30 settembre 2009

- Quadro di Loggia - Importanza e significato.


Alcuni si chiedono se il Quadro di Loggia, che ad un esame superficiale sembra ripetere elementi architettonici e decorativi già presenti nell'insieme strutturale del Tempio, e raffigurare strumenti ed oggetti parimenti già esistenti in esso, e la cui validità essi riconoscono unicamente in relazione ai tempi passati, quando i lavori muratori si svolgevano in locali non appositamente costruiti ed attrezzati allo scopo (locande, taverne, abitazioni private), non sia divenuto superfluo e quindi inutile nelle Officine appositamente consacrate, in quanto rappresentante una specie di duplicato dei simboli già esistenti nel Tempio stesso. In altri termini essi pensano che la presenza del Quadro sia necessaria solamente in mancanza di una Loggia regolare, in quanto il tracciato del Quadro stesso starebbe a ricordare il Tempio e quindi a simboleggiarlo, ma che se ne possa benissimo fare a meno ove si disponga di un Tempio costruito ed addobbato con tutti i crismi della regolarità. Purtroppo questa opinione è assai più diffusa di quanto ci si potrebbe augurare che non fosse, ed è quasi sempre coesistente all'idea, magari inconfessata, che anche il rituale non sia altro che un vuoto formalismo ed una mera perdita di tempo. L'origine di una tale errata opinione, è da ricercare nella ignoranza della principale legge che governa tutte le forme di simbolismo, siano esse sonore, visive o figurate, vale a dire che fra ciò che adombra e ciò che viene adombrato, deve esistere sempre un rapporto di subordinazione del primo rispetto al secondo, non un rapporto inverso, e neppure un rapporto di parità e di eguaglianza. In altre parole, il simbolo deve sempre appartenere ad un piano inferiore a quello cui appartiene la realtà simboleggiata, e ciò per il buon motivo che il simbolo deve essere accessibile ai nostri sensi, mentre la realtà adombrata non lo è: quindi il tracciato del Quadro, che appartiene all'ordine sensibile, non può simboleggiare il Tempio che appartiene del pari all'ordine sensibile, bensì dovrà adombrare realtà appartenenti a piani di ordine superiore a quello materiale. E la pluralità dei significati comunemente attribuita ad ogni simbolo, non deve trarre in inganno, generando confusione: ogni simbolo ha significati molteplici soprattutto perché può essere considerato su piani diversi, ma questa diversità di significati deve tuttavia sempre riflettere un rapporto di analogia. Possiamo quindi affermare che il Quadro di Loggia non riproduce, né ha mai inteso riprodurre gli elementi architettonici e decorativi già presenti nella struttura e nell'arredamento del Tempio: se mai, è vero il contrario, e cioè che per decorare ed ornare la Loggia si sono presi elementi che figuravano nel tracciato del Quadro e se ne sono fatti dei motivi ornamentali, così come è sempre avvenuto nelle arti tradizionali di tutti i tempi e di tutti i paesi, in quanto ogni «ornamento» ha originariamente un carattere simbolico, quantunque abbia potuto, per una specie di sopravvivenza, continuare ad essere usato in epoche nelle quali questo carattere aveva cessato di essere compreso. Ci si potrebbe allora chiedere, pur riconoscendo che il Quadro non sta a simboleggiare il Tempio, bensì alcune realtà di ordine sovrasensibile, se queste realtà non possano essere egualmente adombrate dai motivi strutturali della Loggia che riproducono il tracciato del Quadro, cosicché quest'ultimo potrebbe, in definitiva, risultare superfluo.
A questo proposito possono essere fatte diverse considerazioni, conducenti tutte alla medesima conclusione, vale a dire alla affermazione della necessità ed insostituibilità del Quadro di Loggia. Anzitutto, sempre nel caso dei simboli figurativi o visivi, possiamo osservare che esistono delle figure simboliche che vengono tracciate all'inizio di un rito o durante la sua fase preparatoria, e che vengono quindi cancellate dopo il suo compimento.
In questo procedimento occorre vedere non tanto una forma di precauzione presa contro la curiosità dei profani che successivamente potrebbero penetrare nel luogo ove si è svolto il rito, quanto e soprattutto una conseguenza dello stretto legame che unisce intimamente il simbolo al rito, per cui il primo non avrebbe alcun motivo valido per persistere visibilmente al di fuori del secondo. Questo è il caso che si verifica, oltre che per molti «yantras» - simboli figurati della tradizione induista - appunto per il Quadro di Loggia, il quale anticamente veniva tracciato e cancellato, e attualmente, dopo la sostituzione del tracciato con il tessuto ricamato o dipinto, viene prima disteso sul pavimento al centro della Loggia e poi tolto. È evidente che un simile procedimento non può essere adottato con gli elementi architettonici e decorativi del Tempio, elementi che hanno un carattere permanente o che, almeno, non si prestano ad essere facilmente cancellati di volta in volta. Da un punto di prospettiva che potrebbe essere considerato analogo a quello «magico cerimoniale» - benché nei lavori massonici ci si dovrebbe trovare su di un piano superiore a quello della magia, la quale opera esclusivamente nell'ambito delle forze «sottili», senza aspirare ad innestare su di esse le influenze spirituali possiamo considerare il Quadro di Loggia come un condensatore, un nodo, una concentrazione delle energie sottili emanate dai singoli componenti della catena iniziatica che opera nel Tempio, energie sottili che poste in sintonia ed entrate in risonanza, dovrebbero attirare, addirittura coartare l'influenza spirituale, la «shekina », la «baraka », per chiamarla con i termini propri di diverse Tradizioni. Le influenze spirituali possono essere coartate, analogamente alle influenze sottili, con tecniche precise, tecniche che costituiscono l'essenza dei riti. Nella magia cerimoniale l'operatore, prima di procedere alla «chiamata», alla «coagulazione», traccia il circolo magico che rappresenta la netta espressione della sua volontà e che costituisce un condensatore di energia sottile destinata a formare uno schermo di protezione contro alcune potenze o forze evocate che potrebbero essere a lui ostili . Il circolo magico viene poi cancellato alla fine della operazione, dopo che il mago ha effettuato il «rinvio», la «soluzione» delle forze evocate. Appunto questo tracciamento e questa cancellazione che si effettuano volta per volta, costituiscono la pura espressione della volontà operativa del mago, e danno significato e valore al circolo.
Un cerchio che fosse tracciato o costruito una volta per tutte, esaurirebbe in breve tempo la sua efficacia, si scaricherebbe, diverrebbe cioè un inutile simulacro privo di qualsiasi energia effettiva. Il Quadro di Loggia, che anticamente veniva tracciato e cancellato e che attualmente viene disteso e poi tolto in determinati momenti dei lavori massonici, rappresenta appunto, benché su di un piano superiore, qualcosa di simile a ciò che rappresenta il cerchio nella magia cerimoniale. Gli elementi architettonici e decorativi del Tempio, dato il loro carattere permanente, non potrebbero assolutamente svolgere questo ufficio. Nel Quadro confluiscono perciò le energie sottili di tutti i FF presenti ai lavori, una volta che queste energie siano state sintonizzate e poste in risonanza armonica: questo è il motivo per cui il Quadro non viene subito disteso al centro della Loggia, ma solamente ad ultimazione del rito di apertura, rito che ha appunto lo scopo di sintonizzare ed armonizzare le energie sottili dei singoli componenti la catena iniziatica, energie che all'inizio potrebbero anche essere in discordanza tra loro, contrasto che frusterebbe lo scopo prefisso, quello cioè di attirare le influenze sovrasensibili. Resterebbe ancora da accennare ad un altro aspetto del Quadro di Loggia, aspetto che si ricollega ad un'altra legge fondamentale che regge tutte le forme di simbolismo: il « rapporto di analogia inversa». Questa legge, in sostanza, vuole che «ciò che è primo e più grande nell'ordine della realtà principale, divenga in un certo senso - senza tuttavia essere minimamente alterato o modificato in sé stesso -- l'ultimo e il più piccolo sul piano della manifestazione».
L'esempio più caratteristico che può essere fatto di questo rapporto, è quello di rovesciamento di prospettiva che deve intervenire quando si passa, effettivamente e coscientemente, dall'ordine sensibile a quello sovrasensibile, dal piano fisico a quello metafisico. Sul piano materiale è perfettamente valida la prospettiva geometrica secondo la quale il centro corrisponde al punto più interiore ed è contenuto nel tutto (centro della circonferenza, centro della sfera).
Nell'ordine spirituale infatti, il Centro, l'Origine, il Principio, non è più contenuto nel tutto, ma avvolge e contiene il tutto.
Per dirla in termini massonici, cosa altro potrebbe essere il «punto geometrico - privo cioè di dimensioni - noto ai soli figli della Vedova»?
Secondo questo rapporto di analogia inversa, le realtà metafisiche adombrate dal Quadro di Loggia, appartenendo all'ordine spirituale, al metacosmo, contengono necessariamente in esse il cosmo, sebbene questo «contengono» non debba essere inteso in senso spaziale. Passando all'ordine materiale è la Loggia, simboleggiante il cosmo, che deve racchiudere nel suo centro - inteso questa volta nel senso spaziale - il Quadro, adombrante nel suo tracciato il metacosmo. Se fosse il Tempio, con i suoi elementi architettonici ed ornamentali, a simboleggiare le realtà metafisiche, questo rapporto di analogia inversa non sarebbe rispettato. Illustrare i diversi simboli contenuti nel Quadro di Loggia, non rientra nel compito che si è prefisso questo breve studio: piuttosto è doveroso aggiungere che con esso l'argomento non è affatto esaurito.
Poiché il simbolo è una finestra aperta sull'infinito, innumerevoli altri argomenti, tutti completantisi gli uni con gli altri, in virtù dei molteplici rapporti che collegano tra loro gli indefiniti gradi dell'esistenza, potrebbero essere addotti per dimostrare la necessità e la insostituibilità del Quadro di Loggia, di ciò che adombra il metacosmo nel cosmo.

