolutamente staccarsi dalla magia , che si era pienamente affermata nel medioevo e ancora di più nel Rinascimento . Francesco Bacone accetta l'idea tipica della magia del sapere per potere , il sapere volto ad avere risvolti sulla realtà ed é altresì convinto che il sapere per sapere di stampo aristotelico non serva a nulla , tuttavia non può accettare che questo sapere sia estraneo alla ragione e sia riservato ad una stretta cerchia elitaria : il mago , lo stregone e così via . Il sapere deve essere un bene comune , dice Francesco Bacone , perchè comune a tutti gli uomini é la ragione , di cui tutti disponiamo nella stessa misura : se qualcuno fa più strada di altri é solo perchè la conduce con un metodo migliore ; é l'idea tipica del 1600 . Ecco allora che con Francesco Bacone il sapere diventa un bene comune a tutti gli uomini e i progressi non vengono effettuati da singoli dotati di eccezionali capacità , bensì sono frutto di un sistematico lavoro di gruppo . Il sapere non deve essere trasmesso in modo oscuro , come facevano i maghi , riprendendo una tendenza di matrice eraclitea , bensì deve essere comprensibile per tutti e va quindi espresso nella lingua nazionale . Con Francesco Bacone assistiamo ad un evento importantissimo : il passaggio da magia a scienza , dove a lavorare per produrre non é più il singolo , ma l' equipe . Rimane comunque fortemente radicata l'idea del sapere per potere , che poi caratterizzerà la rivoluzione industriale , della quale Francesco Bacone é considerato precursore teorico . E l'idea secondo la quale la magia sarebbe un sapere rozzo e primitivo é coglibile nella Tempesta di Shakespeare che , per molti versi , può essere vista come emblema del passaggio di secolo : nel momento in cui Prospero rinnega le arti magiche e si separa dai suoi strumenti e dai suoi sortilegi può essere visto in chiave simbolica il passaggio da 1500 a 1600 . D'altronde vi fu anche chi sostenne che Francesco Bacone e Shakespeare fossero la stessa persona , ipotesi poco accreditata dalla veridicità storica e più che altro consolidata dalla tradizione leggendaria . La critica baconiana alla magia trova la sua massima espressione nella Nuova Atlantide , rimasta incompiuta : Francesco Bacone e i suoi compagni di viaggio naufragano e approdano per caso sull' isola di Bensalem , al cui governo vi sono gli scienziati , e non i filosofi , che erano stati da Platone posti al vertice della sua società utopica . Si tratta di una vera e propria tecnocrazia , dove , tuttavia rimangono degli elementi magici e misteriosi , che Bacone lo sapesse o no : d'altronde egli risente molto della tradizione magica anche nel linguaggio di cui si serve : nella sua lotta contro i pregiudizi ( idola ) , parlerà di idola tribus e di idola specus , termini molto prossimi al linguaggio magico .
Diego Fusaro

15 aprile 2010

13 aprile 2010

- LA SQUADRA E IL COMPASSO.