GIORGIO ROCCHI

25 settembre 2009

- Tradizione pitagorica massonica. - Reghini -


“ I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica “ espongono con chiarezza esemplare il suo pensiero e rappresentano, nonostante la concisione, la più “alta” trattazione in materia scritta finora in Italia. L’inizio è folgorante e va dritto in medias res: «la Massoneria ha per fine il perfezionamento dell’uomo», del singolo uomo e non già quello dell’umanità nel suo insieme. È questa la “Grande Opera”, del tutto affine a quella che si propone l’Arte Regia ermetica. Secondo invece la concezione massonica profana e meno antica, il lavoro del perfezionamento va attuato sopra la collettività umana, è la umanità ossia la società che bisogna trasformare e perfezionare; e in questo modo all’ascesi spirituale del singolo si sostituisce la politica collettiva. I lavori massonici acquistano in tal modo uno scopo ed un carattere prevalentemente sociali, se non unicamente sociali; ed il fine vero e proprio della massoneria, cioè il perfezionamento dell’individuo, viene posto in seconda linea, se non addirittura trascurato, dimenticato ed ignorato. La prima alterazione appare in Francia. Il fermento degli spiriti in cotesto periodo, il movimento dell’Enciclopedia, si ripercuotono nella Massoneria che si diffonde largamente e rapidamente: ed accade così per la prima volta che l’interesse dell’Ordine si dirige e si concentra nelle questioni politiche e sociali. Affermare che la rivoluzione francese sia stata opera della Massoneria ci sembra per lo meno esagerato; è invece innegabile che la Massoneria subì in Francia, e sarebbe stato difficile che ciò non avvenisse, l’influenza del grande movimento profano che condusse alla rivoluzione e culminò poi nell’impero. La Massoneria francese divenne e rimase anche in seguito una massoneria colorata politicamente ed interessata nelle questioni politiche e sociali, e si formò quella che da taluni è considerata come la tradizione massonica, sebbene sia tutt’al più la tradizione massonica francese, ben distinta dall’antica tradizione. Questa deviazione e questa persuasione è la causa prima, sebbene non la sola, del contrasto che è poi sorto tra la massoneria anglosassone e la massoneria francese; anche in Italia essa è stata la sorgente dei dissensi massonici di questi ultimi cinquanta anni e della conseguente disunione e debolezza di fronte agli attacchi ed alla persecuzione fascista e gesuitica. L’influenza massonica francese si affermò, dopo la rivoluzione e durante l’impero, anche in Italia. La massoneria francese e quella italiana ebbero durante tutto lo scorso secolo intimi rapporti, ed assunsero insieme talora atteggiamento rivoluzionario, repubblicano ed anche materialista e positivista seguendo la voga filosofica del tempo». Il tema, indubbiamente centrale nella sua visione massonica, fu dal Reghini ripreso ed ampliato nel coevo scritto, sollecitatogli dal Parise pressoché in limine vitæ, sul rituale dell’Apprendista libero muratore: «Importa rilevare come nessun rituale massonico abbia mai detto che la massoneria ha per scopo il progresso universale; la massoneria esisteva molto prima che in Occidente si diffondesse la credenza nel progresso universale. Tutti i rituali massonici, antichi e moderni, italiani e stranieri, affermano concordemente, a cominciare dalle Costituzioni originali e fondamentali dell’Anderson (1723), che il fine della massoneria è il perfezionamento dell’uomo, e soltanto in tempi recenti (e più progrediti!) degli sconsigliati e dei profani hanno potuto assimilare e confondere questo fine con il concetto e la credenza nel progresso universale, identificazione assurda che rende ridicolo l’asserito scopo della massoneria . Col tempo e col progresso l’antica definizione dello scopo della massoneria ha subito per incomprensione delle alterazioni, ed i rituali moderni presentano delle varianti apparentemente lievi e sostanzialmente profonde, affermando che lo scopo della massoneria è il perfezionamento degli uomini (confuso con il perfezionamento del singolo), e poi che esso è il perfezionamento dell’umanità (dimenticando quello del singolo) ed in fine che esso è il perfezionamento della collettività umana ossia della società. Sono tutte definizioni cronologicamente posteriori, che risentono delle successive idee e finalità profane, sebbene verbalmente la differenza dall’antica definizione iniziatica sia lieve e passi inavvertita. Soltanto dimenticando il carattere iniziatico della massoneria è possibile disconoscere che il fine della massoneria consiste nella perfezione del singolo, da ottenersi mediante il rito, ossia detto in linguaggio massonico, nella squadratura della pietra grezza e nella sua trasmutazione in pietra cubica della maestria seguendo le regole dell’Arte». Alcuni decenni prima che Baylot pervenisse a formulare la sua teoria della “via sostituita” Reghini aveva già istituito, e con maggior precisione, il discrimine tra la massoneria iniziatica e tradizionale e le massonerie “moderniste” e pseudo-iniziatiche. Dopo questa premessa, e lasciate da banda una volta per tutte le concezioni profane della massoneria, l’esposizione reghiniana s’inoltrava nell’esame delle dottrine e dei simboli delle tradizioni pitagorica ed ermetica, senza alcuna concessione a fonti e ad interpretazioni diverse da quelle classiche. La disamina condotta in parallelo tra pitagorismo e massoneria evidenziava in modo limpido «il carattere pitagorico, puro ed arcaico di tre simboli fondamentali della massoneria: il Delta luminoso, la stella fiammeggiante e la Tavola tripartita». A sua volta, «il significato simbolico dei numeri sacri “noti ai soli liberi muratori” coincide con la filosofia pitagorica». Infine, altri elementi di carattere pitagorico potevano essere indicati nel mistero, nel silenzio e nella disciplina imposti al novizio, nel legame fraterno simboleggiato dal nastro ondulato. Tutto ciò induceva alla conclusione che «la massoneria con la sua iniziazione cerimoniale si presenta come una continuazione nei tempi moderni dei misteri classici, affidata ad una corporazione di mestiere specializzata nell’architettura sacra». Benché numerose questioni rimanessero (e tuttora siano) aperte - l’origine del simbolismo e dei rituali, i passaggi dell’eventuale trasmissione dai misteri antichi, l’epoca di acquisizione della leggenda di Hiram e delle tematiche legate al Tempio di Salomone, l’eventuale connessione degli aspetti giovannei con i movimenti ereticali del Medioevo - «il simbolismo numerico e geometrico della massoneria è quello pitagorico e siccome è esente da ogni colorazione cristiana può darsi che la fusione del simbolismo di mestiere e del simbolismo pitagorico risalga ad un periodo qualunque post-pitagorico, e certamente non si tratta di innovazione recente ma di caratteristica assai antica». Lo scopo dell’iniziazione era indicato nella palingenesi o trasformazione in senso spirituale dell’uomo, comune al percorso muratorio come a quello ermetico-alchemico ed a quello pitagorico: «Anche il pitagoreismo ha per scopo essenziale questa grande opera di edificazione spirituale che designa col termine di palingenesi. Anche nel pitagoreismo si incontra la difficoltà del mistero e del segreto, aggravata dalla scarsezza degli scritti e documenti pitagorici pervenuti sino a noi. La dottrina pitagorica della palingenesi afferma dunque che l’uomo vivente di vita corporea ha la possibilità di nascere alla vita spirituale prima della morte del corpo, afferma la possibilità di una seconda nascita ad una vita nuova senza attendere che sia terminata la vita umana». L’approccio di Reghini alla massoneria come organizzazione iniziatica tradizionale da rivitalizzare e da ricondurre alla sua vera natura attraverso il collegamento con una sapienza esoterica veicolata da espressioni élitarie della cultura occidentale risultava fin troppo ostico sia per i gruppi dirigenti massonici maturati nei primi due decenni del XX secolo, imbevuti di positivismo attinto per lo più di seconda e di terza mano, ed avvezzi, sulla scia dei loro predecessori in epoca risorgimentale e post-risorgimentale (mi riferisco alle grandi maestranze succedutesi dal 1860 e fino all’epoca di Lemmi e di Nathan), a considerare l’Ordine muratorio come un succedaneo di formazione partitica o interpartitica con aspirazioni egemonicopedagogiche nei confronti della società civile, sia per i gruppuscoli marginali fideisticamente incapsulati nelle trivialità della sub-cultura occultistica. Il rigoroso discorso riformatore – nel senso molto peculiare di una restaurazione o di un ritorno alle origini – di Reghini non poteva, quindi, trovar ricezione né presso i mediocri politicanti alla guida delle organizzazioni massoniche ormai avviate senza possibilità di ritorno su quella che Jean Baylot una trentina d’anni fa felicemente chiamò, come si è ricordato, “via sostituita” né tra i patetici sectatores dello pseudo-esoterismo occultistico allignanti al loro interno, ossia tra i due estremi tipologici entro i quali si modellava e si differenziava, pur con molteplici varianti, la configurazione del “massone medio impegnato”: figura in ogni caso superiore a quella, probabilmente più frequente e suscettibile d’ibridazione con la prima, del massone a vocazione soltanto affaristico-clientelare, solidaristico-assistenziale, dopolavoristica, conviviale ovvero “carrieristica”, e cioè avida di titoli altisonanti, di sciarpe colorate, di collari e di grembiuli carichi di orpelli da far valere in un vanitoso ed insulso cursus honorum, il più delle volte compensatorio rispetto ad una squallida od insignificante collocazione nella vita “profana” ed in ogni caso fine a se stesso. La cruda e radicale critica reghiniana a concezioni ed a pratiche siffatte svuotava praticamente d’ogni significato e d’ogni positiva valenza la massoneria così com’era o come appariva (per esempio, agli occhi di un Croce o di un Salvemini) e, più ancora, delegittimava in radice ed in modo assolutamente esplicito gerarchie associative fondate su valori diversi da quelli spirituali, assumendo così rispetto ad esse una funzione sostanzialmente eversiva. La critica di Reghini si estendeva anche ai sistemi rituali ad “alti gradi”, dei quali faceva rilevare l’origine recente ed il carattere superfetatorio: «Come è noto, negli ultimi due secoli sono sorti in Massoneria gli alti gradi ed i differenti riti che li praticano. Storicamente la massoneria esisteva prima che sorgessero i riti professanti gli alti gradi. Tutti i riti ad alti gradi, in Italia e fuori, spenti od ancora oggi viventi, poggiano sopra la base comune dei primi tre gradi di apprendista, compagno e maestro. La massoneria si riassume nei primi tre gradi, e dal punto di vista tradizionale del simbolismo iniziatico i rituali dei primi tre gradi presentano un interesse senza confronto superiore a quello presentato dai rituali di tutti gli alti gradi dei varii riti; il che non significa che questi siano sempre privi di ogni valore. Comunque per comprendere la Massoneria, ritualmente e tradizionalmente parlando, è superflua la considerazione dei rituali degli alti gradi e basta quella dei primi tre gradi massonici odierni».
Questa dichiarazione di semi-inutilità in senso iniziatico e tradizionale dei sistemi rituali ad alti gradi era tanto più significativa in quanto proveniente da un uomo che ne era tra i più profondi conoscitori e che era pervenuto ai vertici sia del Rito di Memphis e Misraim sia del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Non desta alcuna meraviglia, pertanto, che scarsissima fortuna incontrò la riproposizione della critica reghiniana una volta caduto il fascismo e ricostituitasi la massoneria, i cui dirigenti scelsero di ricalcare gli sperimentati percorsi su quella che agli occhi del Reghini poteva apparire soltanto come una “via sostituita”. Né può sorprendere, per conseguenza, che personaggi formatisi in prossimità di Reghini e sopravvissutigli per non pochi anni, quali Galliano Tavolacci e Giulio Parise, ben scarsamente poterono operare per assicurare continuità e sviluppo alle premesse da lui tracciate, nonostante che il Tavolacci in particolare fosse pervenuto a ricoprire la massima carica del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Entrambi, e con loro pochi personaggi meno noti, dovettero limitarsi a trasmettere all’interno di cerchie molto ristrette ed attraverso rapporti personalizzati – per dirla in termini cari a Reghini: «da fiamma a fiamma» - la visione di cui erano portatori, senza reale possibilità di incidere in modo significativo sulla massoneria come organizzazione relativamente di massa e sulla sua ormai acquisita fisionomia ideologica e pratica: fisionomia, dopo il 1945 comunque costretta a confrontarsi con un mondo e con una società profondamente mutati rispetto all’epoca prefascista.
La massoneria italiana “ufficiale”, dal canto suo, per i motivi fin qui considerati non dimostrò alcun interesse a riportare in luce un personaggio così scomodo, benché si trattasse, in definitiva, del più lucido ed agguerrito “intellettuale organico” che avesse avuto a disposizione, tra la folla di semplici “compagni di strada” – da Carducci a Bovio, da Pascoli a Quasimodo, da Antonio Labriola a Pettazzoni, per citare soltanto alcuni tra i nomi più significativi nel campo della cultura “profana” – che, per brevi o per lunghi periodi, pure ne avevano infoltito e nobilitato i ranghi ovvero, più di rado, avevano combattuto in suo nome questa o quella battaglia.
Un tentativo di indirizzare il Grande Oriente d’Italia diversamente, e secondo vedute almeno in parte affini a quelle di Reghini, fu attuato tra la fine degli anni ’50 ed i primi anni ’60, tra la brevissima gran maestranza di Giorgio Tron ed il primo triennio sotto la guida di Giordano Gamberini. Non per caso ne furono protagonisti, tra gli altri, alcuni discepoli di Galliano Tavolacci e di Giulio Parise. La morte prematura di Tron e la particolare deriva seguita da Gamberini nei due successivi trienni alla guida del Grande Oriente d’Italia vanificarono il suddetto tentativo, portando per contro alle note vicende della gestione di Lino Salvini ed a quelle successive e più recenti. Si trattò di un’azione di vertice, promossa dal concorso di alcuni ristrettissimi gruppi iniziatici, cui accennò brevemente alcuni anni fa, per la parte a lui nota, Augusto Comba in un suo saggio e della quale con tutta probabilità quella odierna è la prima esplicita menzione in una sede pubblica. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia…
NATALE MARIO DI LUCA

22 settembre 2009

- Pitagorismo - Arturo Reghini.


La memoria della figura di Arturo Reghini e la conoscenza della sua opera sono state per oltre mezzo secolo appannaggio di un ristrettissimo numero di persone che, in maniera quasi catacombale, le hanno mantenute vive a dispetto della cortina di silenzio stesa intorno a questo pensatore da parte della cultura ufficiale.
Le cause di tale silenzio sono da rinvenirsi non solo nella difficoltà stessa dell’opera reghiniana, ma, soprattutto, in una vera e propria censura messa in atto nei riguardi di un personaggio scomodo, portatore di tematiche ancora più scomode. Ha pesato poi, nel determinare l’oscuramento della figura di Reghini, il suo collocarsi sullo sfondo di eventi storici di inizio secolo che pochissimi avevano interesse a ricordare e a comprendere.
Negli ultimi anni, forse anche per effetto dei mutamenti in campo politico e sociale che hanno toccato il nostro Paese, certe barriere che impedivano di affrontare la trattazione di temi storici imbarazzanti e controversi in forma accessibile a un più vasto pubblico sembrano lentamente venir meno. Anche figura di Reghini ha beneficiato di questa tendenza: sono recentemente apparsi nuovi ed importanti studi che gettano luce sulla complessa personalità dell’autore e sulla sua opera, e un editorialista del “Corriere della Sera” come Geminello Alvi vi ha dedicato un articolo sul grande quotidiano nazionale.
Arturo Reghini fu sotto ogni aspetto un uomo controcorrente. Massone, si impegnò fino allo stremo nel tentativo di richiamare la massoneria italiana alle sue radici iniziatiche ed esoteriche, in un periodo in cui essa vedeva ancora i propri orizzonti teorici ristretti ed ingombrati dall’anacronistica adesione ideologica della maggior parte dei suoi appartenenti e dirigenti a versioni divulgative del positivismo filosofico tardo-ottocentesco. Il perdurante predominio al suo interno di riferimenti teorici così obsoleti e inadeguati impedì alla massoneria italiana del primo novecento di difendersi con efficacia dagli attacchi che dall’esterno le venivano portati, sul piano culturale, dall’allora dominante filosofia neoidealistica di Croce e Gentile e, sul piano politico, dai movimenti e dai partiti di massa che si richiamavano alle ideologie socialiste, comuniste, fasciste ed al riaffermantesi cattolicesimo politico.
Impregnato del mito tradizionale di Roma imperiale, che tanto contribuì a nutrire, anche attraverso la forte influenza che egli esercitò con alcune tematiche su Julius Evola, Arturo Reghini pagò a carissimo prezzo le illusioni che aveva inizialmente riposto nelle capacità rigenerative del fascismo e del suo capo nel campo politico e sociale, tanto da essere costretto dal regime fascista a un forzato isolamento, spesso tramutatosi in vera e propria persecuzione.
Dal punto di vista strettamente iniziatico ed esoterico, Reghini rilanciò, con forza e serietà, l’interpretazione delle forme iniziatiche massoniche come continuazione, in un quadro di riferimenti simbolici legato alle iniziazioni di mestiere, degli antichi misteri del mondo classico greco-romano. Egli arrivò a sostenere la trasmissione ininterrotta in Italia di un’antichissima sapienza pitagorica, che si sarebbe segretamente perpetuata dalla più remota antichità fino all’epoca contemporanea attraverso Virgilio, Dante ed alcune grandi figure del Rinascimento come Campanella.
La parte più interessante e profonda dei suoi studi, per molti versi ancora da scoprire e da approfondire, concerne il simbolismo matematico e geometrico di derivazione pitagorica, di cui Reghini, insieme al suo corrispondente René Guénon, fu il maggior interprete contemporaneo.
Guénon, che collaborò alle riviste reghiniane Atanòr e Ignis, riservò sempre un’attenzione particolare per le opere del Nostro, che spesso recensì in modo altamente elogiativo.
Dal canto suo Reghini tradusse in italiano e curò la pubblicazione del libro di Guénon “Il re del mondo”.
Questo convegno si propone di far conoscere la figura di Arturo Reghini ad un pubblico più vasto, e al contempo di dare nuovo e maggior impulso agli studi su questo grande ed attualissimo seguace contemporaneo di Pitagora.
Piero Vitellaro Zuccarello

18 settembre 2009

- Martinismo - Giustiniano Lebano.