In sintesi, possiamo sostenere che mentre la Squadra raffigura la rettitudine nell’azione, il Compasso simboleggia la misura della ricerca; proviamo però a cambiare il punto di osservazione, cercando di studiare la loro interazione. Nei lavori in Grado di Apprendista la Squadra copre le aste del Compasso perché in questo Grado non si può chiedere al neofita che sincerità e fiducia, conseguenze naturali della dirittura e della rettitudine che lo hanno fatto ammettere fra i Liberi Muratori. Alla Squadra, strumento passivo e ricettivo che ci consente di controllare il lavoro svolto sulla pietra, che da grezza sta diventando cubica, possiamo anche accomunare l'immagine della Materia; al Compasso, strumento attivo che sotto la guida del nostro pensiero ci consente di modificare la materia, possiamo invece collegare il concetto dello Spirito. Partendo da questa nuova rappresentazione dei due simboli, possiamo cercare di interpretare la posizione che hanno assunto in questo Grado nel quale la Materia prevale ancora sullo Spirito: siamo all’inizio del nostro cammino iniziatico e i rumori della profanità non ci hanno ancora abbandonato. Tenendo ben presente la loro interazione - perché muterà nel nostro percorso spirituale, esprimendo la nostra crescita, i nostri cambiamenti, i nostri pensieri - possiamo fare subito un passo avanti: riflettendo su Materia e Spirito, si può infatti sostenere che la Materia si associa alla Terra mentre lo Spirito si lega al Cielo. In questo modo i due simboli ci ricordano l’indissolubile legame fra Materia e Spirito, fra Terra e Cielo; lo stretto legame fra macrocosmo e microcosmo. Poiché nell'Officina ogni simbolo, ogni nostro movimento ed ogni nostra postura non sono frammenti del caos ma elementi determinati dalla “necessità” del Rito, abbiamo la forza di affermare che queste sono alcune delle ragioni per cui questi due simboli sono posti sopra il Libro della Legge Sacra. I due simboli associati ci esortano a rimanere nei limiti del ragionevole: essi si riferiscono infatti ai doveri del Libero Muratore verso il Mestiere e verso se stesso, ricordandogli che lo Spirito non esiste senza la Materia, né questa senza quello, ed invitandolo ad evitare tutti gli estremi, che possono far cadere nel materialismo o in una forma di eccessivo misticismo. Per questo motivo i due simboli sono dei Moniti, dei "promemoria" che ci ricordano con i loro messaggi le ragioni della nostra libera scelta, una scelta che ci impone un lavoro continuo, duro e faticoso per cercare di migliorarci. Il Libero Muratore vive, così, “fra la Squadra e il Compasso”.
Enzo Heffler

8 aprile 2010

- La Morte «Rito di Iniziazione»


L’uomo, non appena si affaccia sulla soglia della vita, inizia la sua partita a scacchi con la Morte. La Signora con la falce muove i suoi pezzi con grande maestria. Così incomincia l’atavica sfida che si combatte sulla scacchiera cosmica; un immenso insieme di figure geometriche: quadrati e losanghe, a colori alternati, bianco e nero, che rappresentano le forze contrarie che si confrontano nella lotta per la vita, sia nella costituzione della persona, sia dell’universo. L’esito della partita è scontato: l’uomo subirà scacco matto.
Tutti noi abbiamo dato vita da tempo a questa sfida. La Morte ci concede il privilegio della prima mossa. Il riverente terrore che le permettiamo di incuterci, ci vede irrimediabilmente perdenti ancor prima che la partita si concluda. La parola morte, la fonetica stessa di quel sostantivo, ci induce a prostrarci davanti a lei, ad arrenderci ancor prima che il suo alito ci abbia sfiorati. Il pensiero della morte ha il potere di annichilirci, di raggelarci. In quelle case dove la nera parca ha falciato il fieno, i suoni sembrano attutiti, soffocati. Tutto è sommesso. L’olfatto percepisce l’odore acre del suo passaggio. Ai bimbi è vietato giocare, sorridere. Gli adulti hanno gli occhi infossati dal dolore, arrossati dal pianto. Tutto è gelo, cambiano i sapori delle pietanze: al palato ricordano il profumo dei crisantemi, l’odore della terra fradicia appena smossa. Terra nera, che sa di dolciastro, ammucchiata ai lati di una fossa ancora vuota. Uno spazio angusto che presto sarà colmato. Anche i colori dei fiori più belli, in quei giorni, sembrano spenti. Il Sole non riscalda i cuori di coloro che la morte ha privato degli affetti più cari.
Scheletro e falce
Vita e Morte camminano fianco a fianco. Ci accompagnano, mano nella mano, sulla sottile linea del destino. Alla vita ci si affida con totale fiducia, certi della promessa del domani. Alla morte questa fiducia viene negata. Il suo «domani », il dopo, è incerto. Siamo portati a considerare la promessa di una esistenza ultraterrena, da viversi in una dimensione spirituale, troppo labile per affidarci serenamente alla morte. Il «fiume» che ci apprestiamo ad attraversare è troppo impetuoso, l’altra sponda è nascosta dalle brume, l’ignoto ci terrorizza. Ma se avessimo la certezza che su quella sponda potremo proseguire nel nostro cammino, la morte non ci farebbe più paura.