Giustiniano nacque il 14 maggio del 1832 da Filippo Lebano e Maria Acampora, era uno dei cinque figli della coppia. All’inizio Giustiniano dovette fare i conti con le ristrettezze di una famiglia perseguitata politicamente. Studiò dal 1838 nella scuola comunale elementare di Pasquale Turiello in via Nilo e poi al Real liceo di “San Carlo alle Mortelle” presso piazza Carlo III conseguendo la maturità classica nel 1847. Continuò gli studi all’università Federico II, allora retta da Mario Giardini frequentando la facoltà di Lettere. Studiò inoltre privatamente giurisprudenza tra cui diritto canonico con Carlo Cucca, filosofia del diritto con Luigi Calmieri, diritto romano con Roberto Savarese, diritto penale con Filippo Carrello, l’ebraico con il canonico Ferrigni e il greco con il canonico Lucignano: tutti grandi nomi dell’insegnamento. Giustiniano dimostrò subito un grande ingegno, al punto che i sui stessi professori si meravigliavano delle sue capacità. Si laureò velocemente in lettere nel 1849 e qualche anno dopo segui la laurea in giurisprudenza nel 1852 sostenuta davanti ad illustri professori del tempo quali il canonico Monsignor D’Apuzzo ed Emilio Capomazza, col quale stabilì una profonda amicizia. Il 23 giugno del 1852 morì il padre Filippo, e Giustiniano decise di ripercorrerne i passi iniziando la pratica legale nello studio dell’avvocato Enrico Castellano, grazie al quale s’iscrisse all’albo dei procuratori legali nel luglio del 1854. Continuò inoltre a sviluppare i sui interessi culturali entrando a fare parte della congregazione di “Santo Spirito” dell’università di Napoli diretta dal canonico Antonio D’Amelio, accedé anche nella congregazione di “San Domenico Soriano” diretta dal canonico Gennaro Alfano, dove conquistò la medaglia di San Tommaso d’Acquino per le sue doti letterarie. Nel contempo arrotondava le sue finanze dando ripetizioni private di diritto. Durante gl’anni di studio Giustiniano approfondì le sue conoscenze con appassionate letture presso la Real Biblioteca di Napoli, dandosi allo studio dell’archeologia che accompagnava con lunghe passeggiate negli scavi archeologici di Pompei, Ercolano e Cuma nonché frequenti visite al museo archeologico in piazza Cavour. Amava la lettura di giornali quali la “Gazzetta dei Tribunali”, “L’Iride”, “l’Omnibus”. Nel 1851 collaborò al giornale “Settimana Cattolica” diretto da Michele Altamura, ma sul periodico il Lebano pubblicava articoli anti Borbonici sotto la parvenza di notizie di cronaca e senza mancare di attaccare i cattolici bigotti, le autorità e i politici del tempo. I censori di Napoli del tempo erano ventuno, di cui diciotto ecclesiastici istruiti, il resto erano membri altrettanto eruditi della polizia, eppure per circa sette anni non compresero nulla di quello che il Lebano scriveva, d'altronde non era iscritto in nessuna loggia massonica o carbonara, non frequentava i circoli del padre, o quelli mazziniani filo repubblicani. Ma i cento occhi di Argo della polizia borbonica erano in allarme contro tutti gli scrittori, editori e giornalisti. In particolare la censura relativa al periodico “Settimana Cattolica” era affidata al canonico Gaetano Barbuti, il quale sospettava del Lebano ed inviò alcuni rapporti al commissario di polizia politica Maddaloni, il quale però non ravvisò alcun dubbio su Giustiniano, quindi trasmise nel 1855 i rapporti del Barbuti al monsignor Salzano presidente della commissione di censura e revisori della stampa del regno delle Due Sicilie, più per dovere che per convinzione. Ma il questore di polizia di Napoli, Pasquale Governa, per il passato del padre Filippo, il 15 Ottobre di quell’anno decise comunque di ordinare al commissario Lubrano, responsabile del quartiere Vicaria, dove alloggia il Lebano, di attuare una discreta sorveglianza tramite pedinamento. I rapporti del Lubrano, verificati dal Governa, venivano poi inviati al direttore generale della polizia cavalier Francesco Pecchenedda. Quello che incastrò il nostro personaggio fu un piccolo articolo che aveva pubblicato nel 1856 il quale recitava:“ Nel 1834 a largo della Sicilia, una piccola isoletta vulcanica sottomarina era emersa nel Tirreno, pur visitata da navi militari francesi e inglesi, la nostra flotta da guerra ne prese possesso in nome di sua maestà Ferdinando II col nome di Ferdinandea, ma dopo pochi giorni l’isola affonda del tutto nel mare.”Questa notizia era vera ma risaliva a ben 22 anni prima e quindi il Barbuti si domandò perché il Lebano l’aveva pubblicata, scorgendo in essa una sorta di augurio da parte del giovane affinché il Re e la monarchia sprofondassero come la detta isola. Inoltre il Lebano aveva preso a frequentare il caffé “De Angelis” dove strinse amicizia con il mazziniano Nociti e con i liberali Cesare e Giuseppe De Martinis, Tommaso Arabia, Giovanni D’Erchia, Antonio De Sanctis, quest’ultimi poi erano in cattivi rapporti con i mazziniani perché fedeli alla linea politica di Cavour. Ma il Nociti divenne un estremista e partecipò all’organizzazione del fallito attentato a Ferdinando II dell’otto Dicembre 1856 al campo di marte a Capodichino. Al grave gesto seguì l’istituzione di un’apposita commissione di polizia capitanata dal commissario De Spagnolis, il quale in breve si mise sulle tracce dei giovani del caffè “De Angelis”, nonché del Lebano il cui vero significato dei suoi articoli era ormai stato svelato dal Barbuti. Il De Martinis cercò di farli imbarcare clandestinamente rivolgendosi a Ferdinando Mascilli, padre dei patrioti cospiratori, ma quest’ultimo fu arrestato. Allora si rivolse alla moglie del Mascilli, Rosaria Cianciulli che, grazie alla sua influenza, fece imbarcare per Malta la sera del 30 Dicembre 1956 il Nociti e altri cospiratori. Giovanni Marini nascose per alcuni giorni il Lebano in villa Capecelatro, vicino Nola, grazie all’amicizia con Michele Capecelatro cospiratore massone capo della loggia “La Vigilanza”, e successore di Domenico Bocchini. Questo appena in tempo dato che il prefetto Governa aveva firmato l’ordine d’arresto per Giustiniano ma grazie al risultato degl’interrogatori si diresse a villa Capecelatro ma la trovò vuota, in quanto il primo gennaio del 1857 l’abate Gradilone, alias abate Marino, accompagnò il giovane a Napoli travestito da monaco francescano nascondendolo nel convento di San Giovanni a Carbonara sotto la sua cura. L’abate Gradilone era un anti borbonico, uno speziale, e uno dei più grandi maestri alchimisti di Napoli, devoto alla scuola ermetica di Della Porta, Giordano Bruno, Tschudy e del conte Raimondo De Sangro. Di lui non si sa molto se non che al monastero di Montevergine aveva scelto il saio francescano, rinunciando alla sua precedente vita di maestro della massoneria. Fino al 1830 viene incaricato dell’insegnamento religioso in Francia presso il monastero di San Sulpice, per poi rientrare a Napoli in S. Giovanni a Carbonara. Sin dal suo rientro fu sospettato dalla polizia borbonica come cospiratore, ma le amicizie di cui godeva gli permisero di non essere mai arrestato, basti pensare che era il confessore della regina Maria Cristina di Savoia. Molti affermano che fu l’iniziatore di Eliphas Levi. L’abate Gradilone introdusse il giovane Lebano nel cerchio delle sue amicizie politiche. In quel periodo il Lebano entrò nella “Giovane Italia” nella sezione “Comitato d’ordine di Napoli” di Giuseppe Mazzini. La polizia borbonica riuscì a scoprire che si era rifugiato nel monastero di San Giovanni e vi si recò con un ordine d’arresto diretto verso di lui e l’abate Marino. Quando i poliziotti bussarono alla porta Lebano li ricevette senza batter ciglio, accompagnandoli dall’abate Marino, il quale durante l’arresto dichiarò che il Lebano era già partito giorni prima per Parigi. Quindi il Lebano il giorno dopo si recò a casa di Rosaria Cianciulli, moglie del Ferdinando Mascilli, anch’egli repubblicano, grazie alla quale riuscì ad imbarcarsi a bordo della “Surprise”, una corvetta inglese che fungeva da servizio postale. Raggiunse Malta, da cui grazie ad amicizie filo Mazziniane s’imbarcò per Cagliari, da cui si spinge a Genova. In quest’ultima città il Lebano strinse amicizia con Carlo Pisacane, mazziniano capo dei repubblicani di Roma al servizio di Giuseppe Garibaldi. In fine Lebano si rifuggiò a Torino da dove seguì l’andamento della seconda guerra d’indipendenza, esultando insieme ai partigiani repubblicani per le vittorie franco piemontesi sugl’austriaci. Sempre a Torino nel 1859 un gruppo di massoni tra cui Filippo del Pino, Carlo Flori, Francesco Corda Losanna, Sisto Anfossi da Dego, Vittorio Mirano, Giuseppe Tolim, Celestino Peroglio, il conte Livio Zambeccari, fondarono la loggia “Ausonia” a cui egli aderì grazie alla presentazione del Zambeccari. Grazie alle influenti amicizie il Lebano fu inviato a Parigi in qualità di diplomatico per conto della “Società Nazionale di Torino” con la missione ufficiale di rappresentare gli interessi repubblicani di Mazzini, ovvero di proporre all’imperatore francese Napoleone III di sostenere un regno autonomo dai Borboni in Toscana. Ma in realtà il suo vero incarico era di contattare a Parigi i filo repubblicani francesi per convincerli a sostenere Mazzini e il sogno di una repubblica italiana. Durante la sua permanenza a Parigi il Lebano ebbe la possibilità di incontrare alcuni dei più noti personaggi del tempo quali: - Nicola Giuseppe Spedalieri. Il giovane Giuseppe Spedalieri sin dai vent’anni intraprese gli studi ermetici. All’età di trent’anni per curare gl’interessi della famiglia fissò una nuova residenza a Marsiglia dove entrò in contatto con la massoneria egiziana del Misraim fondata dai fratelli Bedarride. Giuseppe Spedalieri successivamente passò al sistema Ragoon creato nel 1838 dalla scissione del Misraim, e poi da lui diffuso a Palermo e a Catania nel 1848. Le sue inclinazioni politiche lo portavano a simpatizzare per la Carboneria, e quindi per la rivoluzione repubblicana. Il Lebano lo incontrò durante la sua temporanea permanenza a Parigi negl’ambienti rivoluzionari dove i due scambiarono le loro idee politiche e massoniche.- Alessandro Dumas padre, 1762-1806, fu amico di Martinez il famoso esoterista francese che nel 1756 fondò gli “Eletti di Cohen”: ordine cabalistico, teurgico e rosacruciano e discepolo del suo continuatore il nobile Louise Claude de Saint Martin fondatore del movimento iniziatico “Gli amici di San Martin”. Mentre il figlio Alessandro Dumas 1802-1870 si laureò in giurisprudenza nel 1822, fu aiuto notaio a Parigi, e frequentò il salotto letterario di Charles Nodier fondatore della setta dei carbonari dei “Filadelfi di Francia”, di cui fece parte Filippo Lebano. Nel salotto di Nodier si riunivano personalità del calibro di Victor Hugo, e De Balzac. In tale ambiente Alessandro Dumas fu iniziato dal Nodier alla massoneria quindi entrò nel “Filadelfi” partecipando al fervore rivoluzionario di quei tempi. Nel 1835 sbarcò a Napoli per un viaggio di piacere dove incontrò il romanziere Lytton iniziato al Misraim nella loggia napoletana “Folgore” nelle catacombe di San Gennaro dal Domenico Bocchini. I due fraternizzarono subito, perché Dumas era un cultore della tradizione del De Sangro, e per i comuni interessi politici. Quindi Dumas gli parlò di Eliphas Levi, e di Lytton, introducendolo negl’ambienti culturali di Parigi, e scrisse per lui una lettera di presentazione ad Eliphas Levi, che lo ricevette il ventidue dicembre del 1858.