Nell’iconografia, la Morte, è stata rappresentata come figura implacabile, dall’aspetto diabolico, paralizzante. Nell’infanzia ebbi modo di farmene un’immagine ben connotata. L’avevo vista raffigurata in un affresco: uno scheletro che cavalcava con fierezza uno spettrale destriero nero. In una mano, la Morte brandiva la falce, nell’altra una clessidra. Lo sguardo, seppur spento nelle vuote occhiaie, aveva una strana espressione: la mascella, semiaperta, scopriva una dentatura tormentata, giallastra. La Morte sogghignava. Sullo sfondo, le torri in fiamme di un castello. Era passata seminando la disperazione. La stessa che provai quando si prese mio padre. La Morte era entrata nel mio immaginario: un vento gelido, un sussurro che udivo nelle notti insonni, quando mi nascondevo sotto le coltri per non udire scalpitare quel cavallo nero. Poi si manifestò ancora. Lo faceva continuamente. E il rito si ripeteva: la visita al defunto, le stesse lugubri atmosfere, gli stessi odori, lo stesso gelo che avvolgeva tutto e tutti. Con l’adolescenza quella tetra immagine andò sbiadendo. A quell’età la Morte non ci spaventava. Eppure non mancavano messi da falciare. Noi sognavamo la vita e il nostro domani era tinto a colori sgargianti. Quando la morte si manifestava, era un fatto che riguardava gli altri. A volte lo faceva in maniera plateale. Si abbatteva all’improvviso su uomini e cose. Ciò avveniva in paesi lontani. A volte la incrociavamo sulle strade, durante le nostre scorribande in automobile. Lei era già passata. Unica traccia: le lamiere contorte di una vettura accartocciata. Come in un messaggio subliminale, lei ci appariva per una frazione di secondo, forse a ricordarci che non si era certamente dimenticata di noi e che non ce lo dovevamo scordare. Ma la linfa che scorreva come fuoco nelle nostre giovani vene aveva il sopravvento. Quell’immagine si dissolveva. Ci si rifiutava di pensarci. Rifiutavamo il concetto stesso di morte, fine di tutte le cose. Ci sentivamo eterni, immuni, al riparo da quel possibile incontro. Ci apprestavamo a far parte di una società che pronunzia la parola morte sottovoce, evitando il più possibile di parlarne.
Ignorare la morte
La Morte ci cammina a fianco e facciamo finta di ignorarla. Giornali, radio, televisione ci rammentano quotidianamente questa sua presenza. Da tempo immemorabile ci si batte per sconfiggerla. E’ una battaglia che combattiamo con le armi che ci vengono messe a disposizione dalla scienza, dalle nuove tecnologie. Curiamo in maniera quasi maniacale la nostra salute. Siamo costantemente alla ricerca dell’elisir di lunga vita. Lo scopo è quello di rimandare il più tardi possibile l’incontro con la vecchia Signora, con l’intento di escluderlo in maniera definitiva, tanto ci terrorizza. E allora evitiamo di parlarne, partecipando solo marginalmente al lutto altrui. A volte, disertando le esequie, ci illudiamo di poter esorcizzare la morte. Meno se ne parla, meglio è. Un’improvvisa dipartita, un lutto che colpisce amici, conoscenti, è qualcosa che cerchiamo immediatamente di cancellare dalla nostra mente. In questa società non c’è posto per la «cultura della Morte». Dice bene il Bianconi: «La civiltà della fretta, della tecnologia avanzata, del computer, teme la Morte in maniera incredibile. Paura per questo momento che tutti vogliamo il più lontano possibile c’è sempre stata, da Adamo in poi. Ma adesso c’è il terrore. Una volta, nemmeno troppi decenni fa, il tempo scandiva meglio il ritmo delle stagioni e anche la Morte era un’immagine meno spettrale. Oggi, guai! È subito incubo. Si sta rapidamente allentando, dove pure non è già sparito del tutto, quel senso di compartecipazione, di solidarietà e condivisione che un tempo univa tutte le contrade colpite da un lutto, l’intero paese e anche una valle.»