- Eliphas Levi, ovvero Alphonse Costant de Louise 1810-1875 studiò nel seminario di “San Nicolas du Chardonnet”, quindi passò al seminario di “Sulpice” dove diventò allievo dell’abate Marino. Ma abbandonò la carriera ecclesiastica per l’amore di una giovane ragazza, Adele Allenbach, ma le relazione finì presto. Dopo un breve periodo di crisi interiore riprese i suoi studi iniziatici, frequentò lo scrittore Balzac famoso massone ed esoterista, a sua volta allievo del massone e carbonaro francese Charles Nodier di Desacon il quale nel 1828 fondò i “Filadelfi”. Eliphas Levi pubblicò nel 1841 “La Bibbia della libertà” ma per le sue idee fu arrestato, in prigione studiò Sweedemborg e San Martin. Per lui fu decisivo l’incontro nel 1854 a Londra con l’esoterista Edward Lytton , lo scrittore de “Gli ultimi giorni di Pompei”. Da quell’amicizia Eliphas Levi trasse nuove conoscenze da cui seguirono i suoi più importanti scritti come “Il dogma dell’alta magia”, e “La storia della magia”. Dal dicembre del 1858 al 1860 il Lebano lo frequentò assiduamente, traendone grandi insegnamenti cabalistici. La casa di Eliphas Levi era situata al numero 19 di Avenue de Maine in un palazzo elegante fronteggiato da un giardino quadrato. Il Levi abitava al secondo piano, sulla porta di casa era affissa una targa col suo nome in caratteri ebraici e con agl’angoli le quattro lettere dell’acronimo “I.N.R.I.” La stanza dove fu ricevuto il Lebano era piccola ed irregolare, ricolma di mobili, e dietro lo scrittoio, in un angolo, era possibile scorgere un piccolo altare sormontato da un drappo di stoffa gialla, uno scaffale contenente il Talmud, ed un quadro di un’enigmatica donna raffigurante la Cabala. Nella stanza, tra i suppellettili, si potevano scorgere manoscritti, statue raffiguranti le divinità antiche, stampe e testi d’ogni campo dell’esoterismo. Il Lebano fu accolto con stima dal Levi, anche grazie alla comune amicizia con l’abate Marino: parlarono di gnosi, cabala, teurgia, tarocchi e spiritismo e della grande evocazione di “Apollonio di Tiana” che il Levi fece nel 1853 assieme al Lytton. Quindi nell’anno successivo le visite si fecero più frequenti e il Levi guidò il Lebano nello studio di Paracelso, Sweedenborg, dell’alchimia, e dell’Arcana Arcanorum. Ma i suoi studi si fermarono quando con Dumas, e l’amante di questi Emilie Cordier, il Lebano dovette partire in treno da Parigi per Marsiglia dove incontrarono il Barone Spedalieri. Quindi noleggiarono la goletta francese “Emma”, riempiendola di munizioni e armi per i rivoluzionari siciliani, prima approdarono a Genova quindi ripartono per Palermo dove il sei giugno del 1860 consegnarono le loro armi a Garibaldi. In seguito ripartirono per Napoli, poiché Dumas fu incaricato da Garibaldi di portare i suoi ordini al “Comitato d’Azione” per organizzare la rivolta napoletana, il Lebano fungeva da interprete e raggiunsero Napoli il tre agosto del 1860. Il sette settembre 1860 Garibaldi entrò a Napoli, il nove l’avvocato Liborio Romano, primo ministro del governo dittatoriale di Napoli nominò come sindaco della città il cavaliere Andrea Colonna di Stigliano in sostituzione del sindaco D’alessandria. Nel mentre si stanziava a Napoli un avanguardia di 1500 garibaldini capitanati da Stefano Turr. L’undici i seimila militari borbonici stanziati nei forti di Napoli sgombrarono per poi raggiungere Capua in due giorni di marcia forzata, nel contempo la guardia nazionale di Napoli comandata dal generale Mariano D’Alaja prese in consegna i forti napoletani. Quello stesso giorno fu emanato un decreto dittatoriale che recitava:“Sono istituiti in Napoli dodici asili infantili gratuiti, uno per ciascun quartiere”. Nel contempo furono organizzate, come nelle altre città d’Italia che non godevano di tali istituzioni, le pietose contribuzioni per il mantenimento degl’asili. Il Municipio di Napoli fornì i locali, le spese d’impianto, e fu eletta una commissione per vigilare sulle nuove istituzioni infantili, di cui fu eletto presidente Giustiniano Lebano. Il 13 settembre entrò in Napoli una parte dell’esercito garibaldino composto da tremila calabresi e lucani, seguiti dai primi contingenti della divisione garibaldina medici, che sfilarono per via Toledo. Il 27 fu fondata a Napoli l’Associazione Nazionale Unitaria, filo repubblicana e mazziniana diretta da Zappetta, Libertini e Giuseppe Ricciardi di Camaldoli che lavorava per un Italia unita con Roma capitale, e portò tali richieste all’attenzione di Garibaldi il 30 settembre, tra i delegati dell’associazione fu presente anche il Lebano. Garibaldi concesse a Dumas la carica di direttore generale degli scavi archeologici in Campania e di direttore del museo archeologico di Napoli. Il Dumas fondò poi il giornale “Indipendente” con sede nel suo stesso alloggio: il noto palazzo dei principi di Francavilla presso Chiatamone a cui il Lebano partecipava come corrispondente. L’otto ottobre il Lebano fu nominato segretario del comizio elettorale che aveva sede in Napoli al Vico Nilo n.° 34 presso il circolo popolare Nazionale per il Plebiscito: ovvero per la votazione che doveva decidere per l’annessione del sud Italia con il Piemonte. Il ventisei ottobre a Caianello, presso Teano, Garibaldi s’incontrò con Re Vittorio Emanuele II di Savoia per proseguire insieme presso Caserta. Lo stesso giorno il giornale ufficiale di Napoli scrisse: “Poiché s’avvicina l’esercito piemontese il sindaco Colonna si dà da fare per reperire nuovi alloggi con l’aiuto di un’apposita commissione diretta dall’avvocato napoletano Giustiniano Lebano." Il 21 novembre 1860 l’esercito garibaldino fu sciolto con decreto luogotenenziale e chiunque dei soldati poteva entrare col proprio grado e stipendio nell’esercito italiano o nella guardia nazionale, e Vittorio Emanuele II firmò il decreto di annessione del Piemonte all’Italia meridionale. L’otto dicembre fu fondata la società di “Mutuo Soccorso degl’Operai” tra i soci fondatori figurava anche il Lebano. Il tredici dicembre 1860 l’avv. Lebano ricevette dal Luogotenente Farini, su proposta del sindaco Colonna, la croce di Cavaliere dell’Ordine Reale Equestre dei Savoia. Inoltre il venticinque gennaio 1861 il successivo Luogotenente del Re d’Italia, il Principe Eugenio Carignano consegno al Lebano la medaglia d’oro del real ordine Equestre di San Maurizio e Lazzaro, a cui seguirà la croce di Cavaliere della Corona d’Italia concessagli da Re Vittorio Emanuele II il venticinque maggio; lo stesso re che lo nominerà Conte il 12 novembre del 1863 durante la sua visita alla Reggia di Capodimonte: onorificenze dovute alle sue opere pie nell’assistenza degl’orfani, dei feriti militari e per l’accoglienza delle truppe garibaldine. Tra le sue attività pubbliche non bisogna poi dimenticare che il 17 settembre 1861 inaugurò il Convitto e educandato femminile in piazza del Gesù in palazzo San Severino, poi trasformato nel 1868 nella scuola media superiore “E. P. De Fonseca”. Il cinque marzo 1861 egli inaugurò il primo asilo infantile in via delle Grotte della Morra alla Vicaria n.° 22 per i bambini poveri. Il cinque giugno inaugurò il secondo asilo nel quartiere Chiaia alla salita Mirelli. Il generale Cialdini il sedici luglio di quell’anno fu investito della carica di Luogotenente Generale delle province napoletane, e subito esaminò la relazione presentata al parlamento di Torino dal Deputato Liborio Romano e appoggiata dal collega Giuseppe Ricciardi di Camaldoli, denunciante le tristi condizioni di Napoli e provincia dove le strade, l’illuminazione, la nettezza urbana, gli ospedali richiedevano interventi ingenti ed immediati. Così il dieci novembre del 1861 si aprì una pubblica sottoscrizione per il prestito nazionale di un milione di ducati, e nella stessa serata la commissione comunale di Napoli per le scuole e l’assistenza ai poveri diretta dal Lebano raccolse 22.690 obbligazioni pubbliche per un valore di 1.633.680 ducati napoletani che nel lasso di una decina di giorni arrivarono alla cifra di 2.338.592 per poi giungere ad un totale di 3.972.272 ducati, al posto del solo milione previsto, pari a 50.000 lire italiane. In parte la cifra fu raccolta grazie all’intervento di molte autorevoli personalità tra cui spiccò l’abilità diplomatica di Giulia Slis Schawbe, una ricca nobildonna tedesca vedova, amica sia di Mazzini che di Garibaldi che seguì nella città partenopea di cui restò incantata per le meraviglie naturali, così decidendo di fissarvi dimora occupandosi di attività filantropiche. Della somma raccolta 45.000 lire furono destinate a ristrutturare la città mentre 5.000 furono depositate al Banco di Napoli sotto a disposizione delle autorità comunali. Il nove dicembre 1861 fu eletto sindaco di Napoli Giuseppe Colonna di Stigliano, nipote di Andrea Colonna, che confermò tutti gl’incarichi del Lebano. Il sedici dicembre il Luogotenente Farini istituì la commissione per la raccolta dei soccorsi alle classi povere di Napoli, a cui rilasciò 25.000 buoni giornalieri per acquistare il pane. Tra i dirigenti della commissione figurava anche il Lebano, mentre l’amico Giuseppe Ricciardi fu nominato deputato al parlamento di Torino. Giustiniano Lebano l’undici marzo 1862 inaugurò il terzo asilo infantile al Vico Secondo Portiera n.° 10. Il vent’otto aprile 1862 arriva a Napoli per la seconda volta Vittorio Emanuele II di Savoia, e il Lebano per festeggiare fece distribuire ai poveri 4.000 quintali di pane.Giustiniano Lebano conobbe Virginia Bocchini, nipote del Domenico Bocchini, più volte annoverato nella seguente trattazione, nel settembre del 1860. Purtroppo Virginia aveva perso la madre che morì nel darla alla luce, mentre il padre, Silvio Bocchini, morì nell’epidemia di colera del 1836. per qualche anno visse col nonno Domenico che però morì nel 1840 a Caserta dove si erano rifugiati per timore del colera che ancora mieteva vittime a Napoli. Quindi il nonno materno, l’avvocato Enrico Castellano sistemò la nipote nel reale educandato di “Maria Isabella Borbone” in largo San Marcellino a Napoli, dove visse dal 1840 al 1848. Poi il nonno materno la prese in casa con sé perché ormai abbastanza grande per poter provvedere da sola alle sue esigenze ed accudirlo. D'altronde essa condivideva gli stessi principi liberali e repubblicani trasmessi dal nonno Domenico che mai dimenticò. Nel 1850 divenne maestra nella scuola magistrale femminile del reale educandato in piazza del Gesù. Ella conobbe Lebano nelle varie manifestazioni filo garibaldine a cui partecipava col nonno, un incontro che proseguì con un fidanzamento ufficiale nel 1861, per culminare col matrimonio civile tenuto davanti al sindaco di Napoli Giuseppe Colonna nel 1862. Per la casa il Lebano aveva già provveduto, oltre a quella di Virginia lasciatale dal nonno Domenico Bocchini in via Sant’Agostino alla Zecca n° 8, da tempo il Lebano durante le sue visite presso la villa settecentesca “Il Rifugio” di proprietà dell’amico Giuseppe Ricciardi - a sua volta vicina alla villa “della Ginestra” meglio conosciuta come “Villa Leopardi” di proprietà dell’amico Giuseppe Ferrigno dove dal 1835 al 1837 fu ospitato il grande poeta Giacomo Leopardi - poté comprendere la bellezza del luogo e così parlò col suo amico, l’avvocato Luigi Di Gennaro, genero del Ferrigni, e così nel 1862 comprò da quest’ultimo un vasto podere agricolo con vigneti, e frutteti e relativa casa colonica, che fece ristrutturare, situato alla periferia di Torre del Greco in contrada “Lava”, attuale contrada Leopardi, proprio a fianco della strada nazionale e dell’incrocio verso S. Maria la Bruna e la strada per Boscoreale. Furono anni felici grazie al loro amore e alla posizione economica e politica del Lebano. Nel 1863 il Lebano, per far distrarre Virginia, accettò l’invito che l’archeologo di Pompei Giuseppe Fiorelli rivolse a molte personalità del tempo, onde mostrare loro come fosse possibile colare del gesso per ottenere il calco dei Pompeiani morti durante l’eruzione del 79 d.c. Lebano decide allora di trasferirsi alla villa di Torre Annunziata, al tempo frazione di Trecase, acquistata da poco dal possidente terriero sig. Scauda, fornendola di un alto cancello sormontato dallo stemma di famiglia, inferriate alle finestre e cani da guardia. Nel giugno dell’anno successivo inaugura il nuovo studio legale e commerciale Lebano e Cacace. Da decenni il colera devastava ad ondate l’Europa e quindi Napoli facendo strage di uomini, donne ricchi, poveri, giovani e vecchi, accomunati nella tragedia di una malattia terribile, si pensi al poeta Leopardi che fu colpito durante il suo soggiorno a Torre del Greco nel 1837, e ricomparve nel 1855 per poi esplodere nel 1865.L’ultima epidemia proveniva dall’estremo oriente, probabilmente dalla Cina, ed era stata portata dalle navi mercantili tedesche e inglesi, nel popolo si avvertiva un sentimento di diffidenza e terrore per tutto ciò che proveniva dall’estero: a Castellammare di Stabia delle popolane arrivano ad uccidere due poveri turisti stranieri perché ritenuti spargitori di colera. A tal proposito Giustiniano Lebano scrisse la famosa opera: “Del morbo oscuro chiamato da Areteo ociphon-sincope impropriamente creduto dagl’europei choleramorbus” dove afferma che l’origine dell’epidemia era inoltre dovuta a degli squilibri spirituali mondiali generati dalle errate e nefaste pratiche della magia cinese, ma certamente intendeva altro.
Però Lebano si sentiva tranquillo e continuò la sua attività sociale e politica aiutando attivamente i suoi due amici Giuseppe Ricciardi e Giacinto Albini che nel 1865 vengono eletti consiglieri comunali a Napoli. Ma Virginia era terrorizzata dalle notizie dei casi di colera verificatisi nella periferia di Napoli e poi in alcuni quartieri del centro, la sua era una vera ossessione che la portò alla massima cautela, e presto scoprì di avere ragione in quanto il suo primo figlio di tre anni, Filippo Lebano, fu colpito dall’infima malattia, e il piccolo fu subito ricoverato all’ospedale Gesù e Maria. Le opinioni dei medici per curarlo si alternano e scontrano attraverso varie ipotesi e rimedi che non avevano effetto, alla fine Virginia si affidò all’amico medico Francesco del Giudice che però non riuscì a curare il piccolo Filippo, il quale morì dopo poche settimane, il sette dicembre 1865. Lo sconforto di Virginia fu profondo e insanabile, l’accaduto la scosse fortemente mettendo il suo equilibrio psicologico in crisi; ma dovette farsi forza per la nuova vita che portava in grembo così i coniugi Lebano, per scongiurare ogni possibilità di contagio si trasferirono a Villa Lebano in Torre Annunziata. Questa volta l’accuratezza igienica di Virginia fu tale da rasentare la follia: l’acqua sia per bere che per bagnarsi veniva sempre prima bollita, ogni ambiente era tenuto pulito e veniva sterilizzato. Virginia partorì all’ospedale di Torre del Greco il 23 giugno del 1866 la piccola Anna Lebano e presto la fece battezzare nella chiesa di San Michele di Torre del Greco vestendo ancora di nero per il lutto del figlio Filippo. Inoltre divenne estremamente religiosa: pregava continuamente e si circondò di statue di Santi. Ma probabilmente il suo stato fu dovuto anche alla frequentazione col parroco Don Aniello de Paola, noto borbonico! Virgina arrivò a pensare che la morte di Filippo fu un castigo divino per i peccati del marito che era sia antiborbonico che anticlericale, nonché ateo e massone. Logicamente questo turbò la serenità di Giustiniano il quale