Oggi si muore in maniera asettica. Il trapasso, sempre più spesso, avviene fuori dalle mura domestiche, a volte senza il conforto dei propri familiari. La morte è un’ospite che può renderci visita all’improvviso. Per questo le si chiede la più assoluta discrezione. A volte si muore senza che nessuno se ne accorga, nemmeno coloro che abitano alla porta accanto. Appena scoperto il decesso bisogna cancellarne ogni traccia, come se la morte fosse un fatto di cui vergognarsi, un esecrabile accadimento che bisogna nascondere ad ogni costo; un fatto innaturale.
Proiezione verso la Luce
La morte è innaturale solo se la si considera la fine assoluta di tutte le cose, di ciò che è positivo, vivo: un essere umano, un animale, una pianta, una relazione, un periodo, un’epoca. Noi consideriamo la morte come il simbolo distruttore dell’esistenza. Sforziamoci di pensarla invece come vettore capace di proiettarci in un’altra dimensione, dove, abbandonato l’involucro corporale, lo spirito possa librarsi libero e vivere un’esistenza forse migliore di quella che ci siamo lasciati alle spalle. Dovremmo considerare la vita terrena come il preludio di un grande viaggio, una lunga navigazione che ci permetterà di uscire dalle dimensioni cosmiche, alla ricerca dell’immortalità, isola in un mare di Luce.
La Morte è detta «la Regina del terrore». Così la definisce Dion Fortune nel suo saggio «Attraverso i cancelli della Morte». «In essa - scrive l’autrice - consiste la punizione suprema con cui la legge punisce chi viola le sue regole. Cos’è dunque che rende un processo naturale così terribile? È forse la paura del dolore? No, non è questo, perché la scienza dispone di sostanze in grado di alleviare le nostre sofferenze. La maggior parte dei moribondi è serena nel momento del trapasso e solo pochi lo affrontano lottando. Cosa temiamo dunque nella morte perché essa sia per noi causa di dolore e paura? In primo luogo temiamo l’Ignoto. Come seconda cosa paventiamo la separazione dalle persone che amiamo.»
Se la nostra civiltà considera ancora la morte come un tabù, nel passato, l’approccio con essa era di tutt’altra natura. A testimonianza di ciò, i testi che ci sono stati tramandati: il Libro dei morti egiziano e quello tibetano. Il primo precede di oltre tremila anni il Bardo Thödol. (Bardo significa: «post morte» o «stato intermedio dopo la morte». Thödol: «liberazione mediante lo studio, ascolto, meditazione».)
«Fra i popoli dell’antichità - scrive Gregorio Kolpaktchy - nessuno ha manifestato per il mistero della morte un interesse così appassionato e così esclusivo come il popolo egiziano. Assorto nella ricerca della soluzione di questo assillante quesito, fin dagli albori della sua civilizzazione, l’antico Egitto organizzò tutta la sua vita politica, sociale e religiosa in funzione di questo problema; possedendo una tradizione esoterica risalente ad epoca immemorabile e disponendo di numerosi e ben organizzati centri iniziatici, credette poter dominare la stessa morte».