era ancora in pena per la perdita del primogenito che portava il nome del padre, e in cuor suo sapeva che doveva tutto ciò ai falsi consigli di Don Aniello. Però il destino gli tese la mano, difatti Don Aniello fu arrestato come cospiratore e filo borbonico in quanto sorpreso a predicare a favore del ritorno della monarchia delle due Sicilie. L’accaduto non ripristinò la pace tra i coniugi ma almeno attenuò i dissapori e Virginia poté dedicarsi unicamente alla figlia. Per qualche tempo le cose si calmarono prendendo una parvenza di normalità. Il male del colera era sempre in agguato, difatti il “morbo oscuro” colpì anche la sua ultima figlia uccidendola. A nulla valsero le valenti cure del medico di famiglia e così Virginia cadde nuovamente nello sconforto, chiudendosi in se stessa, ma il fato volle che ella già aspettasse un nuovo bambino nel quale ripose tutte le sue speranze di madre, e facendosi nuovamente forza reagì. Quindi i Lebano tornano nella loro casa di Napoli per prestare le massime cure a Silvio Lebano nato nel luglio del 1867. Virginia si chiuse letteralmente in casa, rifiutandosi di andare in chiesa e di avere contatti con la servitù, era attenta a far lavare i pavimenti ed ogni superficie della casa con gl’ultimi ritrovati antisettici del tempo, si rifiutò di avere rapporti coniugali col marito e si diede alla costante preghiera. Il colera continuò a proliferare anche se in modo silenzioso e strisciante, il nuovo pericolo era rappresentato da una epidemia di tifo petecchiale che durò fino alla fine del 1868 quando Silvio ne fu contagiato. Virginia non si sconfortò ed anzi lottò con tutte le sue forze, facendo ricorso ad ogni genere di cura conosciuta, e accudendo il piccolo personalmente a rischio della propria vita. Il Lebano era un iniziato alla vera sapienza ermetica e stavolta volle farvi ricorso per salvare suo figlio, difatti invitò nella sua casa di Napoli un noto occultista del tempo Pasquale de Servis alias Izar. Il quale era un celebre taumaturgo ed erborista, e fu lui ad iniziare l’occultista Ciro Formisano alias Giuliano Kremmerz. De Servis ricordò al Lebano che certi errori nelle evocazioni dell’Arcana Arcanorum, sebbene umanamente comprensibili, non possono essere facilmente arginati e spesso si riversano sui figli e familiari più prossimi colpendoli con ferocia, al punto che nemmeno lui poteva fare nulla. Difatti il piccolo Silvio morì all’ospedale della pace il 16 settembre del 1868 con cui in meno di quattro anni i coniugi Lebano perdono ben tre figli. Sebbene Giustiniano Lebano aveva un carattere forte come il granito stavolta vacillò soffrendo enormemente, e Virginia fu scossa al punto di non accettare quest’ennesimo lutto. Il suo animo fu sconvolto e si ribellò ad un Dio che aveva implorato senza che fosse ascoltata, così si avvicinò alla moda del tempo costituita dalle sedute medianiche. Spesso Virginia invitava nella sua casa di Torre del Greco alcuni noti spiritisti tra cui lo stesso Izar, Eusapia Palladino e il suo precettore Francesco Damiani, nella speranza di stabilire un contatto con i figli defunti. E ciò creò una frattura insanabile che allontanò Giustiniano dalla moglie, in quanto fortemente contrario a tali pratiche. Giustiniano si dedicò ai suoi studi ed istruì numerosi discepoli nella dottrina e nella pratica del Martinismo, alcuni dei quali pervennero all'arte Trasmutatoria.
Il Lebano morì ai primi del secolo lasciando fama di grande mago.
L’attività massonica di Giustiniano Lebano.
Come accennato precedentemente, il Lebano fu “Apprendista” e poi “Compagno” Massone nella loggia francese diretta da Dumas a Parigi nel 1858, quindi divenne “Maestro” della massoneria Egiziana del Memphis di Palermo con Giuseppe Garibaldi sotto presentazione del Dumas nel 1860. Aderì poi alla Loggia muratoria di Rito Scozzese “Fede Italica” dell’Oriente d’Italia fondata a Napoli il sedici agosto 1861 e diretta dal “Venerabile” Giovanni Pantaleo, il famoso cappellano dei Mille di Garibaldi, il “Primo Sorvegliante” era Luigi Zappetta, mentre il Dumas rivestiva il “18° Grado” ovvero quello di “Principe di RosaCroce”, Il sei Luglio 1862 il Lebano passa come “Primo Sorvegliante” della loggia napoletana “Osiride” alla Riviera di Chiaia, fondata il diciassette gennaio 1862 e diretta dall’amico Giuseppe Ricciardi conte di Camaldoli, sotto l’obbedienza del Grande Oriente Massonico Scozzese rappresentato dalla loggia “Ausonia” di Torino fondata nel 1859. Il Lebano versò al tesoriere la tassa d’ingresso di tre ducati. Il diciotto gennaio 1863 il Lebano è ricevuto come “8° Grado” ovvero “Maestro Segreto Egizio” nella loggia “Sebezia” su presentazione del Ricciardi, loggia fondata il primo agosto 1861 dal calabrese Domenico Angherà prima fedele al Grand’Oriente Scozzese poi passata all’Ordine Egizio del Misraim “Scala di Napoli”.La “Scala di Napoli” risaliva all’Ordine Egizio di Cagliostro fondato a Napoli nel 1792 con la Loggia “I Figli della Libertà” presso la Riviera di Chiaia, in sonno dal giugno 1799, poi risvegliata nel 1813 da Marc Bedarride col nome “La Figlia della Sapienza” poi diretta nel 1814 dal Gran Cofto Lorenzo De MonteMayor. L’assetto definitivo del Rito Egizio di Misraim fu fondato in Francia dal Bedarride nel 1818, poi regolò la “Tegolatura Suprema Scala di Napoli” meglio conosciuta come “Arcana Arcanorum” nel 1819 a Bruxelles, mentre a Napoli fu il Domenico Bocchini con la loggia Egizia “La Folgore” fondata nel 1828 a via Toledo nel palazzo Berio, poi ospitata nella sede di palazzo Gravina dal 1841 al 1848 in casa del principe Capecelatro, per poi passare nel palazzo Siracusa alla Riviera di Chiaia nel 1850 e diretta da Giuseppe Fiorelli fino al 1860, il quale era il segretario del principe Leopoldo Borbone delle due Sicilie dopo di ché fu messa in sonno il 16 maggio 1860. Successivamente Angherà portò con sé, nel Rito Egizio di Misraim anche Giuseppe Ricciardi di Camaldoli presso la sua loggia “Osiride” fedele al Grande Oriente Scozzese di Torino, nel 1864 fondò in Napoli il Grande Oriente Egizio di Misraim raggruppando la loggia “Sebezia” ed altre venti logge napoletane, con alcune logge pugliesi e calabresi che rifiutarono l’obbedienza massonica Scozzese sia di Torino che di Palermo.Presso la “Sebezia” Angherà fungeva da “Gran Cofto” ovvero da gran maestro nazionale, Giuseppe Ricciardi era il “Primo Sorvegliante”, mentre Giustiniano Lebano era “Gran Oratore”. Nel 1865 Angherà fondò nella “Sebezia” il Gran Capitolo Rosa Croce Egizio dando a Giustiniano Lebano l’appellativo di Sairtis-Us e la carica di “Gran Sorvegliante” del Capitolo nonché il 18° grado massonico o “Principe di Rosa Croce”.Il sistema massonico egizio di Misraim Napoletano era pieno di fervore liberale e repubblicano, era frequentato assiduamente da filo mazziniani e garibaldini, già appartenenti al Comitato d’Azione del Mazzini sorto in Napoli nel 1857 e risorto nel 1860 divenuto poi Associazione Italia nel 1861, erano patrioti che ancora respiravano gli ideali della Carboneria e della Giovane Italia, nonché dei cultori dello spiritismo medianico divenuto al tempo una moda da salotto.
Martinismo Napoletano.
I Martinisti Napoletani sono tutti discepoli di Eliphas Levi, cittadini del Regno delle Due Sicilie, fra i quali principalissimo il Barone Nicola Spedalieri. Oltre allo Spedalieri, notissimo anche per le opere che il Maestro gli ha dedicato, va ricordato l'avvocato Giustiniano Lebano, da Torre Annunziata, Napoli, autore di varie opere occultistiche fra cui "Dell'Inferno, se il Cristo vi discese con il corpo o meno", rifugiato in Francia per motivi politici concernenti le sue attività risorgimentali ed iniziato a Parigi da Eliphas Levi alla Magia Trasmutatoria. Rientrato in Italia dopo l'Unità, si ritirò a Torre Annunziata nella zona vesuviana, dove si dedicò ai suoi studi ed istruì numerosi discepoli nella dottrina e nella pratica del Martinismo, alcuni dei quali pervennero all'arte Trasmutatoria come Vincenzo Gigante che, assai longevo, visse sino ai nostri giorni. Un altro napoletano di Portici, sempre nella zona vesuviana, fu Pasquale de Servis, figlio naturale di Francesco I di Borbone, emigrato a Parigi per motivi di lavoro, venne pur'esso in contatto con la cerchia di Eliphas Levi e fu accolto come discepolo dal Maestro. Suo interesse predominante fu l'astrologia ed alcuni lo identificarono con l' «anonimo napoletano» autore delle «Lunazioni» pubblicate dal Kremmerz il quale ne rifiutò sempre la paternità. Il De Servis che portò lo jeronimo di IZAR, rientrato povero dall'emigrazione, fu ospitato in casa del Kremmerz di cui fu il primo maestro e che successivamente egli indirizzerà al maestro francese Gerard Encausse alias Papus che lo fece accogliere nella cerchia dei martinisti francesi con i quali aveva mantenuto i contatti. Anche il De Servis istruì e guidò discepoli in Italia conservando ottimi rapporti con lo Spedalieri e col Lebano. A Portici sorge ancora una splendida reggia borbonica e molti illegittimi della famiglia furono sistemati nella zona, tra cui il padre stesso della sig.ra Anna, la consorte del Kremmerz, il Comm. Luigi Petriccione (Questo cognome che era quello di un funzionario toscano al servizio della Dinastia, venne imposto a più di un illegittimo di questa per concessione dello stesso funzionario). Oltre al Kremmerz un altro porticese, comunemente ritenuto figlio di Ferdinando II, Gaetano Petriccione che portò lo pseudonimo di Morienus, fu discepolo prima del Lebano e poi dello Spedalieri, che conosceva la sua origine regale e lo stimò degno dell'Arte Regia iniziandovelo. Discepoli di Morienus furono Philaletes Jatricus e molti altri martinisti dell'Italia meridionale e della Sicilia così come il Kremmerz ebbe discepoli in tutta Italia e anche in Francia. Il Martinismo italiano operativo ebbe dunque origine da questi personaggi e da nessun altro, anche se gli storici dimenticateli, sono passati a cercare altre più recenti e meno nobili origini. Lo stesso Kremmerz considerato come il creatore del kremmerzianesimo appare spuntato dal nulla a mò di fungo. Il Kremmerz, prima della creazione della sua Fratellanza Terapeutica, soggiornò in Francia almeno quattro anni tra il 1888 ed il 1893. Di questo soggiorno, delle sue attività, delle persone che frequentò ed incontrò non si hanno notizie certe. Da molte fonti pare confermato che frequentò Papus ed insieme a lui appartenne alla Hermetic Brotherhood of Luxor, così come Hector Durville alla cui scuola pare che abbia appreso la teoria e la pratica del magnetismo animale che espose poi nella sua Opera Omnia e nel Corpus. Ricordo di sfuggita al lettore poco attento che è nel 1888, l'anno in cui Stanislao De Guaita fonda la Rosa Croce Cabalistica che è alla base del risveglio martinista.) in realtà fu e restò un martinista napoletano e la sua Scuola (4 Cn. In realtà il Kremmerz creò semplicemente e solamente una Fratellanza Terapeutica che chiamò ermetica in quanto la pratica sanatrice non era fine a se stessa, ma tendeva allo sviluppo ed alla manifestazione dell'Hermes, cioè del principio ermetico, uno dei componenti del complesso uomo.) può essere considerata una delle varianti dell'Ordine Martinista, basti sfogliare l'indice dei nomi del IV volume della sua Opera per controllare quante volte sono citati Jacques Martinez de Pasqually, Louis-Claude de Saint-Martin, Eliphas Levi, Stanislas de Guaita, Papus e via dicendo, o meglio ancora, leggere nel testo che cosa il Kremmerz ne scrive per avere la prova del suo «martinismo». Egualmente in tal senso è da interpretare la sua costante collaborazione dal 1923 alla rivista martinista «O Tanatos» diretta dal Banti e la sua iscrizione in testa al comitato di redazione. Abbiano detto che il Lebano ebbe tra i suoi discepoli il Gigante, morto nel 1968, tra i discepoli di quest'ultimo vanno ricordati Francesco Proto da Atrani (1889-1957) e don Luigi Ciardiello de Bourbon France «L'Argonauta» ". I maestri collegati all’ordine martinista napoletano.
1)
Raimondo Maria de Sangro (1710-1769), Principe di Sansevero, Duca di Torremaggiore, Grande di Spagna, ecc.. 2) Vincenzo de Sangro, primogenito di Raimondo de Sangro, comandante della Guardia Reale di Ferdinando I di Borbone.
3) Paolo d'Aquino, Principe di Palena.
4) Pietro d'Aquino, nipote di Paolo, Conte di Caramanico.
5) Antonio Marino, abate di S.Giovanni a Carbonara; iniziatore e maestro di Eliphas Levi: il padre dell'occultismo contemporaneo.
7) Pasquale de Servis alias Izar, (1818-1893) figlio naturale di Francesco I di Borbone.
9) Ciro Formisano alias Giuliano Kremmerz (1861-1910) Maestro della Rosa+Croce d'Oro Italiana
10) Gaetano Petriccione alias Morienus, figlio naturale di Ferdinando II di Borbone, discepolo di Izar.
11) Antonio de Santis alias Filaletes Iatricus.
12) Vincenzo Gigante (+1968), discepolo del Lebano.
13) Eduardo Petriccione alias Geber (1891-1966), figlio naturale di Gaetano.
14) Filippo Costa alias Ishabel, discepolo di Filaletes Iatricus.
15) Luigi Ciardiello de Bourbon-France alias l'Argonauta, di cui è stata ritrovata una rara poesia intitolata "Amore Celeste"
16) Luigi Petriccione alias Userkaf/Caliel, dei Duchi Giordano d'Oratino, figlio naturale di Edoardo, discepolo de L'Argonauta; Gran Maestro del Martinsmo Napolitano, della Rosa+Croce d'Oro Italiana, dell'Alleanza Universale Fratellanze Hermetiche A.U.F.H (principale fautore), e Vescovo della Chiesa Gnostica Apostolica con lo pseudonimo di Tau-Chrisogonos.