Per l’antico egizio la morte non era l’ultima tappa, la fine del viaggio, ma bensì la continuazione dell’essere intelligente. La teogonia egizia ha fatto della morte il tema stesso della vita. Il Libro tibetano dei morti ha origine dalle comunità buddiste grazie all’esperienza di alcuni Lama che in maniera diversa dagli Yogi indiani, hanno saputo plasmare la loro mente portandola ad uno stato di coscienza atto a sfatare, cancellandole, tutte le illusioni del post morte. Questo testo prepara i vivi al dopo morte, razionalizzandone il concetto. I tibetani definiscono «stati» di post morte anche altri momenti dell’uomo: la concezione, il sogno, e lo stato di profonda meditazione. «Dimmi quali sono i tuoi pensieri e ti dirò quali mostri, luci o tenebre vedrai e incontrerai nel post morte». L’anima, dopo il passaggio, ritrova la somma di tutti i pensieri espressi durante la vita. «Secondo il Bardo Thödol, - scrive Guglielmo Marino, autore del volume «L’uomo muore perché è immortale» - ogni immagine che il defunto incontra nel suo post morte è frutto di allucinazione della sua stessa mente, cioè un inganno della propria mente. L’allucinazione consiste nel fatto che il defunto, pur essendo già morto, persiste a credersi ancora in vita, non riuscendo a rendersi conto del suo trapasso in un altra dimensione». «La morte - sostengono i mistici - ha un valore psicologico: libera le forze oscure, negative e regressive, dematerializza e libera le forze ascensionali dello spirito. Se la Morte è figlia della notte e sorella del sonno, possiede - come sua madre e suo fratello - il potere di rigenerare» Nell’Antico Egitto era profondamente radicata la convinzione che l’uomo, nascendo sulla Terra, moriva per il mondo dell’Aldilà. Le potenzialità sovrumane di cui era dotato, subivano una specie di battuta d’arresto. Per rigenerarsi era necessaria una nuova nascita, che poteva avvenire solo con la morte terrestre. Ciò equivaleva alla rinascita dello spirito, al ringiovanimento dell’Ego profondo. Il defunto diveniva allora un nuovo nato nella «piena Luce del Giorno». Per l’iniziato egiziano la morte fisica non era altro che la logica metamorfosi della coscienza. L’anima varcava la soglia e iniziava il cammino dell’evoluzione per penetrare nei Mondi dell’Aldilà. Nel mito di Osiride gli egiziani vedevano il pegno di una vita eterna, aldilà della morte. Credevano che l’uomo sarebbe vissuto eternamente nell’altro mondo se i suoi cari avessero fatto per il suo cadavere quello che gli dèi avevano fatto per il cadavere di Osiride.
Rito d’iniziazione
Noi, seppur inconsciamente, facciamo le stesse cose, con analoghi intenti. Ricomponiamo i nostri morti. Celebriamo le esequie con un riguardo particolare, tenendo sempre ben presenti le abitudini, i gusti, le preferenze di coloro che ci hanno lasciati. Da qualche parte, anche se celata negli angoli più profondi del nostro subcosciente, non c’è forse la speranza che tutto ciò serva a facilitare «il passaggio», a favorire la «metamorfosi» di quel corpo che stiamo per seppellire o affidare alle fiamme? E non ci siamo mai domandati, in quelle circostanze, se è mai possibile che tutto finisca li, sotto qualche metro di terra o in una manciata di cenere?
Per poterci rigenerare, dobbiamo compiere il «rito di iniziazione». Con la morte ci si libera di tutto ciò che è terreno, comprese le pene e le preoccupazioni che la vita terrena comporta. Abbandonato questo stato di «imperfezione», s’inizia un processo di rinnovamento, al quale possiamo accedere solo se iniziati. Dobbiamo permettere che la metamorfosi si compia. L’iniziazione consiste nella accettazione della morte come «rito di passaggio». Dobbiamo abbandonare l’involucro (vita profana) per accedere ad una dimensione totale di Luce; dobbiamo levarci la benda. Facciamo nostre le parole di Wirth: «Il profano deve morire per rinascere alla vita superiore.» Nel suo racconto «Rivelazione magnetica», E. A. Poe chiede al suo immaginario interlocutore, il signor Vankirk: «l’uomo potrà mai ripudiare il corpo?» E Vankirk risponde: «Vi sono due corpi: quello rudimentale e quello completo, corrispondenti alle due condizioni del bruco e della farfalla. Ciò che noi chiamiamo morte non è che la dolorosa metamorfosi. La nostra incarnazione presente è progressiva, preparatoria, temporanea. L’incarnazione futura è perfezionata, ultima, immortale. La vita ultima è lo scopo supremo.» Questo passaggio tratto dai «Racconti straordinari» dello scrittore statunitense, ci porta di riflesso al simbolismo della crisalide e della trasformazione. Ci torna quindi naturale accostarlo alla camera segreta, al gabinetto di riflessione, da dove s’inizia la metamorfosi che dal buio ci porta alla Luce. La crisalide non è solamente l’involucro (il corpo) protettore, ma bensì uno stato transitorio fra due momenti del divenire. Essa comporta la rinunzia del passato (la materia) per la conquista di uno nuovo stato (lo spirito).