15 settembre 2009

- Il Solstizio e i suoi significati più profondi.


Il Solstizio è un evento che fornisce un gran numero di interessanti spunti di riflessione per chi si interessa di scienze esoteriche, che vanno molto al di là dei suoi aspetti tecnico-scientifici che ci insegna l'astronomia moderna. Uno dei sette princìpi ermetici del Kybalion, testo cardine della scienza esoterica di origine occidentale, afferma che ogni cosa nell'Universo si manifesta attraverso un ritmo, attraverso un'oscillazione tra due opposte polarità tra loro complementari. L'esistenza in ogni cosa di questo ritmo oscillatorio bi-polare la si può facilmente verificare osservando i cicli della natura e delle attività umane, e più in generale in come si manifesta ogni forma di vita. Tutto è un continuo alternarsi di luce e ombra, caldo e freddo, secco e umido, crescita e caduta, veglia e sonno, attrazione e repulsione, creste d'onda e cavi d'onda, e si potrebbe andare avanti all'infinito. Meditare su questo ritmo di alternanza tra polarità opposte è sempre un ottimo esercizio per mettersi in sintonia e in armonia con i ritmi dell'Universo, e l'evento del Solstizio è quanto mai adatto a questo scopo essendo uno dei punti culminanti di uno di questi cicli cosmici. Durante il Solstizio infatti il Sole raggiunge la massima o minima altezza sull'orizzonte, determinando il massimo e minimo numero di ore di luce o tenebre nei due emisferi terrestri. Durante gli Equinozi, le due forze contrapposte sono invece in perfetto equilibrio tra loro e la durata di giorno e notte è esattamente uguale. Riconoscere in ogni cosa l'esistenza di questi ritmi può contribuire ad avere un atteggiamento più equilibrato e rilassato nei confronti della vita e dei suoi eventi, e inoltre saper identificare le fasi ritmiche in ogni attività umana e in ogni situazione della vita può essere di grande utilità pratica. Nel mondo antico si usava celebrare ed attribuire grande importanza a queste fasi cicliche solstiziali ed equinoziali, in quanto si vedeva nell'alternarsi dei cicli astronomici il manifestarsi dell'attività di entità divine. Oggi la scienza moderna tende a considerare queste celebrazioni come superstiziose, ma secondo i migliori esoteristi di oggi queste convinzioni antiche erano invece pienamente giustificate. Secondo questi maestri, infatti, l'umanità antica aveva una struttura animica molto diversa da quella attuale. L'uomo antico era molto meno razionale di quello moderno, ma in compenso era dotato di una sorta di chiaroveggenza istintiva, che gli permetteva di percepire direttamente le entità spirituali e riconoscerne l'attività nel mondo della natura. Per questo le tradizioni antiche identificavano gli dèi negli astri e in tutte le manifestazioni naturali, non si trattava affatto di superstizioni ma di percezioni dirette. Secondo il filosofo-occultista Rudolf Steiner, dove c'è un astro c'è un concentramento di attività spirituale, e l'astro fisico che noi percepiamo non è altro che un fatto esteriore dietro al quale si cela una possente attività spirituale operata da entità invisibili ai sensi ordinari, e tutti i cicli cosmici e naturali avvengono per opera di queste entità. Con il passare dei secoli, l'umanità ha gradualmente perso la chiaroveggenza istintiva acquistando la razionalità, e in questo modo si è sviluppata la cultura scientifica attuale ma è andata perduta la capacità di percepire le entità spirituali. Secondo i maestri esoterici, si tratta di un percorso che l'umanità doveva seguire per inserirsi più profondamente nel mondo della materia fisica e lì sviluppare certe componenti animiche che soltanto nel mondo fisico possono essere sviluppate, poi in futuro la chiaroveggenza verrà recuperata ma in forma più evoluta, non sarà più un fatto istintivo ma una facoltà utilizzabile a comando.
Nel mondo antico, il Sole, con tutti i suoi cicli culminanti nei Solstizi e negli Equinozi, era considerato come la più grande delle espressioni dell'attività divina. Anche questo, sempre secondo Steiner, era del tutto giustificato in quanto dietro la forma esteriore del Sole fisico opera l'entità spirituale più evoluta del sistema solare, quell'entità che tante grandi tradizioni antiche, a cominciare da quella egizia, identificavano come una grande guida dell'umanità. Si tratta della stessa entità che il mondo cristiano ha riconosciuto nel Cristo, ma che era stata già riconosciuta sotto altri nomi da molte tradizioni pre-cristiane. Ecco allora che la nascita del Cristo viene celebrata oggi intorno ai giorni del Solstizio invernale, così come nell'antichità si celebrava nello stesso periodo la rinascita del Sole, che da quel momento riprende la sua fase ciclica ascendente. Al di là delle varie forme con cui viene celebrato dalle tradizioni spirituali antiche e moderne, il Solstizio rappresenta comunque la celebrazione e il rinnovamento del profondo legame tra l'umanità e la sua grande Guida che l'accompagna nel suo percorso evolutivo.
Gabriele Bertani

9 settembre 2009

- In principio era Darwin, Piergiorgio Odifreddi


Il 27 dicembre 1831 il brigantino Beagle salpò dall'Inghilterra con un passeggero d'eccezione, il giovane Charles Darwin, per un giro del mondo che durò cinque anni. Al suo ritorno le risultanze di quel viaggio spinsero il giovane naturalista a elaborare l'ardita teoria che le specie vegetali e animali non sono state create indipendentemente, ma si sono evolute nel tempo grazie a una selezione naturale del più adatto nella lotta per la vita. Questa teoria minava alla radice la pretesa dell'uomo di essere stato creato "a immagine e somiglianza di Dio", e faceva invece supporre una sua discendenza da qualche progenitore comune delle grandi scimmie. Non può dunque sorprendere che il darwinismo abbia scosso i fondamenti stessi delle religioni bibliche, e generato polemiche e resistenze che dividono ancor oggi l'opinione pubblica dei non addetti ai lavori. Il bicentenario della nascita (12 febbraio 1809) e il centocinquantenario della pubblicazione del suo capolavoro "L'origine delle specie" (24 novembre 1859) forniscono una buona occasione per avvicinarsi a Darwin, ripercorrendo insieme a Piergiorgio Odifreddi le tappe salienti del suo pensiero, le sue ripercussioni nella cultura moderna e le reazioni che ha scatenato di là e di qua del Tevere.
Un testo di facile approccio, nonostante il difficile argomento dell'evoluzionismo, di cui ricorre quest'anno il centocinquantesimo anniversario, essendo l'opera fondamentale: L'evoluzione della specie pubblicata nel 1859. L'autore è un matematico ben noto per le sue sfide e l'autorevolezza delle sue tesi esposte in numerosi suoi testi e in testate nazionali e scientifiche. Dirige tra l'altro la collana “La lente di Galileo”. Attraverso una serie agile di capitoli ben documentati ripercorre l'itinerario del grande scienziato inglese, da quando affrontò il lungo viaggio sul brigantino Beagle di sua maestà(1831-36) che aveva lo scopo di completare il rilevamento della Patagonia e della Terra del Fuoco, rilevare le coste del Cile, del Perù e di alcune isole del Pacifico, fino alla divulgazione delle scoperte nel 1839 con il famoso Viaggio d'un naturalista intorno al mondo.
Fu quella l'occasione preziosa che cambiò la storia naturale umana. I suoi successivi studi di catalogazione dei reperti raccolti prima e di comparazione dopo gli diedero la conferma dell'esattezza delle intuizioni di altri studiosi, in tempi precedenti e successivi, dall'antico Aristotele (Fisica II,8,2) fino a J.B. Lamarck (Filosofia zoologica 1809), a Ch. Lyell, amico e collega di
Darwin stesso con la sua teoria dell'attualismo e a G.Mendel con i Principi dell'ereditarietà, nel 1866. L'umanità fu messa al corrente d'una scoperta che mai avrebbe immaginato e che fece subito scalpore, non solo delle leggi della selezione naturale, ma pure dell'adattamento e dell'origine di nuove specie. Una selezione che avviene spontaneamente grazie a fattori ereditari ed ambientali, casuale comunque, nella quale le abitudini più vantaggiose vengono conservate, mentre quelle più sfavorevoli si perdono. Il processo è lento e secolare, a meno che qualcosa di traumatico non intervenga in natura, come per esempio la caduta d'un meteorite, a determinare improvvisi cambiamenti. La nascita di nuove specie si attua attraverso l'isolamento riproduttivo che viene a fissare le differenze nel tempo. Darwin chiamava così in causa la biologia, la genetica ed altre scienze ed indicava con il termine “differenziato” la maggior complessità dei geni nell'arco dell'evoluzione continua... Questa dallo stesso scienziato veniva paragonata all'albero della vita, nel quale le foglie rappresentano la multiforme varietà delle specie viventi, mentre il tronco ed i rami secchi i percorsi precedenti già estintisi. Se i precedenti fenomeni della trasformazione delle specie possono essere studiati grazie alla paleontologia che interviene a rivenire e comparare i fossili , anche le foglie dell'albero della vita, cioè i fattori biologici, genetici, embriologici, anatomici del presente possono spiegare il passato e far conoscere il cammino dell'evoluzione. E' di questi giorni la comunicazione del ritrovamento d'un fossile di 50 milioni di anni fa, dell'Eocene, molto somigliante al lemure del Madagascar che costituisce quello che era un anello mancante del passaggio dalla scimmia all'uomo. Il presidente della Paleontological Society, Philip Gingerichlo ha presentato al Museum of Natural History di New York insieme ad una fitta schiera di scienziati che vi hanno lavorato da quando è stato rinvenuto, un paio d'anni fa, in una cava abbandonata vicino Francoforte, già nota per il ritrovamento di altri fossili. Ci si chiedeva da tempo quale dei due gruppi di proscimmie, tra i Tarsidi che vivevano in Asia e gli Adapidi dell'America settentrionale e dell'Europa,fosse quello progenitore dell'uomo. Ora la risposta c'è e fa riferimento agli Adapidi. Il presente dunque può essere la chiave del passato, solo che "i fenomeni osservati sono il risultato d'una lenta accumulazione di piccoli effetti locali su enormi scale temporali.” Molte altre risposte devono venire alle legittime domande.
La teoria evoluzionistica è stata fin dal suo apparire avversata, specie dal mondo cattolico che ha visto in essa la negazione delle sacre scritture, così com'era avvenuto, nel Seicento, con la condanna di Galileo e del sistema eliocentrico. Venivano posti in discussione la dignità dell'uomo fatto ad immagine di Dio e il disegno d'una provvidenza divina che opera nella storia. Il fattore casualità che presiede alle leggi evoluzionistiche era decisamente considerato erroneo. La Chiesa condannò con Pio X, nell' Enciclica Pascendi, la corrente di pensiero che s'era fatta portatrice della nuova scoperta chiamata “modernismo”. Ed il dibattito tra creazionisti ed evoluzionisti ancora continua con fasi alterne, segnando vittorie degli uni e sconfitte degli altri, anche se ultimamente alcune correnti ecclesiali si dicono disposte ad accettare la tesi proposta da Darwin e sorretta da inconfutabili prove, sempre restando fermo il principio dell'intervento diretto di Dio nella creazione. Darwin non volle mai pronunziarsi contro le autorità religiose. In una sua lettera scritta nel 1879, a tre anni dalla morte, a chi gli chiedeva quale fosse il suo orientamento in merito alla fede, rispondeva: Non sono mai stato un ateo, nel senso di negare l'esistenza di Dio. Mi pare che generalmente, ma non sempre, la migliore definizione del mio pensiero sarebbe: agnostico...
Fuori dalla confessione religiosa tuttavia non a tutti piace sentirsi discendenti dalle scimmie. Già, a Londra, al tempo d'un acceso dibattito iniziale sulla scoperta, il primo ministro inglese B. Disraeli ebbe a dire:Darwin sarà anche disceso dalle scimmie, ma io discendo dagli angeli, mentre il biologo Th. Huxley, detto “il mastino di Darwin”, mise lungamente alla berlina le convinzioni dello scienziato inglese.
La questione è ancora aperta ed il cammino per la sua soluzione non sarà certo pacifico.

Gaetanina Sicari Ruffo

5 settembre 2009

- Gli scacchi esoterici.



Per il loro simbolismo gli scacchi sono il gioco più significativo, poiché al pari dei Tarocchi essi rappresentano gli elementi sia della vita che della filosofia.Chiamati il “gioco reale”, il passatempo preferito dai sovrani, essi nascono in India e in Cina per poi essere introdotti in Europa, come gioco fatto di esseri viventi mossi su pavimenti di marmo bianco e nero, dai principi dell’India Orientale, seduti sui sontuosi balconi.Qualcuno fa nascere il gioco nell’antico Egitto, ma dai documenti iconografici e dalle sculture, si è scoperto che il loro gioco assomigliava più alla dama che agli scacchi, mentre in Cina i pezzi erano intagliati per assomigliare ai re e ai principi delle dinastie al potere, come ad esempio i Ming o i Manchi.La scacchiera, composta di 64 caselle quadrate e alternate di colore bianco e nero simboleggia il pavimento (o piano) della Casa dei Misteri; in questo campo dell’esistenza o del pensiero si muovono delle figure intagliate, secondo una legge fissa.Un’altra chiave di lettura della scacchiera è l’analogia con i 64 ideogrammi del Libro dei Mutamenti, o I-Ching; la disposizione dei 64 “Kua” è un mandala simbolo dell’Essenza Incondizionata che porta ad esistere.Il Re Bianco è Ormuz, ed il Re Nero è Ahriman, e sul piano del cosmo rappresenta la grande guerra tra Luce e Oscurità, combattuta attraverso tutte le età.Della costituzione filosofica dell’uomo i Re rappresentano lo Spirito, le Regine la Mente, gli Alfieri le Emozioni, i Cavalieri la Vitalità, le Torri il Corpo Fisico.I pezzi schierati dalla parte del Re sono Positivi, quelli dalla parte della Regina Negativi; le pedine sono gli impulsi Sensori e le Facoltà Percettive, ossia le Otto Parti dell’Anima.Il Re Bianco è l’Io e i suoi Veicoli (o corpi), il Re Nero il Non – Io, o Falso Ego e le sue forze; in questo modo il gioco degli scacchi rappresenta l’eterna lotta tra ogni parte che compone l’uomo contro l’ombra ( o anti – parte) di sé stesso.La natura di ogni figura del gioco è rivelata dal tipo di movimento che la caratterizza, una geometria (sacra) del movimento: lineare il movimento del corpo (Torre), obliquo quello delle emozioni (Alfiere), mentre il Re (Spirito) non può essere catturato, ma perde la sua battaglia quando è circondato e non può che capitolare.Esiste anche un sistema di gioco detto degli scacchi Enochiani, utilizzato dall’Ordine della Golden Dawn, che si rifà al sistema degli scacchi Rosacrociani e si compone di quattro separate scacchiere, simboleggianti i quattro elementi, ed i pezzi posizionati nel loro interno raffigurano divinità egizie, (20 nobili e 16 pedine, analoghi in numero ai 36 Arcani Minori dei Tarocchi), che si muovono in modo leggermente differente dal giuoco tradizionale.In questa visione di gioco la concezione magico filosofica di base è quella delle Tavolette Enochiane e delle Chiamate Angeliche, e delle 16 figure geomantiche studiate e utilizzate anche da Alesteir Crowley nelle sue pratiche occulte.
Marco Grosso