Simbologie
La Morte ha i suoi emissari: sono i simboli e i colori che la rappresentano. La falce, che appare nelle mani dello scheletro: strumento inesorabile che ci rende tutti uguali. La clessidra, che ci ricorda l’inesorabile trascorrere del tempo e che soprattutto non è eterno. Il colore nero, per noi occidentali segno inequivocabile di lutti e sciagure. Nella XIII lama questi simboli e colori assumono tutt’altro aspetto e sono estremamente significativi, eloquenti: rappresentano la morte come passaggio obbligato per rinascere a nuova vita. In questo caso la morte va interpretata come «iniziatica ». Essa falcia il paesaggio di una realtà che è solo apparente, falsata. La lama della falce è rossa, il paesaggio è tinto di nero. Quindi la falce come forza vitale, la vittima il nulla. L’arcano XIII prepara alla vita reale. Il nero e il rosso. Il primo, capace di assorbire tutte le radiazioni, non restituisce la luce. Evoca il caos, il cielo notturno, le tenebre terrestri della notte, il male, la tristezza le angosce, le paure, l’incoscienza, il nulla (realtà solo apparente). Il rosso (la falce) è il colore del fuoco e del sangue e da molte civiltà e popoli è stato considerato il principio della vita. La morte iniziatica come prefigurazione della morte fisica, dev’essere intesa come rituale per accedere a una nuova vita. Iconograficamente, la Morte, è da sempre stata personificata da uno scheletro. In alchimia esso è il simbolo del nero, della decomposizione. Ma colore e degenerazione della materia sono il principio della trasmutazione. In questo caso lo scheletro non rappresenta più una morte statica, uno stato irreversibile, ma una morte che diventa strumento per una nuova vita. Una morte mistica, iniziatica che simbolizza la putrefazione della materia, passo obbligato per accedere alla rinascita. Quelle che vengono definite «religioni misteriche», testimoniano di questa speranza, la rinascita. Ed infatti, i riti di iniziazione ai grandi misteri (Elèusi, Cibele, Mitra) erano, senza dubbio, simbolo di resurrezione di un ritorno alla vita attesa dagli iniziati. «La Morte, così poetica perché mette capo alle cose immortali, così misteriosa a motivo del suo silenzio» (Collin de Plancy «Dizionario Infernale»). Nel vasto repertorio del simbolismo, non mancano di certo segni che ci inducono a considerare la Morte «poetica» e «iniziatrice» di una nuova esistenza. La spirale, ad esempio, che ritroviamo riprodotta in tutte le culture, è uno dei simboli indicanti il viaggio dell’anima dopo la morte. In America, in Asia e Polinesia, le civiltà primitive vedevano rappresentate nella spirale le varie fasi del viaggio che l’anima del defunto doveva compiere verso la destinazione finale. I Germani la rappresentavano circondante l’occhio di un cavallo attaccato al carro del Sole. Il significato non dovrebbe meravigliarci: la sorgente della Luce o se preferite - parafrasando E. A. Poe - «lo scopo supremo».
Speranza universale
Una costante, quella della Luce, che per noi Massoni dev’essere motivo di profonda riflessione. Se è vero che nella nostra simbologia la Luce ha un’importanza essenziale, proprio perché la identifichiamo con lo spirito, con l’intelletto, non dobbiamo dimenticarci che la Luce, per noi, significa anche rinascita, vita e salvezza.
San Bonaventura definiva la Luce la «forma sostanziale di ogni corpo». E S. Giovanni: «Egli era la vita e la vita era luce per gli uomini. Quella Luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.» Un canto attribuito ad Amenofi IV, sposo di Nefertiti, recita così: «Lodiamo il Signore Uno, padre della cosa Una e amiamo l’acqua che ci disseta e chiamiamo sorella la belva della notte, chiamiamo fratello il fuoco che distrugge e amica sorella Morte che ci riporta alla Luce del Signore padre della cosa Una.» Possiamo sopravvivere alla morte fisica? Questa è la domanda che probabilmente assilla l’uomo da sempre, fin dalla preistoria. Da quanto lasciano supporre i riti di quelle popolazioni primitive, possiamo dedurre che la vita dopo la morte doveva essere interpretata come una continuazione della vita terrena. Con le forme primitive di religione sono comparse le divinità dei morti «i guardiani dell’Aldilà», ai quali era necessario versare un tributo, affinché il passaggio si svolgesse senza tribolazioni, sempre che il trapassato si dimostrasse meritevole di tanto riguardo. Ci troviamo evidentemente di fronte ad una prova di giudizio prima di affrontare un’altra esistenza. E in questo caso i confronti con altre civiltà, con altre religioni si sprecano: come non constatare l’universalità di questa speranza di «rinascita», indipendentemente dal nostro credo, dalla nostra religione? Questa speranza si è sempre manifestata nella maggioranza degli esseri umani. La specie umana è portata a credere in un possibile aldilà, dando per scontato che alcuni aspetti della personalità sopravvivano alla morte del corpo. In Oriente vige la convinzione che il nocciolo della personalità sopravviva alla morte del corpo, per poi ritornare su questo mondo. Entrando in un altro corpo, il nucleo da vita ad un processo di rinascita, di reincarnazione; musulmani e cristiani credono a forme diverse di esistenza extraterrena.
L’immortalità
Contrariamente agli spiritualisti, i seguaci della filosofia materialistica negano che un qualunque aspetto della coscienza personale possa sopravvivere alla morte fisica. La loro tesi si basa sulla teoria che la mente sia soltanto una sorta di ombra dell’attività cerebrale. Secondo loro ogni attività mentale cesserebbe quando il cervello smette di esercitare la sua funzione. Ma quale cervello? Quello fisico-formale o quello eterico?
C’è un dialogo, tratto dalla teoria platonica dell’immortalità, in cui vengono descritti gli ultimi istanti della vita di Socrate. «In questo dialogo scaturisce l’ideale platonico di un uomo - scrive Russel - che è insieme saggio e buono al più alto grado, e che non ha alcuna paura della morte.» L’imperturbabilità di Socrate negli ultimi momenti della sua vita è indubbiamente legata alla sua fede nell’immortalità. E a proposito degli impedimenti del corpo, e delle conseguenze che a volte ne derivano, Socrate afferma: «Che cos’è la purificazione se non il separare l’anima dal corpo?»
Se l’uomo vivesse in simbiosi con la natura, se osservasse i miracoli quotidiani che essa sa produrre e se soprattutto si sentisse parte integrante di questo processo, i suoi dubbi sulla possibilità di una «rinascita» aldilà della morte fisica, potrebbero essere fugati.
Il seme che muore e si moltiplica, il suo simbolismo che prevarica i ritmi stessi della vegetazione, non sono forse un esempio dell’alternarsi dei ritmi di vita e di morte? I riti di iniziazione non hanno forse lo scopo di liberare l’anima da questa alternanza e di fissarla nella luce? Sofocle chiama tre volte beati coloro che in Elèusi hanno raggiunto e contemplato il télos: «Soltanto per loro - afferma - c’è vita nella morte.»
FULVIO REGAZZONI